Il fanciullo nascosto/Sotto l'ala di Dio

Sotto l'ala di Dio

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Il tesoro La parte del bottino

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Sotto l’ala di Dio.

Gian Gavino Alivesu aveva finalmente risolto il problema che da tanti anni lo molestava: vivere in pace lontano dagli uomini e sopratutto dalle donne, senza troppo lavorare per sostentare il corpo e senza troppo mortificarsi per salvare l’anima. A trent’anni era ancora selvaggio e semplice come da ragazzino quando aveva paura del diavolo ma anche di Dio. Un tempo, anni prima, arando un terreno per seminarvi il grano, aveva trovato un tesoro e lo aveva buttato in mare a causa di una donna: era però una storia che gli sembrava un sogno e neppure osava raccontarla perchè ne sentiva tutta la parte assurda e ridicola. Veramente il tesoro egli non lo aveva buttato; l’aveva nascosto fra gli scogli, in una costa selvaggia, entro una [p. 40 modifica]tasca di cuoio: e le aquile marine, credendo la tasca un animale, l’avevano presa e poi lasciata cadere in mare. Gian Gavino avrebbe potuto anche riprenderla, poichè per molti giorni l’aveva veduta galleggiare appunto come un animale morto; ma aveva paura dell’acqua, non sapeva nuotare e il luogo era deserto. Aveva anche, dopo, percorso più volte la costa con la speranza che il mare rigettasse a terra il tesoro: in ultimo s’era rassegnato; ma conservava nel cuore un fondo di rancore, una diffidenza terribile contro le donne. Ancora adesso, seduto sullo scalino della chiesetta di cui era eremitano, cioè guardiano senza compenso, fissava la linea del mare che si alzava e si abbassava al vento lieve di levante respirando come un petto umano, e respirava anche lui, così, al ricordo delle sue vicende andate, pensando che finalmente il diavolo lo lasciava in pace. Ma bastò che volgesse gli occhi alla brughiera, tutta palpitante anch’essa nel caldo mattino di giugno, per accorgersi del suo inganno. Appunto una donna, malanno le colga tutte, s’avanzava nel sentieruolo giallo tra il verde, precedendo di qualche passo un carro trai[p. 41 modifica]nato da buoi e coperto da una rozza tenda di sacchi.

La donna era ancora lontana, e si distingueva appena la sua figura nera con qualche scintillìo al petto e alla cintura; ma Gian Gavino la riconobbe subito al battito del suo cuore. Era proprio lei, Barbara Sau, la padrona di tutte le terre intorno e della chiesetta ch’ella aveva riedificato a sue spese sulle rovine di un’altra, le rovine fra le quali appunto Gian Gavino aveva ritrovato il tesoro.

Eccola che s’avvicina; è sempre lei, quale Gian Gavino l’ha conosciuta da ragazzo e poi da giovane quando andava a pagarle il fitto del semenerio, e poi da servo in casa di lei, dopo la morte di Battista Sau il marito: sempre agile, bella, alta, col viso roseo lucido entro la cornice nera della benda, gli occhi neri sfavillanti. Camminava rapida dondolando un po’ il busto che pareva volesse staccarsi dai fianchi fermi e dalla vita sottile stretta da una cintura di lustrini neri; e in breve si lasciò di molto indietro il carro e fu davanti a Gian Gavino per avvertirlo di che si trattava. [p. 42 modifica]

— Si tratta di mia figlia, povera tortora; ha sempre le febbri e il dottore ci ha mandato qui per l’aria di mare. Allora tu, cuoricino mio, — come stai? ti sei ingrassato, Dio ti guardi, — avrai pazienza e dormirai nella capanna che il servo ti aiuterà a costrurre; per pochi giorni noi abiteremo qui nella tua stanzetta.

Gian Gavino non s’era neppure alzato; e neppure la guardava; guardava l’erba ai suoi piedi e rispose con voce sorda:

— Ma che capanna! Al diavolo la capanna.

Non si commosse neppure nel veder tirar giù dal carro la ragazza, fina fina, lunga lunga, coi piedi e le mani inerti e il viso giallo segnato appena dall’ombra livida delle palpebre e della bocca angosciata. Stesa sul materasso e sui sacchi di lana che il servo aveva tirato giù dal carro e disposto all’ombra della chiesetta, parve più pallida e più morta sotto l’azzurro intenso del cielo: la madre, giovine e forte, la guardava con pietà; inginocchiata sull’erba le sollevava la testa e le accomodava le vesti intorno ai piedi immobili; ma non dimenticava le altre cose della vita e dava ordini al servo che si moveva con indolenza. [p. 43 modifica]

— Dopo, appena acceso il fuoco, farai la capanna per te e per l’eremitano.

Diceva «l’eremitano» con rispetto ma anche con lieve ironia; e col medesimo tono il servo si volse a Gian Gavino fermo sempre al suo posto.

— E muoviti, statua! La capanna è più per te che per me: a me l’aria fresca fa bene.

Cominciò a piantare i piuoli, dietro la chiesetta; ma infastidito dagli inviti ad aiutare, Gian Gavino si alzò e brontolò, allontanandosi:

— Al diavolo la capanna e voi tutti.

*

Non fu più veduto per tutta la giornata.

— Gesù mio, s’è offeso; ma come fare? La ragazza ha bisogno di riparo, — ripeteva Barbara: — d’altronde il tempo è caldo, ed egli non morrà stando all’aperto.

— E lascialo stare, — disse il servo. — Tutti i santi son dispettosi.

— Sì, fa troppo caldo, per questa stagione, — ella riprese, seduta accanto al servo sullo [p. 44 modifica]scalino della porta, mentre volgeva ogni tanto il viso a guardare la figlia assopita nella stanzetta dell’eremitano.

Infatti il vento era cessato ma lasciando l’aria calda e il cielo un po’ torbido. Apparivano le stelle, lontane, rossastre, si respirava l’odore del mirto e dell’alloro selvatico, e il mare, in lontananza, pareva limasse la costa come un prigioniero di notte la sua inferriata.

— Però non lo credevo così dispettoso, — raccontava la donna. — È poi anche ingrato. L’ho tenuto due anni in casa mia come un parente, e quando s’è ammalato, ricordi, tu non eri ancora al mio servizio, l’ho curato io con queste mani, e dopo la malattia, poichè era debole, lo tenevo al caldo e in riposo come un neonato. Come siamo stupide noi donne! E dopo volle andarsene, ed io gli permisi di stare qui finchè voleva, e di seminare, anche, se vuole, senza mai chiedergli conto di nulla....

— Tu sei una donna di Dio; lo sappiamo tutti che sei una donna di Dio, — mormorò il servo con ammirazione sommessa; ma ella trasalì, come si fosse scottata. Ah, anche [p. 45 modifica]Gian Gavino parlava così, un tempo: ed ella, adesso, si sentiva ferita se qualcuno l’adulava.

— Vattene a dormire, — disse con voce dura; e l’altro obbedì.

Rimasta sola sperò ancora che Gian Gavino tornasse. Si dava pena per lui; gli serbava, in fondo, un’affezione materna: e nello stesso tempo lo odiava.

Finalmente rientrò e chiuse, ma prima di coricarsi prese l’ampolla dell’olio e andò per alimentare la lampada della chiesetta, attraversando la sagrestia che era attigua alla stanzetta e comunicava con essa. E ai piedi dell’altare, raggomitolato sul vecchio drappo giallo che serviva da tappeto, seduto sullo scalino, con la testa sulle ginocchia, vide Gian Gavino che dormiva e russava.

Fu per indignazione che lo toccò col piede per svegliarlo. Egli sollevò il viso e aprì gli occhi spaventati, ma si ritrasse ancora più verso l’angolo dell’altare, mettendo la testa sotto il lembo della tovaglia come per ripararsi. E continuava a guardare silenzioso la donna, sfidandola, ma nello stesso tempo pauroso di lei. [p. 46 modifica]

— Vattene subito fuori! Subito! — ella disse con furore. — Non ti vergogni? E tu sei il guardiano, e ti metti a dormire ai piedi dell’altare?

Intanto versava l’olio nella lampada, ma le mani le tremavano e l’olio calava torcendosi come un serpentello d’ambra.

Vinta dal silenzio e dalla paura di Gian Gavino, si calmò un poco e rise anzi, sommessa, chinandosi a guardarlo e a fargli un cenno col capo.

— Ebbene? E perchè fai così?

— Sì, sì, — egli disse allora, — perchè sapevo che venivi a molestarmi. Fin qui sei venuta! Mi vuoi riprendere.... mi vuoi far ricadere nel peccato.... Vattene via tu, diavola: sono sotto l’ala di Dio.... io.... Non mi toccare! Non mi toccare!

— Ah, pezzente! E chi ti tocca? Non parlavi così quando ti curavo ed eri senza nessuno come un cane randagio. Allora mi leccavi i piedi, e minacciavi di incendiare tutto, di rompere tutto se non diventavo la tua amica. E adesso ti metti sotto l’ala di Dio. Fuori! Subito! O chiamo il servo e ti faccio cacciar via a colpi di pietra.... [p. 47 modifica]

Ma egli non parlava più, non si moveva, col lembo della tovaglia sul capo. Allora la donna buttò per terra l’ampolla che si ruppe, e si aggirò due volte intorno a sè stessa, smarrita, come cercando qualche cosa che l’avvolgeva eppure le sfuggiva. L’umiliazione e la rabbia le davano una forza terribile: sospirò forte, guardò con occhi smarriti il Cristo che dietro il vetro della nicchia pareva perdersi in un’acqua profonda, e infine afferrò Gian Gavino per il braccio e lo tirò giù, giù, per i gradini dell’altare, per i gradini dell’abside, e come egli tentava di resistere afferrandosi alla balaustrata, gli staccò con le unghie le dita dal legno, e continuò a trascinarlo giù per la chiesetta, e arrivata alla porta ne fece saltare con l’omero la spranga e aprì con una mano sola senza lasciare con l’altra l’eremitano, anzi spingendolo col ginocchio e buttandolo fuori come un corpo morto. Egli cadde sull’erba dorata dalla luna sorgente, si alzò, barcollò di qua e di là come se la terra gli si bucasse sotto i piedi, e infine parve ritrovare l’equilibrio e si scosse tutto come un animale che si sveglia.

Barbara intanto aveva chiuso la porta, an[p. 48 modifica]sante per la sua vittoria, e provava voglia di ridere pensando che dopo tutto Gian Gavino s’era messo sotto l’ala di Dio per sfuggire alle tentazioni di lei; ma in fondo sentiva anche un po’ di paura. Rimessa la spranga tolse la chiave e guardò dal buco della serratura. Egli era lì, davanti alla porta, e pareva la vedesse e l’aspettasse, truce, pronto alla vendetta.

Allora fu lei che andò a mettersi sotto l’altare: asciugò l’olio dal tappeto, raccolse i frantumi dell’ampolla, e con essi fra le mani molli d’olio s’inginocchiò e si mise a piangere. Il sudore che nello sforzo della lotta le aveva inumidito tutta la persona le si raffreddava addosso come un velo di ghiaccio, ed ella tremava d’umiliazione e di terrore perchè sentiva che era ancora lei la più debole, la più bisognosa dell’ala tiepida di Dio.