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Siccome ne le stalle ognor si vede,
Ove tra legno e legno il caval stassi.
Tra queste è il loco, ove ripor giù stesi,
Come prigioni, i fasci tu dovrai,
L’un presso a l’altro, e sovrapposti ancora,
Giusta ’l profondo sito, e giusta l’acqua,
Che vaglia a ricoprir quanto riponi.
Ma perchè fitti stian i fasci immoti,
Nè (perhè legno son) galleggi alcuno,
D’uop’è aggravarli d’alcun peso, ond’abbia
Modo ciascuno d’ivi immobil starsi;
E intanto macerar le tue corteccie,
Senza che vento le dibatta, o tragga
Da un lato a l’altro, e si sfilacci ’l tiglio.
Or questo peso è ciò, da cui dipende
Del tuo felice macerar gran parte.
Dirò l’uso miglior, pria ch’altro dica,
E gli occhj stessi me ne fur maestri.
Quando di legno sien le tue colonne
Fitte là giuso, fa che pur di legno
Sien le catene ancora onde si stringa
La canape nel suo carcer fetente:
Più stanghe avrai, che da l’un palo a l’altro
Stese, e confitte da più d’un caviglio,
Calchino i fasci, e ne impediscan loro
L’alzarsi, e ’l galleggiare a fior de l’acque.
Che faran mai questi novelli ceppi,
Che far nol possa altro strumento ancora?
Fan che l’acqua più pura in se rimagna,
Sebben putrida, nera, e puzzolente,
Ma non però mista di loto, o arena:
Il che assai giova a tener mondo il tiglio,
Che allora allora vassi macerando.