Il cappello del prete/Parte prima/XII
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XII.
Il fantasma del cappello.
Per qualche tempo il barone fece vita ritirata e carezzò l’idea di andare lontano o con Marinella o solo a godere i frutti delle sue speculazioni.
Per quanto si sforzasse di pigliare la vita di Napoli come prima, sentiva sempre un non so che tra i piedi che gli legava il passo. Ogni grido, ogni accenno, ogni prete che incontrava per via, ogni scherzo sui preti erano altrettante occasioni di pena, di sospensione, di sospetto, se non di paura.
Tutti i giorni leggeva i giornali e si consolava nel vedere che, dopo il piccolo episodio del terno, il suo prete rientrava tranquillamente nell’ombra.
I giornali non parlavano più di prete Cirillo, come se non fosse mai esistito, e se una volta nominarono il barone di Santafusca, fu per annunciare la sua elezione a presidente del club delle caccie. La puntualità con cui il barone aveva soddisfatto a’ suoi debiti d’onore gli aveva restituita la stima dei gentiluomini.
Erano ormai passati dieci giorni, lunghi, eterni, ma c’era motivo di credere che potessero passare egualmente bene dieci, venti anni, in fondo ai quali il nome di prete Cirillo sarebbe del tutto diluito, come un ghiacciolino nel mare.
Una mattina Maddalena venne ad annunciare per la terza volta la visita di un prete.
— Insomma, — gridò questa volta il barone, — non puoi mandarlo al diavolo?
— È qui! — disse Maddalena impaurita.
— Che cosa vuole?
— Parlare con vostra eccellenza.
Il barone esitò ancora un poco per un resto di superstizione, poi disse:
— Ebbene, venga avanti.... Vediamolo — soggiunse poi tra sè — questo noioso moscone, che da una settimana mi ronza intorno.
Mentre sfidava il misterioso personaggio a farsi vedere, «u barone» sentì che aveva bisogno d’un coraggio insolito anche per ricevere un prete. Nessuno penserà ch’egli avesse paura di veder entrare prete Cirillo. Son cose che si leggono nelle ballate tedesche, ma chi le crede oggimai? Tuttavia avrebbe fatto senza di questa visita quasi per un istintivo ribrezzo al nero.
Stette ad ascoltare la voce della Maddalena, che pregava il misterioso visitatore a venire innanzi. Sentì anche un passino delicato e strisciato sul pavimento; poi l’uscio si aperse adagio adagio....
— Licet? — chiese una voce morbida come il miele.
— Avanti! — gridò «u barone» forte, come se comandasse uno squadrone di cavalleria.
Entrò un piccolo sacerdote rotondo e molle, con una faccia butirrosa, con abiti lindi e freschi, con due manine grassottelle piene di pozzette e con un portamento di grande cerimoniere. S’inchinò, socchiudendo gli occhi: e masticando le parole col gusto di chi mastica delle prugne cotte, disse:
— Ho io l’onore di parlare con sua eccellenza il signor barone Coriolano di Santafusca?
— Precisamente, e io ho l’onore di....
— Io sono monsignor vicario e vengo incaricato di una rispettosa dimanda a vossignoria per parte di sua eminenza monsignor arcivescovo.
— Prego, si accomodi.
Il barone fece qualche passo innanzi, indicò una poltroncina, ne accostò un’altra per sè. Il grazioso monsignore non volle sedersi per il primo, il barone insistette, e dopo un po’ d’altalena, per rispetto e per obbedienza, il prete cedette alle gentili insistenze, sedette, collocò il suo bel cappellino di seta a tre punte sulla sponda della scrivania, si lavò due volte le mani nell’aria, e aprendole d’un tratto come due girasoli, disse:
— Ecco! Io sono venuto per sapere da vostra eccellenza (sempre se è lecita l’indiscrezione) quanto c’è di vero nella voce che ella voglia vendere la sua villa di Santafusca.
— Nulla c’è di vero, — rispose recisamente sua eccellenza.
— Dirò il perchè della mia dimanda. Sua eminenza cerca nei dintorni di Napoli un palazzo grande e adatto per collocarvi un seminario o collegio teologico, che potesse servire nello stesso tempo di villeggiatura al sacro capitolo.
— Non ho nessuna intenzione di vendere Santafusca, — tornò a ripetere il barone.
— È strano, perchè in Curia si dava per certo che un prete di Napoli avesse già data a vostra eccellenza un’anticipazione per l’acquisto non solo della villa, ma anche dei terreni annessi.
— Uhm! — fece il barone, raccogliendo tutto il suo spirito. E pensò: — Sempre quel maledetto prete!
— La cosa pareva tanto più attendibile in quanto che chi doveva acquistare, e diceva di aver già in parte acquistato, era uomo danaroso e venne egli stesso più volte a fare delle offerte al cancelliere della sacra mensa.
— Ah!... ella, monsignore, vuol forse alludere a prete.... Cirillo...?
Il barone pronunciò queste parole tutte su una nota con tono di canto fermo. Era la prima volta che il nome di prete Cirillo (dell’assassinato), risonava sulle sue labbra, e gli parve che il nome squillasse come una trombetta. — Sensazioni! — Non perdette tuttavia le staffe, anzi fu contento che si cominciasse a parlare del morto come di un vivo qualunque.
— Precisamente don Cirillo, — rispose monsignore.
— Difatti, — seguitò «u barone» con voce naturale, — questo prete era stato da me qualche volta e si doveva combinare una gita insieme. Allora io ero in un momento di grandi bisogni. Poi a un tratto questo prete è partito. Dicono che abbia paura di restare a Napoli, perchè è in voce di negromante, di stregone, d’indovino, che so io? («u barone» rideva). Ci deve entrare la camorra, il giuoco del lotto, la vincita di un mezzo milione; ne ha parlato anche il «Piccolo» e credo anche il «Popolo Cattolico».... Ecco quanto, monsignore.
Bisognava sapere che monsignore non leggeva mai i giornali e che preferiva nei momenti di riposo fare qualche sonnellino nella poltrona, anzichè ascoltare i pettegolezzi di sacristia. Si può immaginare come rimanesse, sentendo dire che a Napoli c’era un prete negromante, stregone, camorrista, che aveva vinto mezzo milione, un prete scomparso.
«U barone» lesse la meraviglia sul volto e negli occhi del prelato e si affrettò a raddolcire l’effetto delle sue parole.
— Io non ho veduto che una volta questo prete, ma poichè oggi ho potuto provvedere diversamente ai miei bisogni, non intendo di vendere la casa dei miei maggiori.
— Ce ne duole assai. Santafusca rispondeva al nostro ideale, e la mensa sarebbe stata disposta a qualunque sacrificio. Il cancelliere aveva quasi promesso a prete Cirillo centomila lire per il puro stabile, ma oggi si sarebbe disposti a dare anche di più.
— Il prete faceva un ghiotto affare! — esclamò «u barone» parlando quasi da sè stesso.
— La casa vuole molti ristauri; anzi si vorrebbe fabbricare tutto un lato nuovo.
— Non intendo fare nessuna speculazione, — rispose quasi burberamente il barone, a cui l’idea che altri avesse potuto smuovere il terreno di Santafusca fece scorrere un brivido nelle ossa.
— Rispettiamo i sentimenti generosi di vostra eccellenza. Ce ne duole per noi, ma ritenga che, qualora venisse in questo pensiero, troverà in noi le migliori disposizioni. Intanto sarà un vantaggio per le due parti levar di mezzo questo prete negromante, che specula con poco spirito di religione sui bisogni della Chiesa.
Monsignor vicario fece un gesto così pulito nel dire «levar di mezzo» che non avrebbe offeso una mosca.
— Pareva anche a me, difatti: non mancherò qualora...., ma, come dico, non ho intenzione di vendere.
— Non mi resta che di chiedere scusa dell’incomodo, eccellenza. Se mai volesse conoscere una prima offerta, ritenga che fino a centosessantamila lire ci andiamo noi....
— Centosessantamila! — balbettò «u barone», che vedeva piovere denaro da tutte le parti.
Perchè questa offerta non gli era stata fatta il giorno 3? Caso, caso, caso...., tutto caso!
— Avrò presente, si vedrà...
*
Nell’alzarsi, monsignor vicario, mentre stendeva la mano a riprendere il cappello posto sulla sponda della scrivania, sia che incespicasse nel tappeto, sia che volesse mostrarsi troppo cerimonioso, perdette un poco l’equilibrio, e urtò colla mano nella tesa del cappello, che saltò come animato da una scossa elettrica, cadde sulla scrivania, si piegò sullo spigalo e andò a rotolare contro il muro. Monsignore, tutto confuso del suo mal garbo, corse egli stesso a raccogliere il cappello da terra, atteggiando la persona nel modo che aveva fatto l’altro, quando si era curvato a guardare nella cisterna.
«U barone» si appoggiò colle due braccia tese e rigide allo schienale imbottito della poltroncina e accompagnò con un sorriso fatuo l’illustre prelato, che, rosso in faccia come un papavero, usciva a ritroso inchinandosi. Anche quando la porta fu chiusa coi riguardi che monsignore metteva in tutte le cose sue, «u barone» non potè staccare gli occhi dal muro, dov’era andato a rotolare il cappello, nè potè staccarsi dalla poltrona, a cui lo teneva legato un pensiero duro e tagliente come un fil di ferro.
Non era la ripetuta impressione d’uno spettacolo orribile che richiamava la sua paura. No. Le sensazioni si raffreddano, sfumano, si sa: ma l’incidente curioso del cappello, quel suo girare come una ruota, suscitava una riflessione, che nel terrore degli altri pensieri non si era presentata prima, una riflessione semplicissima, banale, ferocemente banale, che aveva la forza di far drizzare i capelli in testa a un uomo che si credeva giunto in porto.
Anche l’altro aveva in testa un cappello. Al primo colpo dato colla leva era balzato giusto, girando nell’aria, ed era andato a cadere sul mucchio dei mattoni; ma che cosa era poi avvenuto di quel cappello?