Il fanciullo nascosto/Il tesoro
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Il tesoro.
Quell’anno il contadino Gian Gavino Alivesu seminava il suo grano intorno alle rovine d’una chiesa, vicino al mare. Era un terreno aspro, duro da lavorare, e sebbene l’avesse avuto quasi per niente Gian Gavino si pentiva d’averlo preso. Ogni tanto, in quei pomeriggi ancora caldi d’autunno, dopo aver sudato a estirpare qualche grossa radice di lentischio o a buttare lontano dei sassi, si sollevava con la mano sulla schiena e guardava la linea verde del mare pensando che, dopo tutto, la miglior vita è quella degli eremiti. La leggenda ne faceva morire uno lì, fra le rovine della chiesa, uno che era campato centosette anni e nessuno, del resto, lo aveva veduto morire; tanto che Gian Gavino, ancora adolescente e di cuore semplice, a volte zappava piano per timore di ritrovarne e disturbarne le ossa. Sì, pensava curvandosi di nuovo sulla sua zappa, la vita degli eremiti è la migliore. Che fanno gli eremiti? Niente: mangiano quello che trovano, come gli uccelli, dormono e non cadono in peccato; pace in terra e pace nell’altro mondo. Anche i ricchi, per esempio, non fanno niente, è vero: ma e i peccati che commettono? Se sono gente di cuore buono, timorati di Dio, finiscono anche loro col cercare la solitudine e la povertà, come il suo omonimo, per esempio, l’antico avvocato don Gavino Alivesu (non erano parenti), che dopo aver studiato e dopo aver mangiato denari e conosciuto molte terre lontane, adesso viveva solitario, sempre chiuso nella sua casa, eccola laggiù all’orizzonte, bianca, alta quasi come il campanile sopra la linea sfrangiata delle casupole del paesetto. Per guardare meglio laggiù il piccolo contadino si solleva ancora fra i sassi e le radici dei lentischi arsi, con la mano sulla schiena. La fatica è ben rude: ma del resto è Dio che comanda di lavorare. Il sole però scompariva tra i vapori rossi sopra il confine del litorale già triste di sonno, ed egli pensò che era bene riposarsi anche lui. Fretta non aveva, ricco non voleva diventare: a che serve la ricchezza? A prender moglie? Le donne non lo volevano, così semplice, brutto e orfano come era: ricco lo avrebbero voluto per i soldi, non per amore, e sempre si tornava al peccato: eppoi le donne sono brave a mangiar denari, e anche la leggenda diceva che l’eremita era scappato dalla Spagna e venuto nella costa solitaria per causa di una donna; e anche don Gavino Alivesu, sebbene avvocato, era stato, dicevano, maltrattato dalle donne. Tant’odio aveva concepito di loro che, dopo essersi ritirato nella sua bicocca, non voleva più vederle neppure dipinte: riceveva solo uomini, uomini che andavano a domandargli consiglio. Dapprima erano pareri per le loro liti e le loro questioni; poi lo avevano a volte pregato di fare da paciere e definire all’amichevole qualche controversia; poi col tempo egli era diventato la coscienza del paesetto e tutti ricorrevano a lui come ad un uomo di Dio, superiore alle falsità umane, certi della sua verità e sopra tutto del suo segreto e del suo fermo consiglio. Anche le donne mandavano da lui gli uomini, poichè non potevano andarci loro e la fattucchiera del paese aveva perduto quasi tutta la sua clientela.
Gian Gavino però non lo conosceva neppure di vista; non aveva mai avuto bisogno di consigli, e di solito si rivolgeva a Dio quando gli occorreva qualche piccola cosa. Del resto da qualche tempo si parlava poco di don Gavino Alivesu; la gente oramai ha pochi scrupoli di coscienza, anche perchè si commette meno il male; si va in America, si ha bisogno del passaporto, del foglio di via pulito, e per fare fortuna, oramai, bisogna essere onesti.
Se Gian Gavino pensava al nobile solitario era perchè nella sua fantasia lo vedeva accanto all’eremita della chiesetta, seduti entrambi in riva al mare, giù fra gli scogli battuti dall’onda e dal volo dei gabbiani e delle aquile marine.
Così, dopo aver guardato di nuovo verso il mare, ritirò la zappa che aveva ficcato sul suolo duro. E con la terra smossa vide venire su come un grosso seme giallognolo schiacciato. Lo raccolse, lo guardò sulla palma della mano e sentì le ginocchia piegarsi e tremare come gli avessero dato un colpo forte alla schiena. Sì, era una moneta d’oro.
Tutto cominciò a girargli attorno; il mare andava di là verso il paese, il paese verso il mare; e in tanta confusione egli con le ginocchia a terra scavava scavava, con le mani e con la zappa, raccogliendo dalla terra smossa le monete che venivano sempre fuori come da una sorgente nascosta. Se ne pienò le tasche, se le buttò in seno: poi le depose sull’orlo della buca e continuò a scavare, ansante selvaggio; adesso, no, non la sentiva più la fatica, avrebbe passato così tutta la vita, piegato nella penombra, col sudore che gli pioveva giù lungo le guance e cadeva fino alle viscere della terra.
Ma a una certa profondità non vennero più fuori che dei cocci di creta nerastra che a toccarli si rompevano e si scioglievano in polvere: egli tuttavia cercava, cercava, affondando il braccio fin dove poteva, col petto a terra e il viso tragico rivolto ad occidente. Quando si convinse che non c’era più nulla sedette sulla terra smossa, con le monete in mezzo alle gambe, e infantilmente cominciò a contarle. Erano tante e tante, tutte d’oro. Bastava pulirle della terra e sfregarle con una foglia per farle luccicare. Dove metterle? Riprese i cocci e tentò di rifare la brocca: ma subito si accorse ch’era diventato come pazzo e sospirò profondamente.
*
Per giorni e giorni tenne il tesoro nascosto nella sua tasca di cuoio: ma aveva paura che glielo rubassero e ci dormiva sopra, o meglio, pensando a quello che doveva fare, non dormiva più. Non tornava più in paese per paura che gli venisse la tentazione di spendere una moneta e così rivelare il suo segreto e sottoporsi al pericolo che il tesoro gli venisse preso. Aveva paura della Giustizia: sapeva che i tesori appartengono in parte al padrone della terra ove sono stati ritrovati e in parte al Governo: così a lui avrebbero dato una minima parte e tutti avrebbero riso di lui. E aveva paura delle donne, il fuoco le avvampi, che si sarebbe ro gettate su lui come le aquile marine sugli agnelli smarriti nella landa. E più di tutto aveva paura dei parenti presso cui viveva e che sempre lo avevano deriso come un semplice, un buono a niente. Voleva dimostrare a loro, o meglio a sè stesso, che era furbo come gli altri, che anzi era più furbo degli altri. Così mangiava poco per conservare il più a lungo possibile la sua provvista e non essere costretto a tornare in paese: e lavorava con la tasca di cuoio infilata alle braccia sopra le spalle. Ma un giorno le provviste finirono ed egli dovette tornare in paese. Così gli venne in mente di domandare consiglio a don Gavino Alivesu.
La casa di don Gavino Alivesu era sempre aperta a tutti: una scaletta esterna conduceva dal cortile erboso solitario al piano superiore, e Gian Gavino salì dritto col suo carico, senza chiedere permesso. Si trovò in una stanza nuda, col soffitto di legno ov’era aperta una botola attraverso la quale si vedeva il soffitto della stanza superiore: e stette a guardare col viso per aria come Giaffà, il semplice della novella sarda, quando sua madre gli buttava dalla finestra le fave con le quali si nutriva. Sì, tutti erano ricevuti da don Gavino Alivesu: ma come facevano ad arrivare fino a lui?
— Ohooo! Gente?
Allora fu mandata giù per la botola una scala a piuoli ed egli vi si arrampicò traballando, col suo carico sulle spalle. Invece dell'eremita con la barba bianca vide, appena messa fuori la testa dalla botola, un uomo giovine ancora, grasso, con la barba nera intorno al viso bruno e ardente, che scriveva seduto a un tavolo accanto alla finestra aperta dalla quale si vedeva la landa fino al luogo dove Gian Gavino seminava il suo grano. Il mare sembrava lì vicino, fra un libro e l'altro sopra la tavola.
Ma quello che più meravigliò Gian Gavino fu di vedere una donna alta e forte, una gigantessa pallida, che rifaceva il letto e a un cenno del padrone di casa scese giù per la botola raccogliendosi le gonne intorno alle gambe. Era una straniera che Gian Gavino qualche volta aveva veduto a cavallo, sola, nello stradone; che andasse a fare egli non sapeva perchè non s'era mai curato dei fatti altrui: ad ogni modo forse don Gavino Alivesu aveva cambiato parere riguardo alle donne.
Ma quando il solitario, volgendosi un poco con la penna in mano gli domandò: — Che vuoi? — egli aprì la bocca ma non potè parlare. No; non poteva. L'uomo che era davanti a lui con la penna in mano rassomigliava a tanti altri, al Sindaco, per esempio, di cui era parente, al Medico, al signor Pretore. E perchè scriveva? A chi scriveva? Gian Gavino ricordava d'essere stato una volta a Nuoro, come testimone, ed era stato ospite nella casa del padrino d'un suo parente, e nel cortile, alla sera, aveva raccontato una storiella alle serve e alle ragazze sedute al fresco: ebbene, una di queste ragazze, che scriveva, aveva poi stampato la storiella sul foglio; e nel paese l'avevano letta, il maestro e il pretore, e avevano riso di lui, Gian Gavino, e anche di lei, della figlia del padrino del parente. No, egli aveva paura della gente che scriveva.
— Ma, dunque? — domandò il nobile solitario, con pazienza, guardandolo bene in viso coi suoi begli occhi neri vivaci. — Che vuoi?
— Niente, mi scusi, mi perdoni del disturbo. Volevo.... volevo domandarle, chi è quella donna?...
Accennò con la testa alla botola, ammiccando un poco: e l’uomo rise come un fanciullo mostrando tutti i suoi denti bianchi lucenti.
— Ho capito, — disse rivolgendosi verso il tavolo.
— Chi è? Chi è? — insisteva ammiccando Gian Gavino.
— Oh per questo è una brava donna: è vedova, ha qualche cosa. Viene ogni tanto qui per consultarmi per una sua lite. È di buona gente, ma credo che se vorrà riprendere marito i suoi parenti non le metteranno impedimento. Bravo, bravo. Vuoi che la chiami?
— No, ci parlerò io, se la vossignoria permette....
— Bravo, bravo. Di quali sei tu? Fai il massaio o il pastore?
— Il pastore, — disse Gian Gavino.
Non sapeva perchè aveva paura di quell’uomo, di quegli occhi neri il cui sguardo lo percorreva tutto e pareva penetrasse anche dentro la tasca.
— Stia con Dio, — salutò in fretta, indietreggiando fino alla botola: e se ne andò ma il nome di Dio gli dava come un senso di tristezza.
Ecco che peccava: aveva mentito, aveva diffidato di quell’uomo benefico, aveva finto d’interessarsi a una donna straniera, a una vedova sola che infine non lo molestava. Tornato giù la vide immobile come ad aspettarlo in fondo alla scaletta, fissandolo coi suoi enormi occhi di gigantessa. Gli sembrò che ella avesse ascoltato e sentito ogni cosa, e arrossì passandole davanti e salutandola appena con un cenno del capo.
Ma mentre se ne ritornava alla sua solitudine, col suo carico sulle spalle e mille inquietudini in cuore, la rivide. Forte, calma, seduta a cavalcioni su un piccolo cavallo rosso, ella fissava davanti a sè lo stradone litoraneo; raggiunto Gian Gavino mise il cavallo al passo e guardò il giovine dall’alto; ed egli arrossì una seconda volta. Così fecero amicizia. Ella parlava bene e non rideva mai; raccontava che non aveva paura a viaggiare sola anche di notte: e se occorreva si travestiva da uomo, e una volta era stata fermata dai banditi; ma fidando in Dio si va avanti sempre incolumi.
— E tu, — gli chiese dall’alto, — perchè hai chiesto di me? Che intenzioni avevì?
— Buone. Ma.... è che ti avevo veduto a cavallo e mi sembravi meno alta. Io sono troppo basso per te.
— Davanti a Dio siamo tutti della stessa statura.
Era la prima donna che gli parlava così, ed egli si sentì battere il cuore, ma il palpito si ripercoteva fin dietro la spalla sotto la tasca dura del tesoro ed egli diffidò di nuovo. Forse la donna sapeva e gli faceva la corte per i suoi denari.
Quando si lasciarono la seguì con gli occhi tristi; e nella notte inquieta ebbe l’idea di nascondere il tesoro nei crepacci della scogliera dove non arrivavano che le aquile marine. Era sempre in tempo a riprenderlo dopo che la donna, se era proprio come si dimostrava, lo avesse voluto povero. S’incamminò dunque: era una notte d’autunno, azzurra, chiara di luna, con un grande serpente d’oro dentro il mare, e sotto la scogliera a picco l’acqua immobile che sembrava latte. Fin da bambino egli conosceva i crepacci dove le aquile fanno il loro nido e non tardò a trovarne uno adatto per lui: vi lasciò la tasca, ma tornando alla sua capanna si pencolava da un lato scuotendo la testa pensieroso, incerto, già pentito: e non potè dormire nè aver pace finchè all’alba non tornò per riprendersi il tesoro. Adesso tutto era azzurro e sangue nel mare e sotto la scogliera l’acqua era così ferma che rifletteva l’ombra dei gabbiani e delle aquile a volo.
L’uomo solo era tetro fra tanta calma; cercava cercava fra i crepacci, ma il sole sorse ed egli non aveva ancora ritrovato il tesoro; finalmente gli parve di vedere come un animale morto galleggiante lontano; e intese la verità. Le aquile credendo la tasca una bestia l’avevano portata via e poi lasciata cadere in mare.
E Gian Gavino se ne tornò e cominciò ad aspettare che la donna, almeno, ripassasse: ma la donna non ripassò mai più.