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nell’ombra due raggi vitrei e pallidi, che somigliavano i riflessi di qualche cristallizzazione di roccia, percossa dalla luce del sole.
Era una tigre smisurata, che colle zampe appoggiate sopra un grosso ramo di albero, e i piè di dietro quasi sospesi ad un altro più alto, raccoglieva il corpo, e si apparecchiava a spiccare il suo salto gigantèo.
Sferzavasi i fianchi colla larga coda, e movea la testa mostruosa come per aprirsi un’uscita tra il fogliame e spiccar il salto: una specie di riso sardonico e feroce contraevale le nere mandibole, e mettea a nudo una fila di denti giallognoli; le nari dilatate aspiravano con forza l’aria, e parea che già si confortassero coll’odor del sangue della vittima.
L’Indiano, sorridente e accostato con certa indolenza al tronco secco, non perdeva un solo di que’ movimenti, e aspettava il suo avversario colla calma e la serenità dell’uomo, che contempla una scena gradevole: appena la fissazione del suo occhio rivelava un pensiero di difesa.
In questo modo, per un breve istante, la fiera e il selvaggio si osservarono reciprocamente, gli occhi dell’uno in quelli dell’altro; dipoi la tigre raccogliendo il corpo accingeasi a spiccare il salto, quando comparve la cavalcata.
La fiera, gettando allora all’intorno un’occhiata iniettata di sangue, rabbuffò il pelo, e stette immobile nello stesso luogo, in forse di dover arrischiare l’assalto.