Il cappello del prete/Parte prima/XIII
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Parte prima - XII | Parte prima - XIV | ► |
XIII.
Paure....
Che cosa era avvenuto poi di quel cappello?
«U barone» si sforzava di richiamare ad una ad una tutte le impressioni di quel terribile istante. Aveva buttato il prete nella fossa, aveva gettato sabbia e calce e ancora sabbia e poi la pietra fu collocata sopra, e poi sopra la pietra nuovo materiale. Aveva nascosto la leva nella calce, ma in quanto al cappello.... Rievocando la scena del cortile, proiettando sul luogo triste fiammate fantastiche, gli pareva di averlo visto tra i mattoni e il muro, in piedi, come una macchia nera sul rosso, ma non aveva pensato, per una fatale obliterazione mentale, a toglierlo di là, a distruggerlo...., per modo che doveva esserci ancora tra i mattoni e il muro, macchia nera sul sangue, tristo uccellaccio accusatore.
«U barone» cominciava a vederlo chiaramente, come se l’avesse proprio davanti....
La ripetuta sensazione aveva d’un tratto suscitata una di quelle sensazioni latenti, che secondo il celebre Panterre, precipitano e dormono anche per lunghi anni nelle fosse cerebrali, finchè una sensazione più viva non le risveglia d’un colpo e le fa saltar fuori.
Il grande colpevole non poteva capacitarsi come avesse potuto lasciare sul luogo del suo delitto una prova tanto pericolosa. Gli ripugnava di credere al tradimento d’una forza estranea e superiore. Il dottor Panterre aveva un capitolo su certi fenomeni d’inerzia e d’insensibilità cerebrale, che potevano spiegare anche questa terribile distrazione.
Comunque fosse, il cappello del prete si alzava dal mucchio, grande, nero, sozzo, peloso come un osceno pipistrello, come un fantasma accusatore.
«U barone» corse a girare la chiave nella toppa, come se temesse che dall’uscio avessero a fuggire i suoi pensieri.
Egli aveva bisogno di fare ancora i suoi conti. Credeva di aver finito tutto coll’ammazzare un uomo e tutto era ancora da farsi, se però era ancora a tempo.
Se il cappello era rimasto sulla cisterna quasi per dire: «hic jacet presbyter», nulla di strano che Salvatore, facendo il giro della casa, l’avesse trovato.
Ma Salvatore era morto.
Quand’era morto?... Cercò tra i molti giornali, accatastati sulla scrivania, la lettera del segretario che pareva sprofondata. Fruga, fruga, la trovò (e mentre cercava colle mani, il suo pensiero seguitava a indagare), l’aperse, era in data del 9. Salvatore era morto il giorno 8. Oggi era il giorno....
«U barone» sollevò gli occhi all’almanacco e vide ancora il numero
4
Non lo aveva egli già strappato una volta quel maledetto numero? Chi si divertiva a impastarglielo davanti? Oh! che bisogna credere agli spiriti? Anche il 4 aveva la figura del cappello.
Baie! spaventi d’uomo colla febbre! — «U barone» se la sentiva venire addosso la febbre, ardente, e si rannicchiò in un cantuccio, prese tutta la testa fra le due mani aperte, la tenne ferma, e comandò a se stesso la calma, la freddezza, lo spirito positivo, l’oggettività insomma della riflessione.
Che cosa era infine quello straccio di cappello in paragone dell’universo siderale? Possibile che egli dovesse soffrire per sì poco?
No, no, bisognava guardar le cose con occhio filosofico, ragionare, ragionare soprattutto.
Il prete dunque era stato ucciso il giorno 4, Salvatore era morto l’8. Oggi eravamo ai 15 o ai 16 di aprile. Erano dunque passati dieci o dodici giorni buoni e nessun segno appariva che il cappello fosse stato trovato.... Cioè, poteva esser stato trovato da qualcuno, ma nessuno pensava che potesse essere di prete Cirillo; nessuno sospettava che prete Cirillo fosse morto. Ma ad ogni modo quel cappello rimasto sopra la terra era sempre un pericolo...., perchè la gente è per natura curiosa...., la gente...., la gente....
Questa espressione gli fece venire in mente la figura di don Ciccio; e con don Ciccio scattò improvvisamente l’idea della vincita fatta da Filippino, il cappellaio. Anche qualche giornale aveva detto che «u prevete» aveva dato il terno in cambio d’un cappello.
«U barone» saltò in piedi. Sentiva che la sua testa stava per infiammarsi. Versò dell’acqua nella catinella, e vi tuffò il capo.
Era orribilmente grottesco che un uomo come lui dovesse soffrir tanto per cagione di un cappello. Altro che Macbetto!
Passato il primo tumulto, cominciò a farsi qualche ragione più chiara e a mettersi innanzi qualche progetto.
Tra le tante idee balenategli in testa ci fu anche quella di non lasciarsi venire addosso il castigo e di prender il volo per altri lidi; ma poi la mente riuscì a formulare un dilemma più razionale e utile.
O la gente aveva scoperto il cappello, e la giustizia aveva già in mano il corpo del delitto, e allora ogni tentativo di fuga era pericoloso. Per quanto andasse lontano, la mano della giustizia è lunga. Fuggire era un accusarsi. Se invece il cappello giaceva ancora, come era naturale, sul luogo, era più prudente tornarvi, togliere questo spauracchio, che una volta scoperto poteva trascinare una lunga seccatura di processi e di interrogatorii.
Passato, come dissi, il primo tumulto, che avrebbe speziato ogni altra testa, la sua robusta costituzione morale riprese il sopravvento e quasi cominciò a ridere egli stesso di questa commedia.
— Che sciocco! — diceva, — e se anche scoprissero non uno, ma cento cappelli, chi può dire che prete Cirillo sia stato ammazzato? E se anche scoprissero non uno, ma cento preti, chi può dimostrare che l’ho ammazzato io prete Cirillo? E non ci sono a Napoli cento camorristi fatti apposta per pigliarsi queste brighe? Ciò che importa è di fare in maniera che la gente non vada troppo innanzi e indietro per la villa. La chiave l’ha ancora in consegna il segretario, e siccome il giardino è fresco e ombroso, nulla di più naturale che i buoni abitanti di Santafusca vadano sulle ore calde a far la siesta all’ombra dei vecchi sicomori.
«U barone» riprovava a quest’idea nuovi tumulti e nuovi tuffi di sangue. Se ciò ch’egli pensava era vero, già da otto giorni almeno i buoni abitanti di Santafusca frequentavano la villa.
Prima, c’era stato il funerale di Salvatore, e siccome i locali delle scuderie erano luoghi aperti, nulla di più naturale che i ragazzi, entrando per curiosità fino alle stalle, avessero trovato il cappello del prete.
Provò il bisogno di uscire di casa e di respirare l’aria libera delle strade. L’aria di casa era già troppo impregnata di cattivi pensieri. Per quanti sforzi però egli facesse sopra se stesso per non pensare al cappello, cento motivi incontrava per via che gliene richiamavano la memoria. Bastava, per esempio, la vista d’un prete.... Se ne vedeva uno svoltare per un vicoletto, si affrettava a corrergli dietro attraverso alle vie, in mezzo alla gente, fin oltre le case, lungo la riva del mare....
— Nulla di più naturale che i ragazzi, trovando il cappello del prete, lo raccogliessero e lo portassero in paese. Grande sorpresa! Un cappello? Di chi sarà? Dove l’avete trovato? Nella villa. Dove? Sopra un mucchio di mattoni. Portiamolo alla canonica. Qui don Antonio ha letto nel «Popolo Cattolico» che prete Cirillo era scomparso. Che il cappello sia del prete? portiamolo al comandante dei carabinieri, anzi al pretore....
«U barone» nel pensare queste cose si immaginava davanti la scena viva viva, e correva anch’egli dietro a quella folla di contadini, di cui sentiva quasi le voci rintronare in testa. I ragazzi per divertirsi infilano il cappello su un bastone e tutto il villaggio scende alla pretura con quella bandiera alzata....
E intanto correva correva anche lui, come se volesse raggiungere quella ragazzaglia, far correre degli scappellotti, portar via il cappello....
Una volta si trovò in mezzo a questi pensieri sulla strada che menava a Santafusca a mezz’ora di distanza dalla villa. Una forza misteriosa l’aveva sospinto verso porta Capuana, a piedi, e di strada in strada, di viottolo in viottolo, s’era trovato quasi in vista del vecchio e noto campanile. Quando si arrestò su due piedi, si vide pieno di polvere, brutto di sudore, cogli abiti in disordine, e si spaventò egli stesso della sua follia.... Tornò in città e andò da Compariello a prendere un po’ di forza. L’assenzio aveva la virtù di sgombrargli la testa dal fumo e di rendergli il senso esatto delle cose. Alla villa sarebbe andato, ma non a piedi, come un vagabondo. Ci sarebbe andato in gran forma, o con una brigata di allegri amici cacciatori, colle belle amiche di Napoli, con Marinella....
Egli si sentiva una gran tentazione di sfidare il mondo e il Padre Eterno come Mefistofele. Ma poi riflettè meglio che i buoni terrazzani l’avevano già in conto di libertino, che non conveniva turbare con uno scandalo le anime semplici: che si sarebbe fatto odiare, che sarebbe parsa un’offesa alla memoria del povero Salvatore. Era meglio andar solo, provveder solo ai casi proprii, mostrarsi animato da buone intenzioni per l’avvenire, lasciare qualche elemosina....
Due giorni durarono in questi contrasti i suoi pensieri, mentre di fuori egli procurava di mostrarsi l’uomo allegro e spensierato dell’altre volte, sia che andasse al club delle caccie, sia che sedesse vicino a Marinella, o che pranzasse all’«Europa» con qualche amico. L’Usilli gli fece una volta un’osservazione, dicendo:
— Bevi troppo veleno verde, Santa, e fumi troppo.
Ma «u barone» beveva e fumava senza accorgersi.
Il terzo giorno, sentendo che non avrebbe mai più potuto vivere in quelle incertezze (per quanto la gente e i giornali non dessero segno alcuno di occuparsi della cosa), andò alla scuderia della cavallerizza Biagi, dov’era molto conosciuto, prese a nolo un bellissimo puledro, e saltato in sella, traversò Napoli in tutte le vie più popolose, facendo caracollare la bestia dov’era più fitta la gente, suscitando apposta le imprecazioni dei cocchieri e dei merciaioli ambulanti. Voleva con ciò che Napoli lo vedesse sano, allegro, trionfante, come se non fosse mai accaduto nulla che un barone di Santafusca non credesse degno di sè.
Per dir la verità, non c’era un cane in tutta Napoli che pensasse più a prete Cirillo o al suo cappello, tranne forse di tempo in tempo Filippino e i suoi; ma il barone si faceva l’idea che il mondo non potesse pensare che colle sue idee e non gli pareva mai di mostrarsi abbastanza allegro e disinvolto. Arrivò fino al punto che gli amici lo trovavano un pochino noioso.
Quando fu in campagna, spronò il cavallo e volò quasi una mezz’ora curvo sulla criniera del generoso animale, che non capiva la ragione di quel correre. Ma «u barone» non voleva lasciar stagnare il sangue in molte riflessioni.
La giornata era bigia, coperta da nuvoloni spessi e pieni. Tirava un forte vento di mare. Ben presto cominciò a piovere, a balenare, a tuonare sopra il monte.
Giunto quasi in vista del paese, mise il cavallo al passo, ed era tempo. La povera bestia, che non aveva nessun delitto sulla coscienza, incominciava a mostrarsi stufa di correre per conto degli altri.
Camminava al passo, sotto una pioggettina fredda ed insistente, allorchè alzando gli occhi si trovò davanti quasi improvvisamente la villa, larga costruzione distesa sul clivo, più livida e più trista del solito nel colore bigio dell’aria, attraverso al velo fitto della piova.
Alla vista di quella casa, che riassumeva una lunga storia di vicende domestiche e che oggi chiudeva nelle sue grigie pareti un così grande significato...., «u barone» si fermò per ripigliar lena, abbassò la testa e provò l’abbattimento profondo dell’uomo condannato.
Da dove veniva questa tristezza?
Dal cielo insieme alla pioggia?
Dalla coscienza insieme al pensiero?
Se egli avesse potuto cessare di pensare...
Osservò che per conto suo si sarebbe abituato a sopportare le conseguenze della premessa, ma bisognava rimuovere tutte le occasioni di far pensare gli altri. Bisognava ritrovare quel maledetto cappello.
Era arrivato al punto che più non distingueva chiaramente tra il morto e il cappello. Di queste due figure torve e nemiche, non era prete Cirillo la più cattiva.
Il prete — sentiva in modo confuso il peccatore — il prete avrebbe potuto, nella sua misericordia, perdonare; il cappello, no.
Questi nuovi pensieri che nascevano dal terreno del fatto allagavano gli altri pensieri fatti prima a casa. Il cavallo non andava avanti. Il temporale saliva sempre più dietro la montagna. Una gran tenda funebre di nuvoloni copriva il colle e il lido, e la pioggia scendeva a righe sottili, a sbuffi, premendo ora più, ora meno, tra i giuochi dei lampi, che impaurivano la bestia.
«U barone», sollevando gli occhi all’imponente spettacolo della natura corrucciata, fino all’alta regione del tuono e del baleno, si sentì come una pagliuzza in balìa degli elementi. Il sentimento della fatalità, che fabbrica ed agita uomini e cose, dissipò, come un bagliore di lampo, i romantici spettri della sua infantile superstizione. Che colpa ha il fulmine quando uccide il povero agricoltore accanto all’aratro? Uomini e fulmini siamo ciechi esecutori di forze universali.... Avanti!
Il cavallo nitrì, scosse la criniera, e sua eccellenza il barone Coriolano di Santafusca entrò tra le case del villaggio col passo e coll’animo di un vincitore.
Il calpestìo dei piedi ferrati sui ciottoli richiamò l’attenzione della gente. Tutti riconobbero «u barone» ed egli fu superbo che lo vedessero. Dalle botteguccie e dalle finestruole uscirono le teste, i berretti, le cuffie dei curiosi, quei che erano nelle vie s’inchinarono quasi fino a terra.
«U barone» entrò in un piccolo angiporto e fermò il cavallo per lasciar sfogare il mal tempo. La pioggia scendeva mista a grandine e rumoreggiava sui tetti, sui muri e sulle strade, ribollendo, gorgogliando negli stretti scolatoi.
— Chi di voi mi chiama il segretario? — disse sua eccellenza.
Un ragazzetto corse come una lepre, e due minuti dopo Jervolino, il segretario, venne in pianelle, saltando le pozze dell’acqua, e inchinò il barone.
Questi intanto aveva chiesto ai presenti qualche notizia intorno alla morte di Salvatore e intorno al raccolto delle ulive e del vino.
I più vecchi gli rispondevano col loro linguaggio immaginoso che i tempi buoni erano morti, che la freddura aveva mangiato gli aranci, che i figliuoli non guadagnavano più gli orecchini dell’amorosa nella pesca del corallo, che «u guerno» portava via tutto colle tasse.
Sotto i berrettoni rossi di lana e sotto la vernice nera del sole e del tempo «u barone» riconobbe qualche antico compagno di fanciullezza, felice età, quando il giuoco ci rende tutti eguali.
Promise tempi migliori per Santafusca e lasciò capire che avrebbe potuto un giorno o l’altro ristabilirvisi.
— Volesse Dio e la Madonna! — esclamarono con tanta sincerità uomini e donne, che ei ne fu quasi commosso.
Martino era corso a dare la grande notizia a don Antonio, che stava per mettersi a tavola, e poichè l’acqua era sul cessare, il buon prete scese anche lui dalla Cura a riverire l’illustrissimo. Trattandosi di un tanto signore, non osò presentarsi col suo nicchio verdognolo e polveroso e nemmeno colla papalina di lana che usava in casa; ma poichè il cappello nuovo non era ancora partito, più per il decoro del ministero che per sè, andò incontro a sua eccellenza col cappello del morto.