Il guarany/Parte Prima/Capitolo V
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CAPITOLO V.
LE DUE FANCIULLE.
Si faceva sera.
Nel giardinetto della casa del Paquequer, una vezzosa fanciulla si dondolava indolentemente in un’amaca1 di paglia sospesa ai rami di un’acazia silvestre, che, commossa, lasciava cadere alcuni de’ suoi fiori minuti e profumati.
I suoi grandi occhi azzurri, semichiusi, di tratto in tratto si aprivano languidamente, come per bevere la luce del giorno, e poscia abbassavano di nuovo le palpebre rosate.
Le labbra vermiglie e umidette sembravano un fiore della gardenia2 de’ nostri campi, irrorato dal sereno della notte; il suo alito dolce e leggiero esalavasi formando un sorriso.
La sua carnagione bianca e pura come un fiocco di cotone tingeasi alle guancie di un colore di rosa, che sfumando andava a perdersi nel collo, mirabile per contorni soavi e dilicati.
Il suo abbigliamento era d’un gusto il più grazioso e originale che sia dato immaginare; era un misto di lusso e semplicità, di arte e di naturalezza.
Indossava sopra il vestito bianco di mussolina un leggiero guarnelletto azzurro, raccolto alla cintola da un fermaglio; una specie di ermellino color di perla, fatto colla pennamatta di certi uccelli, ne orlava il taglio e le maniche, facendo spiccare la bianchezza de’ suoi omeri e i bei contorni del suo braccio, posato ad arco sopra il seno.
I suoi lunghi capelli biondi, disposti negligentemente in volumi di ricche treccie, lasciavano a nudo la candida fronte e cadeano attorno al collo raccolti in una reticella finissima di fil di paglia color d’oro, fatta con un’arte e perfezione ammirabile.
La mano piccola, affilata, scherzava con un ramo di acazia, che si curvava carico di fiori; e a cui di quando in quando si sorreggeva alquanto per imprimere all’amaca una dolce oscillazione.
Questa fanciulla era Cecilia.
Quello che passava in quel momento nel suo spirito infantile, non è possibile a descriversi; il corpo cedendo a quella languidezza, che vien prodotta da una sera tranquilla, lasciava che l’immaginazione spaziasse a suo talento.
I tiepidi aliti delle aurette, che veniano carichi di profumi dalle madreselve e dalle acucene agresti, eccitavano ancora più quel dolce obblìo, e spiravano per avventura in quell’alma innocente qualche pensiero indefinito, alcuno di quei miti di un cuore di fanciulla a diciotto anni.
Sognava che una di quelle nuvole bianche, che passavano pel cielo annebbiato, sfiorando la punta delle roccie aprivasi di repente; e un uomo veniva a cadere a’ suoi piè timido e supplichevole.
Sognava che arrossiva, che un color vivo accendeva le rose delle sue guancie; ma a poco a poco quell’estasi casta iva dileguandosi, e terminava in un grazioso sorriso, che parea che l’anima si venisse a posare sulle sue labbra.
Col seno palpitante, tutta tremola e al tempo stesso contenta e felice, apriva gli occhi; ma volgeva altrove lo sguardo con ribrezzo, perchè in luogo del vago cavaliere che avea sognato, vedeva a’ suoi piè un selvaggio. Era allora assalita da uno di quegli accessi di collera di regina offesa, che faceva inarcarle i biondi sopraccigli, e battere sopra l’erba la punta del piede dilicato.
Ma lo schiavo supplichevole levava gli occhi tanto addolorati, tanto pieni di preghiere mute e di rassegnazione, che ella provava un non so che di inesprimibile, e rimaneva triste, triste, finchè fuggiva e ivasene a piangere.
Giungeva intanto il suo vago cavaliere, e le tergeva le lacrime, e sentivasi consolata e rideva di nuovo; ma conservava pur sempre un velo di malinconia, che solo a poco a poco la sua indole gaia riusciva a discacciare.
A questo punto del suo sogno la porticina interiore del giardino si aperse, e un’altra fanciulla, sfiorando appena l’erba col lieve suo piede, avvicinossi all’amaca.
Era un tipo al tutto differente da quello di Cecilia; era il tipo brasiliano in tutta la sua grazia e venustà, con quell’incantevole contrasto di languore, di malizia e di vivacità ad un tempo.
Gli occhi grandi e neri, il viso bruno e rosato, i capelli neri, le labbra disdegnose, il sorriso provocante davano a cotesto viso un potere di seduzione irresistibile.
Arrestossi in faccia di Cecilia, mezzo distesa sull’amaca, e non potè sottrarsi all’ammirazione che le inspirava quella bellezza dilicata, di contorni tanto soavi; e un’ombra impercettibile di cosa che parve dispetto, si pinse sul suo viso, ma svanì subito.
Si assise in uno dei lati dell’amaca, chinandosi sopra la fanciulla per baciarla o vedere se dormiva.
Cecilia, sentendo quel po’ di crollo, aperse gli occhi e li affisò nella sua cugina.
— Scioperatella!... disse Isabella sorridendo.
— È vero! rispose la fanciulla, vedendo le grandi ombre proiettate dagli alberi; è quasi notte.
— E da che il sole è alto che dormi, non è così? dimandò l’altra scherzando.
— No, non ho dormito neanco un istante; ma non so quello che mi abbia oggi, che mi sento malinconica.
— Malinconica! tu, Cecilia, nol credo; sarebbe più facile che non cantassero gli uccelli al nascere del sole.
— Dunque non vuoi crederlo!
— Ma vien qua! Per qual ragione hai da esser mesta tu, che per tutto l’anno vivi in un continuo sorriso, tu che sei lieta e scherzosa come un uccellino?
— Eppure è così! Tutto viene a noia in questo mondo.
— Ah! comprendo! Sei infastidita di vivere qui in questi eremi.
— Al contrario, sono tanto assuefatta a vedere questi alberi, questo fiume, questi monti, che li amo, come se mi avessero visto nascere.
— Dunque che è mai che ti rende mesta?
— Nol so; mi manca qualche cosa.
— Non veggo quello che possa essere. Sì! l’indovino!
— Che cosa indovini? domandò Cecilia maravigliata.
— Oh bella! quello che ti manca.
— Se io stessa nol so! disse la fanciulla sorridendo.
— Mira, rispose Isabella; quivi è la tua tortorella, che attende che la chiami, e il tuo capriolo, che li guarda co’ suoi dolci occhi; manca solo un altro animale selvaggio.
— Pery3! sclamò Cecilia, ridendo della facezia della sua cugina.
— Proprio lui! Non hai qui che due servi per i tuoi trastulli, e siccome ti manca il più goffo e il più sgraziato, vieni in uggia a te stessa.
— Ma ora mi sovviene, disse Cecilia, l’hai tu veduto oggi?
— No; non so che ne sia di lui.
— Partì prima di ieri a sera; che gli fosse accaduta qualche disgrazia! disse la fanciulla con un certo turbamento.
— Che disgrazia vuoi che gli possa accadere? Non va egli tutto dì scorazzando pe’ boschi e gironzando come una belva feroce?
— È vero!... ma giammai gli occorse di rimaner tanto tempo fuori, senza tornare a casa.
— Il più che possa accadere, è ch’egli sia stato preso di nuovo dal desiderio della sua vita antica e della sua libertà.
— No! sclamò la fanciulla con vivacità; non saria possibile che ci abbandonasse in questo modo!
— Ma che vuoi dunque che vada facendo per questo deserto?
— È vero!... disse la fanciulla preoccupata.
Cecilia stelle un momento col capo basso, quasi accorata; in questa posizione i suoi occhi caddero sopra il capriolo, che fissava in lei la sua nera pupilla con tutta quella languidezza e soavità, che la natura pose negli occhi di questi animali.
La fanciulla stese la mano, e scoccando lievemente le dita fe’ saltar d’allegria il vago animale, che venne a posare la testa nel suo grembo.
— Tu non abbandonerai la tua signora, non è così? diss’ella accarezzando colla mano il suo pelo morbido come seta.
— Non farne caso, Cecilia, replicò donna Isabella, osservando la mestizia della fanciulla; chiederai a mio zio che te ne cacci un altro, che farai addimesticare, e diverrà più mansueto del tuo Pery.
— Cugina, disse la fanciulla con un lieve tuono di riprensione, tratti molto ingiustamente questo povero Indiano, che non ti fece alcun male.
— Ascolta, Cecilia, come vuoi che si tratti un selvaggio, che porta la pelle oscura e il sangue vermiglio? Tua madre non dice che un Indiano è un animale come un cavallo, o come un cane?
Queste ultime parole furono proferite con un’amara ironia, che la figlia di Antonio de Mariz comprese perfettamente.
— Isabella!... sclamò risentita.
— So che tu non la pensi così, Cecilia; e che il tuo buon cuore non guarda al colore del volto per far giudizio dell’animo. Ma gli altri?... Credi tu che non mi accorga del disdegno con cui mi trattano?
— Già ti dissi più d’una volta che questa è una tua immaginazione; tutti ti amano e ti rispettano come è dovere.
Isabella crollò il capo tristamente.
— A te sta bene il consolarmi; ma tu stessa vedesti se ho ragione.
— Senti, un istante di mal umore di mia madre...
— È un istante ben lungo, Cecilia! rispose la fanciulla con un amaro sorriso.
— Ma ascolta, disse Cecilia passando il braccio alla cintola di sua cugina, e chiamandola a sè, tu ben sai che mia madre è una signora molto severa anche con me stessa.
— Non ti adirare, cugina; ma questo solo serve per provarmi viemeglio quanto già ti confessai: in questa casa tu sola mi ami, i più mi sprezzano.
— Ebbene, replicò Cecilia, io ti amerò per tutti; già non ti chiesi di trattarmi come sorella?
— Sì! e ciò mi causò un piacer tale, che non puoi immaginare. Se io fossi tua sorella!...
— E perchè non hai da esserlo? Voglio che tu lo sii!
— Per te, ma per lui...
Questo lui fu mormorato tanto basso, che Cecilia non l’udì.
— Ma bada; mi viene in capo una cosa.
— Quale? dimandò donna Isabella.
— Ch’io sarò la sorella più vecchia.
— Ancorchè sii più giovane?...
— Non imporla! Come sorella più vecchia, mi devi tu obbedire?
— Certamente; rispose la cugina, senza poter lasciar di sorridere.
— Ebbene! sclamò Cecilia baciandola in volto, non ti voglio veder mesta, hai inteso? Altrimenti vado in collera.
— E tu non eri mesta poc’anzi?
— Oh! già ogni mestizia è svanita! disse la fanciulla balzando lievemente dall’amaca.
Infatti quel dolce languore, ond’era stata presa poco prima, vaneggiando sopra un infinito numero di oggetti, erasi dileguato per intiero: la sua indole giovanile, gaia e festevole avea ceduto per un istante a quell’ambascia, ma facea di nuovo ritorno.
Era adesso come sempre una fanciulla di buon umore e faceta, spirante tutta quella grazia, mista di innocenza e spensieratezza, propria di chi vive all’aperto in mezzo ai campi.
Levandosi in piedi, essa contrasse le labbra vermiglie a guisa di un bottone di rosa, e imitò con una grazia incantevole la dolce garrulità della jurity; e immediatamente una tortorella saltò dai rami dell’acazia, e venne a posarsi sul suo seno, ebbra di piacere al contatto della manina che accarezzava la sua morbida piuma.
— Andiamo a dormire, diss’ella alla bestiuola con quelle paroline tronche per vezzi, con cui le madri sogliono favellare ai pargoletti di fresco nati: tu hai sonno, non è vero?
E lasciando la cugina un momento sola nel giardino, andò a ricoverare i suoi due compagni di solitudine, con tanta tenerezza e tanta sollecitudine, che ben appariva la copia di sentimento che albergava nel fondo di quel cuore, ascosa dalla grazia infantile del suo spirito.
In quell’istante si udì il rumore di una torma di bestie vicino alla casa; donna Isabella gettò gli occhi sulla riva del fiume, e vide un drappello di cavalieri, che entrava nella piccola valle.
Mandò un grido di meraviglia, di allegrezza e di affanno al tempo stesso.
— Che è? dimandò Cecilia correndo all’incontro della sua cugina.
— Sai chi è arrivato?
— Chi?
— Il signor Alvaro e gli altri.
— Ah!... sclamò la fanciulla arrossendo.
— Non trovi che tornano molto presto? dimandò Isabella, senza badare al turbamento di sua cugina.
— Molto; che sia accaduta qualche disgrazia!
— Soli diciannove giorni... disse Isabella macchinalmente.
— Contasti i giorni?
— È presto fatto! rispose la fanciulla arrossendo alla sua volta; dopo dimani fanno tre settimane.
— Andiamo a vedere le belle cose che ci recano!
— Ci recano? ripetè Isabella caricando su questa parola con un tuono di malinconia.
— Sì; perchè raccomandai loro per te una collana di perle. Ti debbono star bene le perle con quel viso color di jambo! Sai che io t’invidio quel tuo bel bruno, cugina?
— E io darei la mia vita per avere la tua bianchezza, Cecilia.
— Mira! il sole sta quasi per tramontare! andiamo.
E le due fanciulle si avviarono per l’interno della casa, dirigendosi alla porta d’ingresso.
Note
- ↑ Letto pensile de’ Brasiliani.
- ↑ È il nome scientifico, che F. Velloso nella sua Flora Fluminensis dà all’açucena silvestre; ve ne sono di vari colori; il più comune è il bianco e lo scarlatto.
- ↑ Pery è una parola della lingua guarany, che significa — giunco silvestre. Tutti i nomi degli indigeni brasiliani erano ordinariamente o di animali o di alberi, come avviene presso tutti i popoli selvaggi.