Il diavolo, novelle valdarnesi/Lo Specchietto
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LO SPECCHIETTO
.... ad un tratto si vede comparire davanti nello specchio il suo cognato e il suo nipote....
LO SPECCHIETTO.
Paccheri voi non l’avete conosciuto, stava alla Casa al vento, a quella piccina, nera, proprio in cima della montagna. Era un vecchietto tutto ricurvo, ma asciutto e vispo come se avesse avuto vent’anni. Non si fermava mai un momento; la sera si vedeva sempre gironzare col lume ora per la casa, ora per la stalla; la mattina - o estate o inverno che fosse - era sempre fuori innanzi giorno; dico che non dormisse mai. Fu lui che andò a Firenze allo Specchietto.
Era di battitura. Paccheri aveva bell’e pulito e insaccato una parte del grano per portarlo il giorno dopo nella casa di sotto, dove aveva più comodo. La mattina Paccheri si leva e vede che gliene manca un sacco. Non la fece più finita; non fece che bestemmiare e mandare imprecazioni, girando indiavolato dall’aia a casa e da casa all’aia e mettendo ogni cosa sottosopra.
La sera finirono di pulire e d’insaccare il resto del grano, ma non ebbero tempo per portarlo via.
— Stanotte non voglio che mi succeda come in quella passata, — disse Paccheri; — un sacco gli deve bastare! — E vicino al grano, lì alla capanna, ci fece stare a dormire il suo cognato e il suo nipote, che erano venuti ad aiutarlo nella battitura, come eran soliti a far tutti gli anni.
La mattina, appena fuor dell’uscio di casa, si vede venire incontro Bistino, che gli dice:
— Cammina, Paccheri, t’hanno rubato dell’altro grano!
Figuratevelo! Non sta a dir che c’è: arriva lassù senza fiato, guarda i sacchi del grano, e vede che ne mancano altri due. Pareva indemoniato; le bestemmie facevan paura, voleva ammazzar bestie e cristiani. Ma il cognato e il nipote, coi quali la rifaceva, giurarono e spergiurarono che la sera, stanchi di aver battuto tutto il santo giorno, si erano addormentati appena buttati giù, che non avevano sentito nulla, e si erano svegliati, quando il grano non c'era più.
Ma Paccheri non era persuaso. Ad ogni momento tra una bestemmia e l’altra diceva:
— Eh! Lo scoprirò chi è stato! Voglio scoprirlo ad ogni costo. — E durò a dir così per tre o quattro giorni e dalla bile, che aveva in corpo, non mangiava neppur più.
Passa un giorno, ne passan due, ne passan tre, domanda ed intende, ma nessuno gli sa dir nulla. E poi nessuno sapeva raccappezzarsi come potevano aver fatto a portar via due sacchi di grano, che non sono mica una piuma, quasi di sotto al capo a quei due che erano a badargli.
— Eh! caro Paccheri, — gli diceva mio padre — bisogna che tu metta l’animo in pace; ormai il grano tu non lo ritrovi; lo ritroverai, se te lo riporta chi te l’ha rubato. Un’altra volta invece di fargli badare, badagli da te.
Allora sì che entrò in bestia e che sagratava.
— Vuoi scommettere — disse — che lo scopro?
— Ma che vuoi tu scoprire? Fammi il piacere! — gli disse il babbo.
— Vuoi scommettere?
Mio padre lo prese piuttosto in canzonella; Paccheri cominciò a questionare; ci mancò poco che non venissero alle mani.
La sera, e babbo, lo sapete, aveva sempre quell’aria di canzonatura, ritrova Paccheri nel ritornare a casa e gli dice sempre celiando;
— E così l’hai scoperto ancora il ladro?
Paccheri non rispose subito.
— Domani l’altro ti saprò dir qualche cosa.
E seguitò la sua strada.
A cena il babbo, me ne rammento sempre, disse alla mamma:
— Quanto si confonde quel grullo di Paccheri! Sono otto giorni, che gli hanno portato via il grano, e spera sempre di scoprire il ladro. A quest’ora l’hanno bell’e mangiato e digerito.
La mattina si sente dire che la notte verso le due Paccheri era andato via da casa. La moglie nel vederlo levare gli avea domandato:
— E ora dove vai?
— Vo a Firenze.
— A che fare?
— I miei interessi; e non ho bisogno di raccontarli a nessuno.
La moglie non si persuase, e lui trovò, lì per lì, non so che scusa: disse che voleva andare da un suo parente vicino a Prato e che sarebbe tornato fra due giorni; e andò via.
La sera del giorno medesimo la moglie, che era rimasta sola a casa, era venuta a veglia da noi.
Saranno state le nove. Eravamo tutti intorno al fuoco e si chiaccherava del più e del meno, quando si sente abbaiare e pesticciare fuori nell’aia,
— Questo è Paccheri, — disse l’Assunta; — come mai?
S’affaccia alla finestra e lo chiama.
— Paccheri! — e nessuno risponde.
— Paccheri!
— Che vuoi? — le rispose, ma con una voce che si durava fatica a riconoscere.
— To’, che è tornato? — disse babbo. — Ha fatto presto.
— Madonna santa! — esclamò l’Assunta andando fuori: — aveva detto di tornare domani l'altro; che gli sia successo qualche cosa?
Noi uscimmo tutti di casa, mio padre prese il lume ed andò nell’aia, ma non c’era più nè Paccheri nè la sua moglie. Si erano bell’e avviati su verso casa; era buio, molto buio, e si sentivano scalpicciar su per l’erta.
— Va a vedere che cosa gli è successo, — disse la mamma al babbo.
— Che vuo’ tu che gli sia successo? — rispose babbo; — ora anderò.
— Vai, intanto tu gli riconduci a casa questi bambini.
E andò. Ci volevo andare anch’io, ma la mamma non volle.
Si stette un pezzo ad aspettarlo. I miei fratelli andarono a letto; mia madre si mise a filare ed io salii nel canto del fuoco. Mio padre indugiò di molto a tornare; sarà stato più di un’ora; e la mamma principiava a dire:
— O come mai sta tanto a ritornare?
E tre o quattro volte si affacciò alla finestra a chiamarlo.
Si sentì abbaiare il cane.
— È lui! — disse mia madre.
Infatti dopo pochi minuti il babbo era in casa.
— Che cosa è successo?
— Nulla, — rispose; — andiamo a dormire. Via, Pietro, va a letto.
Andai in camera e quella sera non si seppe nulla dell’accaduto. Si seppe solamente dopo.
Pare che, arrivato a Firenze, andasse, di notte, in Ghetto dagli ebrei, allo Specchietto.
Dice che quando uno vuole scoprire chi ha ammazzato, chi ha rubato, insomma chi ha fatto un danno qualunque, va da quest’ebreo.
Entrano in una stanza dove c’è uno specchio... Badiamo veh! Sono cose che non si possono fare. A farle uno è dannato!... Avanti gli fanno giurare di non raccontar nulla di quel che vedono, ne di pigliar vendetta.
E Paccheri giurò.
— Ora state attento, guardate nello specchio, — disse l'ebreo; — a momenti lo vedrete passare chi è stato.
Paccheri si mette davanti e principia a vedere passar gente.
— Il primo che riconoscerete è quello che v’ha rubato il grano,
La gente passava nello specchio, come se vi fosse stata una processione.
— È questo? — domandava sempre l'ebreo. — È questo?
Paccheri diceva di no, perchè per lui erano tutti visi nuovi.
— State attento! Il ladro deve esser vicino!
Paccheri era tutt’occhi. Passano altri due o tre; ad un tratto si vede comparire davanti nello specchio il suo cognato e il suo nipote con un sacco di grano per uno sulle spalle.
Paccheri non potè stare alle mosse. Si alzò dalla seggiola infuriato, ed esclamò:
— Come arrivo a casa li vo’ ammazzare tutti e due!
Non ebbe finito di dirlo che ad un tratto si trovò scaricato sulla Piazza di Castello, distante un miglio da casa sua, proprio davanti alla chiesa di S. Filippo. Chi ce lo portasse non si sa; ma però ci vuol poco ad indovinarlo.
Si trovò in terra senza saper come.
— O non ero a Firenze? — diceva fra sè.
Vede la chiesa, la guarda, e non la riconosce.
Non sa se sia desto o no.
Dopo vede i lumi alle botteghe lì di piazza, sente venir gente, principia a raccapezzarsi, si alza ed esce fuori dalla porta per venire a casa.
Arrivò, come ho detto, tutto ringrullito, ma non disse nulla a nessuno.
Il primo ad avvedersi di qualche cosa fu il mio zio Cencio, perchè un giorno andando da Paccheri gli disse:
— Paccheri, ho dovuto mandare il garzone al mulino; mi daresti una mano a fare un po’ di foglia?
— Volontieri, — rispose Paccheri; — e andò nel bosco.
Sale su una quercia, e quando ha finito, si volta in giù per iscendere, e vede le frasche ravviate tutte per un verso come se fossero state accomodate ad una ad una, e non vede nessuno.
— Guarda come hanno fatto presto quei ragazzi! — disse fra sè.
Credeva che fossero stati i miei cugini.
Scende da quella quercia e sale in un’altra. Appena una frasca aveva toccato terra, era bell’e al posto. In una mezz’ora ne avea fatta una barca che non l’avrebbero fatta quattro uomini in un giorno. Paccheri nel vedere la barca della foglia senza scorgere nessuno principiò ad insospettirsi; gli cominciarono a tremar le gambe e durò fatica a scendere. Quando fu in terra, fece il fastello, lo legò e si avviò a casa: non gli pareva vero di uscire dal bosco. Arriva sotto la loggia e butta giù il fastello. Era come un pagliaio. In quel momento arriva mio zio, e nel vedere tutta quella gran foglia non potè fare a meno di esclamare:
— O chi ti ha aiutato a portarla?
— Come?
— Chi ti ha aiutato? A portarla qui dal bosco in uno solo, c’era da metterci tutto il giorno.
— L’ho portata da me.
— A crederla! Non c’è altro che ti abbia aiutato il diavolo. Giusto tu ci hai confidenza!
A questa parola Paccheri diventò bianco; gli si rinfrescò subito nella memoria il fatto dello Specchietto. Il fatto si è che cominciò a non aver più bene. La notte non dormiva mai, e se per caso prendeva sonno, si svegliava ad un tratto tutt’impaurito. Gli pareva sempre di esser portato per aria.
Per questo si scoprì il fatto: poi lo riseppe la sua moglie e questa lo confidò al prete. Il prete non so che cosa facesse, ma credo che dicesse che bisognava scrivere a Roma. Così la cosa andò sparsa, ma non si seppe con certezza altro che quando, dopo molti anni, la raccontò mio padre, che messo su da Paccheri, andò anche lui allo Specchietto. E questo non c’è da dir che non sia vero!
Ero ragazzino, ma me ne rammento come se fosse ieri. Allora si stava a podere alla Casaccia, e avevamo una gran quantità di quercie; le ghiande si rimettevano a stanzate, e si teneva sempre un bel branco di maiali. Era di carnevale, e si stava per venderli. Una mattina mio padre si leva, e vede nell’aia il cane morto; va alla stalla dei maiali, tira il chiavistello, e sente che l'uscio non si vuole aprire, come se ci fosse stato qualcheduno di dentro a pigiarlo. Principia a chiamare, si va giù, ci accordammo tutti, ed aprimmo. I maiali erano tutti una catasta all’uscio: di trentasei ce ne erano rimasti nove soli vivi. Nel vedere tutta quella strage, mio fratello ed io, che andavamo sempre a badarli, ci mettemmo a piangere; mia madre lo stesso: mio padre ammutolì, ma per un momento; poi cominciò a dire che glieli avevano avvelenati, perchè tutti dal primo fino all’ultimo erano gonfi come palloni.
La disperazione di mio padre non c’è da dirla. Che mi fate celia! A trovar morte ad un tratto lì in quel modo tutte quelle bestie nelle quali faceva assegnamento! Molto più che essendo entrato un po’ sotto col padrone, col guadagno di quei maiali sperava di scontare quasi tutto il debito. Ce ne erano otto che saranno stati trecento libbre l’uno.
— Me li hanno avvelenati! — non faceva altro che ripetere mio padre; — me li hanno avvelenati! Sono rovinato! O chi è stato quel birbante che mi ha mandato ad accattare?!
E chi li aveva avvelenati eravamo stati noi ragazzi, perchè avevamo messo nel trogolo la farina de’ girelli, che fa schiantare le bestie che non digrumano.
Mio padre in maniche di camicia e senza cappello, così come era, andò alla fattoria. Dopo un’ora tornò in su col fattore, e in poco tempo l’aia fu piena di gente, corsa a vedere il caso. Pareva che ci fosse la fiera; c’era tutto il vicinato: non c’è tanta gente alla festa di S. Antonio. Chi guardava le bestie morte, chi le guardava in bocca, chi ne diceva una, chi ne diceva un’altra, c’era un chiasso, un demonìo da non si descrivere. Il fattore, per finire la storia e per finire il chiasso, ordinò che i maiali si sotterrassero subito, perchè anche il veterinario, venuto lassù a casa con noi, aveva confermato che erano morti avvelenati. Infatti si fece una buca nel campo sotto casa, e si sotterrarono. Mi ricordo che c’era anche un certo Morino ad aiutarci: e fu più accorto di noi, perchè a L.... durarono un anno a mangiar prosciutti venduti da lui, e alcuni gliene restarono anche per casa sua. Tutte cose sapute dopo.
Mio padre intanto che fa? Siccome doveva andare a Firenze a riscuotere un baliatico, sempre coll’animo di voler scoprir chi era questo, che gli voleva male e che gli aveva avvelenati i maiali, va anche lui allo Specchietto con l’indirizzo che gli aveva dato Paccheri.
Arrivò a Firenze avanti giorno; ancora non avevano aperto alla gabella.
L’ebreo lo conduce nella solita stanza, lo mette davanti allo specchio, e dice anche lui, come aveva detto a Paccheri, che non doveva raccontare nulla a nessuno.
Mio padre dice di sì, e sempre colla bramosia di scoprire chi gli aveva fatto morire i maiali. Che è che non è, a un tratto vede apparire nello specchio proprio visibile la casa nostra e poi vede passare prima mio fratello maggiore Gianni, poi io con un sacchetto in mano, che davo la farina nel trogolo ai maiali e riconosce il sacco, dove si teneva quella de’ girelli. Capì subito come era andata la cosa.
Paga l’ebreo, poi (allora era viva la povera zia Maddalena) va da lei a desinare.
Verso le due vien via da Firenze; per la strada ripensava al fatto e diceva fra sè:
— Guarda che combinazione! E io che ammattiva a pensare chi poteva essere stato! Se non avessi visto da me, non ci crederei. Non mi par vero di tornare a casa per raccontarlo. Guarda quel che vuol dire a far le mire addosso a quello ed a quell’altro!
Per la strada gli si fece buio, e quella sera era proprio uno strantempo; non si vedeva uno da qui a lì, e durava fatica a star nella via. Quando fu vicino ad un posto chiamato la Botteghina, distante poco da casa, principiò a piovere maledettamente; fu costretto a fermarsi. Rallentato un po’ il piovere, seguitò fino a casa dello zio Giuseppe che allora stava proprio alla voltata della via maestra, dove fa capo la stradella che conduce a casa nostra.
Lì si mise al fuoco a rasciugarsi per vedere se intanto passava un po’ l’acqua. Ma invece di smettere seguitava a piovere a catinelle: il vento fischiava, e balenava talmente fitto che pareva di giorno, e i tuoni facevano rintronare la casa. Vedendo che si faceva di molto tardi il babbo si alzò e disse:
— Oh! me ne voglio andare!
— Ma dove vuoi tu andare con questo tempo indiavolato? — gli disse mio zio. — Chi non ha casa anderebbe a cercarla, e tu vuoi andar via?
Mio padre era un uomo che, quando aveva detto una cosa, non si rimuoveva.
— Credi tu che abbia paura?
— Non andare, — gli ripeteva lo zio; — con quel borraccio da passare c’è da perdere la vita.
Ma mio padre si alzò, prese il pastrano e il suo organo, che portava sempre con sè, dette la buona notte e disse:
— Vo’ andare, anche a credere di trovare il diavolo!
Uscito dall’uscio si mise a sonare una marciata. Ma ne aveva voglia di suonare! I tuoni facevano una musica più bella della sua.
Entra nella strada e poi nel bosco. Quando arriva ad un borro, chiamato di Casa rotta, vede al lume dei baleni una smotta di terra, che era venuta giù e che gl’impediva il passo lì dove credeva di poter passare.
Dà un inciampone; cade senza potersi rattenere, e ruzzola fin vicino al borro. I baleni erano smessi, e non trovava il modo di alzarsi e di ritornare in su per andare a cercare un altro passo da passare. Furioso com’era, stizzito di dovere star lì, principiò a sagratare e gli scappò detto:
— O che ci sei, diavolo f....
E c’era davvero! Gli apparisce ad un tratto davanti un cavallo tutto bardato, con una sonagliera squillante e certi finimenti, che luccicavano come le stelle.
— To’ chi ti ci ha portato? — disse mio padre, figurandosi che fosse qualche cavallo scappato e dalla strada venuto su pel bosco fin lì. Per vedere di fargli paura, e così per bizzarria, gli principia a suonar l’organino.
E il cavallo invece di fuggire gli si accosta e gli fa una riverenza. Lui seguitò a sonare e il cavallo sempre a far riverenze.
Mio padre trova un borriciattolo, lo traversa, e il cavallo sempre più accosto a lui e sempre colle medesime riverenze, come se fosse uno di quelli ammaestrati, che tante volte si vedono al teatro. Mio padre, per dire la verità, principiò un poco ad insospettirsi, perchè non poteva darsi che quello fosse veramente un cavallo, come figurava.
Sotto a certi noci grossi, di dove doveva passare, c’erano certe capannuccie mezze disfatte nelle quali l’estate mettevano il fieno. Lì presso c’è una croce di legno, di quelle messe da Baldassarre.
Davanti alla croce il cavallo si rizzò sulle gambe di dietro e diventò come il fuoco. Mio padre, nel vedere quell’affare, cominciò a sudare e allestì il passo per arrivare a casa. Dice che voleva voltarsi addietro, ma che non gli riuscì.
Già c’è da compatirlo; a trovarsi a quei casi brutti tutti avrebbero fatto come lui. Il fatto sta che arrivato sull’aia si provò a chiamare la povera mamma.... ma apriva bocca senza dir nulla. Allora che fa? Prende un sasso e lo tira nella finestra come tante volte faceva, quando tornava tardi di notte e non si voleva far sentire urlare. Mia madre si avvide subito che era lui e chiama:
— Nisio, Nisio. — Ma Nisio non rispondeva. Sfido; no che gli mancasse il coraggio, ma perchè non aveva più fiato. Mia madre va giù, gli apre, e lui va su diritto in camera e piglia il fucile per ritornar fuori. La mamma nel vederlo col fucile, tutto strafigurito, senza discorrere, credè che lì fuori ci fosse qualcuno che avesse litigato, o che so io; sicchè cominciò a raccomandarsi e dire:
— Nisio! Nisio! che è egli successo? Chi c’è? — E badava a metterglisi davanti all’uscio, perchè aveva paura che non accadesse qualche cosa di serio, e principiò a raccomandarsi e a piangere.
Mi rammento che io nel sentir piangere la mamma svegliai i miei fratelli e dissi:
— Leviamoci e andiamo là a veder che cosa c’è.
Infatti si va là e si vede babbo tutto invelenito il quale voleva, col fucile in mano, andare alla finestra, che corrispondeva dietro casa, proprio di faccia ai noci.
Io durai fatica a riconoscerlo.
Mi rammento sempre che quella sera addosso aveva un pastranone con un bavero grande, di quelli come usavano allora e che aveva comprato a Firenze. Alla voce non pareva più lui, appena si sentiva. Non faceva altro che dire:
— Lo vo’ ammazzare! lo vo’ ammazzare!
Principiammo ad impaurirci e a piangere e berciare. A sentir tutto quel chiasso, così di notte com’era, anche mio zio si levò a vedere che cosa fosse successo.
Mio padre intanto si era avvicinato alla finestra, aveva puntato il fucile e diceva:
— Eccolo lì! Eccolo lì! Lasciatemi andare, lo vo’ ammazzare.
E noi non vedevamo nulla!
Insomma dopo un pezzo mio zio riuscì a prendergli di mano il fucile, e prega e riprega, lo menarono in camera, e lo fecero entrare a letto. E ne aveva proprio di bisogno; aveva una febbre da leoni, e dopo mezz’ora non intendeva più nulla: era fuori di sè.
In otto giorni che stette a letto era diventato tanto strafigurito che, quando uscì di casa le prime volte, tutti lo guardavano.