Il guarany/Parte Prima/Capitolo IV
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CAPITOLO IV.
LA LOTTA.
Quando la cavalcata fece i primi passi in quel vano della foresta, fu spettatrice d’una scena singolare.
In piedi, nel mezzo dello spazio formato da quella gran vôlta d’alberi, accostato a un vecchio tronco schiantato dal fulmine, vedeasi un Indiano nel fior dell’età.
Una semplice tunica di cotone, che gl’indigeni chiamavano guarina, stretta alla cintola da una fascia di penne scarlatte, cadeagli dagli omeri fino al mezzo della gamba, e disegnava i contorni del suo corpo, sottile e svelto come un giunco silvestre.
Sopra la bianchezza diafana del cotone, la sua cute, color di rame, brillava con riflessi dorati; i suoi capelli neri, corti, la pelle liscia, gli occhi grandi, un po’ rivolti all’insù agli angoli esterni, la pupilla nera, mobile, scintillante, la bocca vigorosa, ma ben modellata e guernita di denti bianchissimi, davano al suo volto poco ovale la incolta bellezza della grazia, della forza e della intelligenza.
Cingeagli il capo una striscia di cuoio, cui erano assicurate dal lato sinistro due penne di struzzo variopinte, che descrivendo una spirale, scendeano a sfiorargli colle punte nere il collo flessibile.
Era alto di statura, con mani dilicate; e la gamba agile e nervosa, adorna di una resta di frutti giallognoli, appoggiavasi sopra un piede piccolo, ma saldo nell’andare e veloce al corso.
Assicurava l’arco e le freccie colla destra distesa lungo il corpo, e colla sinistra tenea verticalmente avanti di sè un lungo palo di legno a due rebbi, annerito dal fuoco.
Lì da presso, stesa al suolo, vedeasi una carabina filettata, una piccola borsa di cuoio, che dovea contener munizioni da caccia, e un vago pugnale fiammingo, il cui uso fu dappoi proibito in Portogallo e al Brasile.
In quell’istante teneva alta la testa, e gli occhi fissi in un ammasso di frondi, che si innalzava a venti passi di distanza e agitavasi impercettibilmente.
Colà, per entro quel fogliame, distinguevansi le ondulazioni feline di un dorso nero, brillante, screziato di giallo, e talvolta vedeansi luccicare nell’ombra due raggi vitrei e pallidi, che somigliavano i riflessi di qualche cristallizzazione di roccia, percossa dalla luce del sole.
Era una tigre smisurata, che colle zampe appoggiate sopra un grosso ramo di albero, e i piè di dietro quasi sospesi ad un altro più alto, raccoglieva il corpo, e si apparecchiava a spiccare il suo salto gigantèo.
Sferzavasi i fianchi colla larga coda, e movea la testa mostruosa come per aprirsi un’uscita tra il fogliame e spiccar il salto: una specie di riso sardonico e feroce contraevale le nere mandibole, e mettea a nudo una fila di denti giallognoli; le nari dilatate aspiravano con forza l’aria, e parea che già si confortassero coll’odor del sangue della vittima.
L’Indiano, sorridente e accostato con certa indolenza al tronco secco, non perdeva un solo di que’ movimenti, e aspettava il suo avversario colla calma e la serenità dell’uomo, che contempla una scena gradevole: appena la fissazione del suo occhio rivelava un pensiero di difesa.
In questo modo, per un breve istante, la fiera e il selvaggio si osservarono reciprocamente, gli occhi dell’uno in quelli dell’altro; dipoi la tigre raccogliendo il corpo accingeasi a spiccare il salto, quando comparve la cavalcata.
La fiera, gettando allora all’intorno un’occhiata iniettata di sangue, rabbuffò il pelo, e stette immobile nello stesso luogo, in forse di dover arrischiare l’assalto.
L’Indiano, che al movimento della tigre avea curvato lievemente i ginocchi e stretto con più forza il palo, addirizzossi di nuovo; e senza lasciare la sua posizione, senza levar gli occhi di dosso all’animale, vide il drappello che passava alla sua diritta.
Stese il braccio e fece colla mano un gesto da re; che re delle foreste era veramente, intimando ai cavalieri di continuare la loro via.
Alla mostra fatta da Loredano col moschetto di voler prendere la mira entro le frondi, l’Indiano battè col piè al suolo in segno d’impazienza, e accennando alla tigre e levando la mano al petto, sclamò:
— È mia!... è mia!
Queste parole furono proferite in portoghese, con pronuncia dolce e sonora, ma in tuono energico e risoluto.
Loredano sorrise.
— Per dio! professate un diritto ben originale! Non volete che si faccia offesa alla vostra amica?... E sia pure, signor cacico, continuò gettando il moschetto ad armacollo; ella ve ne saprà grado.
In risposta a cotesta minaccia, l’Indiano battè disdegnosamente colla punta del piede sulla carabina che stavagli davvicino, come per significare che se lo avesse voluto, già avrebbe abbattuto d’un colpo la tigre.
I cavalieri compresero il gesto; onde all’infuori della cautela necessaria in caso di qualche attacco diretto, non fecero alcun atto di voler toccare la fiera.
Tutto ciò seguì rapidamente, in un secondo, senza che l’Indiano perdesse un momento di vista il suo avversario.
A un segno di Alvaro de Sà i cavalieri si avviarono, e s’internarono di nuovo nella foresta.
La tigre, che col pelo ritto, osservava i cavalieri immobili, non avea ardito nè assaltare nè ritirarsi, per tema dei moschetti; ma non sì tosto li vide andar via, e internarsi nel fondo del bosco, mandò fuori un nuovo ruggito di allegrezza e di contento.
Udissi un fracasso di rami che si sfracellavano, come se un albero fosse rovinato nella foresta, e il ceffo negro della fiera comparve all’aperto; d’un balzo si era scagliata sopra un altro tronco, e avea messo tra sè e il suo avversario una distanza di trenta palmi.
Il selvaggio comprese immediatamente la causa di ciò: la tigre co’ suoi istinti carnivori, colla sua sete di sangue, avea visto i cavalli, e sdegnava l’uomo, come preda non acconcia a saziarla.
Colla stessa rapidità con cui formò cotesto pensiero, trasse dalla cintola una freccia sottile, che avea al più un palmo e mezzo di lunghezza, e tese la corda del grand’arco, che superava di un terzo l’altezza della sua persona.
Udissi un forte sibilo, che fu accompagnato da un bramito della fiera; la piccola freccia scoccata dall’Indiano andò a configgersele nell’orecchio; e poscia una seconda partita colla stessa rapidità le ferì la mandibola inferiore.
La tigre si era voltata minacciosa, terribile, aguzzando i denti l’un contro l’altro, ruggente di furia e di vendetta: in due salti avvicinossi di nuovo.
Era una lotta mortale quella che stava per impegnarsi; l’Indiano lo sapea, e aspettò tranquillamente come la prima volta; l’inquietudine per un momento, che gli sfuggisse la sua preda, si era dileguata: rimase soddisfatto.
Questi due selvaggi pertanto delle foreste del Brasile, ciascuno colle sue armi, ciascuno colla coscienza della propria forza e del proprio coraggio, guardavansi reciprocamente come una vittima che dovea essere immolata.
La tigre questa volta non esitò: appena si vide a una distanza di quindici passi dal suo avversario, si contrasse con una forza di elasticità straordinaria, e scattò come una scheggia di roccia schiantata dal fulmine.
Avventossi contro l’Indiano sostenuta sulle larghe zampe posteriori, col corpo diritto, le unghie sguainate per isgozzarlo, e i denti pronti per troncargli la giogolare.
La rapidità di questo salto mostruoso fu tale, che al tempo stesso in cui si videro luccicar tra le foglie i riflessi neri della sua pelle, la fiera già toccava il suolo colle zampe.
Ma stavale di fronte un avversario non meno terribile per la sua forza e agilità.
Come a principio, l’Indiano avea piegato un po’ i ginocchi, tenendo saldo nella sinistra il forcone, sua unica difesa; gli occhi sempre fissi magnetizzavano la fiera. Nell’atto che la tigre si spiccò, curvossi ancora più; e scansandosi col corpo, appresentolle i due rebbi.
Questi due movimenti furono quasi simultanei e tanto rapidi, che appena si distinse l’urto dei due corpi; la tigre cadendo colla forza del proprio peso e del salto contro quella croce che serrolle il collo, vacillò. Allora il selvaggio, tendendo il corpo colla flessibilità del serpente a sonaglio che scaglia il colpo, puntando i piè e le spalle nel tronco, lanciossi d’un balzo e cadde sul ventre della tigre, che soggiogata, stesa supina, colla testa confitta al suolo sotto il forcone, dibatteasi contro il suo vincitore, procurando aggrapparlo, ma invano, colle zampe1.
Questa lotta durò mezz’ora; l’Indiano co’ pie aggravati fortemente sulle due gambe della tigre, e il corpo inclinato sul forcone, tenea in tal modo immobile quella fiera, che poc’anzi correa la foresta senz’incontrare ostacoli sul suo passaggio.
Allorchè s’accorse che era quasi soffocata per lo strangolamento, e che non opponeva più che una debole resistenza, tenendo sempre saldo il forcone, mise la mano sotto la tunica, e ne trasse una corda di ticum2, che avea avvolta alla cintola in molti giri.
All’estremità di questa corda eranvi due lacci, che aperse co’ denti e passò nelle zampe anteriori, legandole fortemente insieme: poscia fece lo stesso alle gambe di dietro, e finì collo stringer bene anche le due mandibole, di modo che la tigre non potea aprire la bocca.
Fatto ciò, corse a un ruscelletto che scorrea lì presso; e riempiendo d’acqua una foglia di cajù agreste, resa concava, venne a spruzzare la testa della fiera; la quale a poco a poco rinvenne. Giovossi di quest’intervallo per rafforzare i lacci che la stringevano, e contro cui tutta la forza e l’agilità di lei sarebbero impotenti.
In questo istante una cotia3 timida e schiva comparve sul lembo di quel vano del bosco, e sporgendo un po’ in avanti il muso, tosto si ritrasse arruffando il pelo vermiglio e color di fuoco.
L’Indiano diè di mano all’arco, e l’abbattè poco stante nel mezzo del suo corso; dipoi raccogliendone il corpo ancora palpitante, e trattane la freccia, lasciò cadere sui denti della tigre le goccie di quel sangue caldo e fumante.
Non sì tosto la moribonda fiera sentì l’odor della carne e il sapore del sangue, che filtrando fra le zanne le entrò in bocca, fece una contorsione violenta, e volle mettere un urlo, che si perdè in un gemito sordo e soffocato. L’Indiano sorrideva vedendo gli sforzi che faceva per rompere le corde che la stringevano in modo da impedirle ogni moto, eccetto que’ contorcimenti di corpo in cui invano si dibatteva.
Per cautela aveale strette sin le dita le une alle altre per impedir che adoprasse le unghie lunghe e ritorte, che sono la sua arma più terribile.
Per un Europeo di passaggio in quel momento sarebbe stato spettacolo singolare veder quell’Indiano sottile di persona, dell’età al più di vent’anni, appoggiato sul suo lungo arco, tenere ai piè domato e virato quell’animale di una forza prodigiosa, quel re delle foreste americane.
Soddisfatto il piacere di contemplare il suo schiavo, l’Indiano spezzò nel bosco due rami secchi di biribà4, e strofinandoli rapidamente l’uno contro l’altro, trasse fuoco con quell’attrito, e si accinse a preparare la sua cacciagione pel desinare.
In poco d’ora ebbe ammannita cotesta selvaggia refezione, cui aggiunse alcuni favi di miele di una piccola ape, che fabbrica le sue cellette nel terreno.
Andò al ruscello, bevve alcuni sorsi d’acqua, lavossi le mani, il viso e i piedi, e si dispose a partire. Raccolse le sue armi, passò fra le zampe della tigre il suo lungo arco, che sospese all’omero; e traballando sotto al peso della fiera, che dibatteasi in contorsioni, prese il sentiero per onde si era avviata la cavalcata.
Alcuni momenti appresso, sul luogo di questa scena deserta, dal seno di un denso cespuglio videsi uscir fuori un Indiano interamente nudo, adorno soltanto di un grembiule di penne giallognole.
Gettò all’intorno un’occhiata di spavento, esaminò cautamente il fuoco che ancora ardeva, e gli avanzi della caccia; si gettò a terra tendendo l’orecchio, e rimase per alcun tempo in questa posizione.
Poco dopo si levò, e internossi di nuovo nella foresta, nella medesima direzione in cui l’altro si era messo un po’ prima.
Alla mostra fatta da Loredano col moschetto di voler prendere la mira entro le frondi, l’Indiano battè col piè al suolo in segno di impazienza, e accennando alla tigre, e levando le mani al petto, sclamò:
— È mia!... è mia!(Pag. 30.)
Note
- ↑ Questo modo di cacciare la tigre, che a molti parrà incredibile, è riferito da Ayres do Casal nella sua Topographia Brasilica. Ancora al dì d’oggi vi sono di quelli che cacciano nelle grandi foreste col forcone, con poco rischio o difficoltà: tanto vi sono assuefatti.
- ↑ Il ticum è una palma, de’ cui filamenti gli Indiani si servivano, come gli Europei del lino. Lo adoperavano nelle reti da pescare, nelle corde degli archi, e per altri bisogni; il filo preparato colla resina di almecega era fortissimo.
- ↑ Animale quadrupede dei rosicchianti.
- ↑ Il biribà era un albero, da cui gli indigeni traevano fuoco per mezzo dell’attrito, strofinando l’un pezzo contro l’altro.