Libro settimo
Del macerare la canape. Quali sieno i buoni maceratoj: modo di conoscere quando sia sufficientemente macerata: del cavarla dà maceratoi

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Libro settimo
Del macerare la canape. Quali sieno i buoni maceratoj: modo di conoscere quando sia sufficientemente macerata: del cavarla dà maceratoi
VI VIII


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Lungi chi le narici ha dilicate,
Lungi di qua: questo mio Canto è tutto
Puzzo, e lordura stomacosa, e grave,
Che non da tutti di leggier si soffre.
Ma qui, se tu nol sai, qui in questo lezzo,
Di natura in natura trasmigrando,
Comincia la corteccia ad esser filo,
Nè senza questa asfaltide novella,
Potrai ritrar da tua fatica frutto:
Qua convien navigar, qua trovi ’l porto.
Aridi e stretti i fasci tuoi riposti
Dove più giovi a conservarli illesi,
Ed anche in pira in mezzo del tuo campo,
Pensa, o cultore, a provveder per tempo
D’ottimo, e di vicin maceratojo,
Da cui (se ben considerar tu ’l voglia)
Tutto ’l tuo ben, tutto ’l tuo mal dipende.

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Tutti non ponno al Cimin monte presso,
Colà dove Viterbo alza sue mura,
Spianar un lago: ivi natura aprillo,
E non già l’arte: ivi quel zolfo occulto,
Che per le vene serpe de la terra
Tanto riscalda lo stagnante umore,
Quanto vale in Leone il sol cocente,
E tal mantienlo anche la fredda notte;
Il che Febo non fa, da noi partendo.
Tu, che ti stai lontan da questa cava,
Perchè fu avversa a’ tuoi desir’ natura,
Da l’arte hai da cercar ciò che ti manca,
E manca a quel terren che ti circonda.
Cavar tu dei questa giovevol fossa
Con le tue man’, nè pel sudor stancarti,
Che a suo tempo n’avrai mercè opportuna,
E ’l tuo sparso sudor benedirai.
Poi che una volta questo pelaghetto
T’apristi, ne godrai tu stesso ’l frutto,
E lo godranno i figli ed i nipoti,
Pur che illeso, e usual serbar tel sappi,
Nè arena, od erba tel riempia, o ingombri.
Chi fu inventor di queste cave bolge
Acqua cercò stagnante, e non corrente,
Perchè di sali e zolfi più abbondano,
Giugne presto a infrollar ciò che di crudo
In se ritien, purchè sia forestiero,
Nè di sue paludose acque abitante.
E pur l’acqua corrente (e chi nol vede?)
Essendo viva, potria far gran cose.
Potrialo, è ver: e ogni ragione il mostra;
Ma ragione altresì non vuol che in essa
Canape a macerar nessun s’arrischj.

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Troppo è ’l periglio d’improvvisa piena,
Che, qual ladrone insidioso e presto,
Rapisca il tuo deposito, e là dove
Giugner non possa tu col piè, ’l trasporti.
Chi non s’arresteria? non è sicuro,
Nè fiume alcun, nè alcun torrente mai,
Ch’acqua montana, o liquefatta neve
Improvvisa non giunga, e fuor de l’uso,
L’intumidisca sì, sì ’l corso accresca,
Che gli argini e i ripari, e in collo prenda,
E piante e mandre e le palificate,
E i sassi stessi, non che lieve cosa,
Quant’è l’ivi sepolto tuo tesoro,
Leggier qual canna, e mobile a ogni vento.
L’arena poi, che de’ correnti fiumi
Fu sempre indivisibile compagna,
Roderia troppo la gentil corteccia
De la giacente canape, e quantunque
Il tiglio di candor tal si vestisse,
Che a l’argento, ed al latte onta facesse,
Pur saria lieve al peso, e molle e floscia,
Nè il suo candor varria per darle pregio:
Sicchè ad acqua corrente ed arenosa
Non volerti affidar: che se altro poi
Non hai dove tuffar questa tua messe,
Ed arrischiarti a forza ti convegna;
Altro far non potrai, che trovar via
Di raffrenar con l’arte a l’acque vive
Il natural precipitoso corso;
E far che sien, quanto più puoi, stagnanti,
O lente almeno, o non soffreghin tanto
Il sottoposto macerabil tiglio.
E se pur ciò non puoi, consiglio muta,

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E trova un’altra fossa, e sì profonda,
A qualche fiume quanto puoi vicina,
Che beva l’acque sue per cateratta,
O per sorgiva almen, s’altro non hai.
O qui sì, tienti pur con sicurezza,
E lascia che ’l vicin scalpor ne faccia,
Che l’acqua e ’l sito e tutto gioveratti.
Vedi qui Cento, e la vicina pieve,
Quanti abbia presso ’l Ren maceratoj
Tutti arsenali de la lor fortuna?
Il Ren, che col suo letto a le vicine
Campagne, e terre (ahi troppo ancor) sovrasta,
Per quell’interne sue vene sepolte
L’acqua tramanda pura e bella, senza
Arena, e senza impeto alcun di corso,
Sicchè ferma a livel del vicin fiume,
Dura stagnante, e par nata a quest’uopo:
Se non che suol talvolta, in fitta state,
L’acqua mancar ne’ fiumi anche più vasti,
Non che negli assetati ruscelletti,
Ond’avvien ch’a piè asciutti alcun si varchi.
La sorgente allor povera non puote
Dar quanto basti a macerare il tiglio;
E però visti ho più d’una fiata
Con le man’ ne’ capei l’agricoltore
Lagnarsi, e non vedere a qual partito,
In penuria sì misera appigliarsi.
Se al mio consiglio vorrai dare orecchio,
A l’una de le due fa che sii pronto,
Che del sicuro ne trarrai buon frutto,
O aspetterai, che a luna settembrina
Argo discenda, e l’aria si conturbi,
Sicchè ’l ciel nebuloso ti prometta

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Pioggie quante bastar potranno a l’uopo
D’alzar il fiume, e accrescer la sorgente;
O pur del tuo maceratojo in mezzo
Un picciol pozzo scaverai, per quanto
L’altezza sia de la statura umana,
E vedrai, che da l’imo immantinente
S’alzerà l’acqua, e t’empierà la vasca
Con abbondanza, e quanto vuoi ne avrai.
Che sebben l’acqua rinovar non puossi,
Sebben non corre, e putrida diventa,
E s’annerisce, e crassa ha la sostanza,
Pur si può dire un dissolvente eletto,
(Che menstruo appella il chimico sudante)
Questa a squagliar filaginosa messe.
Tocca al bravo cultor da la corrotta
Putredine purgarne i fasci, allora
Che fuor li trae per rilavarli, molto
Le manate battendo, e ribattendo
In quello stesso putridume, in cui
Regna ancora virtù di far che giunga
Al candor disiato l’immaturo
Filo nascosto ne la verde scorza.
E in ver chiunque in tai maceratoj
Può l’uso aver di vera acqua sorgente,
Vedrà ad un tratto di pastoso tiglio
Fiorir quante manate ivi porransi:
E credil pur, che a vanvera nol dico.
Aperto un tal sepolcro, e di tant’acqua
Ricolmo sì, che da se stesso vaglia
De’ tuoi fasci a coprir tutta la mole,
Fa che di tratto in tratto, ivi piantate
Nel lezzo sien varie, dirò, colonne,
In linea retta, e in pari ordin disposte,

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Siccome ne le stalle ognor si vede,
Ove tra legno e legno il caval stassi.
Tra queste è il loco, ove ripor giù stesi,
Come prigioni, i fasci tu dovrai,
L’un presso a l’altro, e sovrapposti ancora,
Giusta ’l profondo sito, e giusta l’acqua,
Che vaglia a ricoprir quanto riponi.
Ma perchè fitti stian i fasci immoti,
Nè (perhè legno son) galleggi alcuno,
D’uop’è aggravarli d’alcun peso, ond’abbia
Modo ciascuno d’ivi immobil starsi;
E intanto macerar le tue corteccie,
Senza che vento le dibatta, o tragga
Da un lato a l’altro, e si sfilacci ’l tiglio.
Or questo peso è ciò, da cui dipende
Del tuo felice macerar gran parte.
Dirò l’uso miglior, pria ch’altro dica,
E gli occhj stessi me ne fur maestri.
Quando di legno sien le tue colonne
Fitte là giuso, fa che pur di legno
Sien le catene ancora onde si stringa
La canape nel suo carcer fetente:
Più stanghe avrai, che da l’un palo a l’altro
Stese, e confitte da più d’un caviglio,
Calchino i fasci, e ne impediscan loro
L’alzarsi, e ’l galleggiare a fior de l’acque.
Che faran mai questi novelli ceppi,
Che far nol possa altro strumento ancora?
Fan che l’acqua più pura in se rimagna,
Sebben putrida, nera, e puzzolente,
Ma non però mista di loto, o arena:
Il che assai giova a tener mondo il tiglio,
Che allora allora vassi macerando.

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E lo san dire i mercadanti al solo
Vederla sì pulita, e sì purgata:
Questa al sicuro è macerata a stanghe;
Questa è candida sì, che non ha prezzo.
Ed o felici quei, cui non è grave
Tal peso, e doppio il frutto a tempo n’anno.
Bologna, tu sei tal: tu a gli edifizj
Nobili sempre, e maestosi pensi,
Nè sai far cosa, che in onor ben grande,
Ed in utile ancor non ti ridondi.
Che se le stanghe alcun non prezza, ha forse
I vivi sassi pronti, onde acciaccarne
I fasci, e giù tenerli in acqua fitti.
Ma non ponno produr tutte le terre
Tutte le cose d’un’egual misura;
Tutti non an l’erta vicina, e tutti
Presso non stanno ad un pietroso fiume,
Che sassi giù per la corrente meni.
E chi tal sorte ebbe dal cielo in dono,
Ben può dirsi felice: egli ne aduna
Tal massa al labbro del maceratojo,
Che pronti gli ha qualor tuffa ne l’acque
La canape ancor cruda, e di macigni
Coprendola, a star giù costrigne i fasci
Quanto basta coperti, e al tutto immersi.
Ma non agevol cosa è collocarli
Que’ sassi in tal giusto equilibrio fermo,
Che giù per sorte alcun non ne trabocchi,
E rimanga così scoperto e nudo
Il fascio a l’aria esposto, e al sol cocente,
Sicchè la scorza immacerata induri.
Però t’adatta al comun uso nostro,
Che veggio universal fattosi in oggi.

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Terra non manca ovunque tu t’aggiri,
E terra adopra: cavane mattoni
Crudi, quai gli usa il plastico scultore,
Ma che sien duri, e sovrapponli ai fasci
Già fermi, e fitti a forza di cavigli
Piantati giù nel fondo de la fossa.
Questa meglio s’adatta ove si pone,
E fermo tien ciò, cui sovrasta e preme.
E’ ver, che l’acqua ammorbidendo tosto
Il matton crudo fin dentro ’l midollo,
Non che ne la corteccia esteriore,
Tramanderà ne’ sottoposti fasci
(Atti a restar d’ogni colore impressi)
Un nericcio colore, un viscidume
Livido, per cui poi rimarrà tinta
La canape, o di fuor macchiata almeno,
E presso ’l comprator perderà ’l pregio:
Tu dì ’l ver: ma non tutto hai detto ancora,
Perchè forse ti rode internamente
La rimembranza, che sei uom dappoco.
Dov’è ’l valor de le tue braccia? dove
L’infaticabil fianco, che in tant’altri
Lavori adoprar sai con tanta lena,
Quando per te, piucchè pel tuo padrone,
Qualche, benchè faticosa opra, imprendi?
Io potrei, ma non vo’, per tua vergogna,
Qui fuor di tempo, discoprir gli altari.
Se quando il tiglio macero vedrai,
Da questa terra, che più presto bolle,
Scaricherai con amorosa cura
Dei cretosi mattoni i molli fasci,
E butteraili a riva, o fuor di mano;
Rimarrà poco il fango giù deposto

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Nel midollo de’ fasci, e a forza poi
De l’acqua stessa, e de lo sciacquamento,
E de lo scuoter con la man gagliarda,
Quel viscidume, e la tintura insieme
Spariranno in gran parte, e ne vedrai
Sorger il fascio candido, e pulito:
Ma diligenza usar convien non poca,
E la fretta lasciare a chi s’abbrucia.
Sappi, che sebben anco lividotta,
Sebben fosca la canape rimagna,
Ella è però sì forte, e di tal peso,
Che non la cede a quella, che d’argento
Rassembra, e macerò l’acqua più pura.
Fin qui ’l maceratojo io t’ho dipinto,
E l’acqua, e gli altri necessarj arnesi,
Ma non ancor de l’arte, che usar dei
Nel riporre i tuoi fasci, e nel cavarli,
Quanto convien per tua dottrina, ho detto.
Or senti, e fa, ch’ogni artifizio apprenda.
Il carro, ed i giovenchi a questa buca,
De la tua merce i portator saranno.
Giunti che sieno su l’erbosa riva,
Ti ferma, e i tuoi garzoni a scaricarne
Il peso metti, e a preparar l’imbarco.
Uno, e due, al più, di sola camiciaccia
Coperti, giù scendendo, destramente,
Del guado il fondo tenteran col piede,
E giù premendo fino a l’imo letto,
L’altezza tutta ne scandaglieranno.
Basta che dal bellico in giù rimagna
Sepolto l’uom, e di lì in su si veggia.
I fasci allora porgeransi a lui;
Ed esso deporralli a la distesa

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L’un presso l’altro sotto l’acque sempre:
Se tra le stanghe sia la sua prigione,
Lasciali, che abbastanza an sicurezza,
Sol che legno simil lor sovrapponghi,
Che di questo tal carcer’ è il più fermo,
Il più sicuro ermetico suggello:
Ma se libero è ’l guado, e tu comincia
I fasci a por da un angol de la fossa;
E siegui fin che sien scarchi i tuoi carri,
Sempre vicin l’un l’altro seppellendo.
Poi pianta ai fianchi lor pertiche e legni,
Che incrocicchiati, e ben di vinco stretti,
Per lo disopra in quel patibol leghino
Tutta la merce tua, fin che sia frolla;
E se temi che possa a galla alzarsi,
E tu l’aggrava con mattoni, o sassi,
Come poch’anzi dal mio canto udisti.
Tolto da la tua vista il tuo tesoro,
Sepolto in quella putrida palude
Non si tolga però di tua memoria.
Fiso in tua mente ti rimanga il giorno
Che ’l deponesti, e sebben tu ti scosti,
Manda spesso il pensiero a quella cava;
O se puoi, vanne tu; tu stesso vanne,
E questa legge, ch’io t’impongo, adempi.
Se per vento, o per pioggia, o per burrasca,
(Che spesso avvenir suole) il tempo estivo
Frenerà ’l suo calor, sicchè rinfreschi
L’aria, e prenda d’autun faccia la state;
L’acqua allor di tua fossa, anch’essa fredda,
Non avrà più quella virtù sì attiva,
Nè tanto acume in se stessa, che vaglia
Sì presto a separar dai cannerelli

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La canape, e a infrollirne il fil tenace;
Però non ti curar d’estrarre i fasci,
Se di legno sien carchi, e non di loto,
Fin dopo almen la settima giornata,
Nè de l’ottava ancor ti pentirai.
Ma se rugge pel ciel la fiamma estiva,
E l’aria bolle, non che insiem la terra,
E l’acqua, e tutto è pien d’ardente foco;
Allor ciò che non fa ’l settimo giorno
Freddo, fallo il calor con cinque, o sei,
Perchè ’l bollor de l’acque penetrando
Le fibre scioglie, e la corteccia stacca,
(Siccome foco, che se carne tocca,
Gonfia tosto la pelle, e la separa.)
Quindi se di tua sorte esser vuoi certo,
E saper l’opportuna ora, e ’l minuto
Di trar fuor del sepolcro i fasci tuoi
Maturi già, quanto bastar ti puote;
Al sesto dì tranne da l’acqua fuori
Alquante verghe, e tenta se con l’ugne
T’avvien carpirne di leggier la scorza
Già fatta bianca, o di colore almeno
Non più verdastro siccom’era in pria.
Se puoi ciò far senza fatica, il tempo,
Dì pur, ch’è giunto di trar fuor quant’hai
Colà dentro sepolto, ed è maturo.
Nè già t’arresta, alcun tiglio veggendo
Verde, o di quel color, che prima avea:
Questo anzi è pregio, è credito, è fortuna,
Perchè non debbe dal maceratojo
La canape già cuocersi; le basta
Un bollimento sol dolce e discreto,
Onde piuttosto ti rassembri cruda,

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Che floscia: tempo d’infrollarla è sempre,
E ’l lavorio poi tenera la rende.
Nè voler perciò batterla soverchio
Ne l’acqua, flagellandola ostinato,
Affinchè ’l verde spogli, ond’è vestita,
E dal suo cannevello si distacchi:
Così facendo tu la snerverai,
E filaccia, e non più, vedraine uscire.
Quel padre, che vuol far mutar costume
A l’insolente figlio, se lo batte
Spesso, più nel mal far l’inaspra, e indura:
Che se aspetta di porlo al lavorio,
E a le fatiche, ove in sudor si strugga,
(Sien militari, o sien d’industria, o d’arte)
Molle da se diviene, e allor si piega.
Se così vedi l’ostinata scorza
D’alcuna verga, quel color verdastro,
Ch’ebbe nascendo, non voler deporre,
Tralla pur fuor de la fetente cava,
Che poi passando, e ripassando spesso
Per le man’ de la rustica famiglia,
In varie guise, e in vario lavorìo,
Il color prenderà de l’altre ancora,
E come l’altre sue prime compagne
Rimarrà in un di peso, e di candore.
Che se ’l candor non si confà a la neve,
Non ti doler: l’eccesso sempre nuoce:
E così la soverchia candidezza
Poca forza dimostra in questa merce,
Perchè infrollata, e macerata è troppo,
E troppo è presta a far ciò che dovria
Far solo allor quand’è ridotta in tela.
Ma tu dirai: sarà dunque opra sempre

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De l’ugne, dipellare il cannevello
Da la matura, e già corrotta scorza?
No, ch’io questa da te lunga, e nojosa
Fatica impraticabile non chieggio.
Troppo sarìa; nè solo allor diresti
Cosa grave il portar l’acqua nel cribro,
O il numerar de l’ocean le stille:
Ha l’arte sua quest’opra, e benchè costi
Qualche fatica, ha il suo piacere ancora.
Se nol sai, giunto il dì tanto aspettato,
Che corrotta abbastanza tu conosca
La canape, il pensier volgi a cavarla
Fuor di quel così putrido sepolcro.
Fra gli operaj tuoi scegli i più forti,
E i più agili insiem di braccia e fianco,
Che mal coperti, e ne la guisa stessa
Già detta allora, che da pria v’entraro,
Scendan nel lago: il rimanente stia
Su la sponda a far ciò ch’ora saprai.
Chi giù s’immerge cauto sia, che i piedi,
E le gambe, e le coscie (pel terreno
Limaccioso, che preme) non conficchi
Tanto, che inutil poi riesca a l’opra,
Nè senta le punture assai moleste
Di quel cornuto insetto, che nel fondo
De l’acque morte, e de’ maceratoj,
Sol per supplizio de le gambe, alberga.
Però uno scanno, od un treppiè di legno
Giù mandi pria, su cui posar le piante,
Sicchè per fino a mezza coscia resti
Ne l’acqua sozza, e nulla più, sepolto.
Se vuole a l’opra agil trovarsi poi,

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Piantisi in modo tal, che guardi il labbro
De la fossa: e a la destra, e a la sinistra
Abbia i fasci ancor fitti, e possa comoda-
mente sfasciarli, e fuora trarli a un tratto.
Fatto securo del suo fermo piede,
Volgasi a qual più vuol de le due parti,
E tolga ai fasci il peso, che sovrasta,
O di stanghe, o di sassi, o pur di loto,
Tutto buttando a la vicina riva;
Che senza questo cominciar non puote
L’opra, per cui là giù quasi è sepolto.
Poscia a troncare o i vinci, o i rovi siegua
Onde legati son dai capi i fasci,
E vedrà a un tratto, per tal scioglimento,
Quelle manate tumide allargarsi,
Anzi con lento moto alzarsi a galla,
Siccome pesce, che a fior d’acqua nuoti.
La prima prenderà, che a la man vegna,
E così l’altre, che da se già sono
Sciolte da quel legame, onde fur cinte.
Afferrata la prima, ei se la prenda
Dinanzi tutta al ventre in acqua stesa;
Poi con le mani le stropicci forte
Tutto ’l pedal ne l’acqua, e ne distacchi
Le cannevelle, ed apra la manata
Con dolce violenza, e a pel de l’acqua.
Indi con le due mani in giù pendenti,
E con le braccia per di fuori arcate,
Sicchè i gomiti stien come arcuati
Per lo di fuor, chini se stesso, e afferri,
Ed alzi la manata con le palme,
E fin coi polsi, sempre a la rovescia
Quella rotando verso ’l proprio ventre,

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E ne l’acqua scotendola a man larga
Tre volte, e nulla più, finchè penetri,
E ’l loto lavi, e ’l sudiciume, e tutto
Ciò, che di strano si sarà frapposto:
E se non più, qui non v’è alcun mistero,
Ma così vuol la sperienza antica,
Per conservar del tiglio l’orditura
Ne l’esser suo ben districata e sciolta,
Che una rete non formi, avviluppando
Tutte le fila insieme, onde più stoppa
Se ne ricavi poi, che buona merce.
Che se macero ben non sembra il tiglio,
Scuotilo cinque, o sei, e più fiate,
Che a la fin cederà, voglia, o non voglia.
Così tal volta, se l’ingegno umano
Tarda a produr ciò che ’l comun desio,
O la speranza avidamente aspetta,
Non è già, che non voglia: è che non puote,
Perchè non anco ben maturo è ’l frutto.
Pur l’arte può dove mancò natura.
Vorrresti tu, che ai primi dì sapesse
Un pargoletto articolar parola?
Vorresti tu, che donna, benchè illustre,
Ma di natura a le scienze inetta,
Speculando, a saper cose giugnesse,
Tutte sovra natura eccelse e nuove,
E a favellar in libero idioma
Ciò ch’altri adulto a compitar fatica?
Fa, che s’avvezzi l’uno, e l’altro sotto
Frequente magistral voce, che tuoni,
Nè cessi mai, fin che la spessa goccia,
Battendo, e ribattendo ogni momento,
Quel macigno ne infranga, che gli tura

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A la pineal glandula la via.
Se con l’uso avvien ciò: felice, o quanto,
Quanto beato sia quell’intelletto,
Che intempestivamente giugneravvi!
Maraviglia sarà del secol suo,
Come lo fu quell’abruzzese Silvio,
Che poi vestì ’l più bel di tutti i manti.
Costui, pria ancor che biondeggiasse in lui
Il primo pelo del secondo lustro,
Con sì veloce, anticipato corso,
Volò fin di Parnaso in su le cime,
E i portici d’Atene, e il Peripato
Scorse, col piè non già, ma con la mente,
Che ne stupì l’Eridano, ed il Tebro ,
E come mostro il dichiarar’ vivente.
E tal veggiam ne l’età nostra ancora
Fiorir Laura la saggia, che d’invidia
E’ argomento ai dì nostri, ad ogni sesso,
E a quello più, che di talento adorno,
Non sa far cose di memoria degne.
E pur costei, di cui risuona il nome,
Non per Bologna sola, ma per tutta
Italia ancora, ed oltre i monti, e i mari,
Vinta la debolezza de l’etate,
E la natura ch’a tutt’altro inclina,
Tanto vegliò, tanto sudò, e stiè ferma
Sotto la voce di maestra lingua,
E su le carte di misterj piene,
Ch’è ad aver giunta ne l’età più fresca
Colma la mente di filosofia,
E di laurea corona adorno ’l crine,
Sicchè oracol rassembra, e non più donna.
Tale in costoro, ad onta di natura,

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Maturossi l’ingegno, e al fin cedette
Al lungo martellar di sapienza,
Siccome il tiglio non maturo ancora,
A le frequenti, ed incessanti scosse,
Ne l’acqua pregna di sì acuti sali,
E di zolfi sì blandi, e sì oleosi,
Lascia le canne, e si converte in filo.