Pagina:Il canapajo di Girolamo Baruffaldi, Bologna 1741.djvu/107

La canape, e a infrollirne il fil tenace;
Però non ti curar d’estrarre i fasci,
Se di legno sien carchi, e non di loto,
Fin dopo almen la settima giornata,
Nè de l’ottava ancor ti pentirai.
Ma se rugge pel ciel la fiamma estiva,
E l’aria bolle, non che insiem la terra,
E l’acqua, e tutto è pien d’ardente foco;
Allor ciò che non fa ’l settimo giorno
Freddo, fallo il calor con cinque, o sei,
Perchè ’l bollor de l’acque penetrando
Le fibre scioglie, e la corteccia stacca,
(Siccome foco, che se carne tocca,
Gonfia tosto la pelle, e la separa.)
Quindi se di tua sorte esser vuoi certo,
E saper l’opportuna ora, e ’l minuto
Di trar fuor del sepolcro i fasci tuoi
Maturi già, quanto bastar ti puote;
Al sesto dì tranne da l’acqua fuori
Alquante verghe, e tenta se con l’ugne
T’avvien carpirne di leggier la scorza
Già fatta bianca, o di colore almeno
Non più verdastro siccom’era in pria.
Se puoi ciò far senza fatica, il tempo,
Dì pur, ch’è giunto di trar fuor quant’hai
Colà dentro sepolto, ed è maturo.
Nè già t’arresta, alcun tiglio veggendo
Verde, o di quel color, che prima avea:
Questo anzi è pregio, è credito, è fortuna,
Perchè non debbe dal maceratojo
La canape già cuocersi; le basta
Un bollimento sol dolce e discreto,
Onde piuttosto ti rassembri cruda,