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De l’ugne, dipellare il cannevello
Da la matura, e già corrotta scorza?
No, ch’io questa da te lunga, e nojosa
Fatica impraticabile non chieggio.
Troppo sarìa; nè solo allor diresti
Cosa grave il portar l’acqua nel cribro,
O il numerar de l’ocean le stille:
Ha l’arte sua quest’opra, e benchè costi
Qualche fatica, ha il suo piacere ancora.
Se nol sai, giunto il dì tanto aspettato,
Che corrotta abbastanza tu conosca
La canape, il pensier volgi a cavarla
Fuor di quel così putrido sepolcro.
Fra gli operaj tuoi scegli i più forti,
E i più agili insiem di braccia e fianco,
Che mal coperti, e ne la guisa stessa
Già detta allora, che da pria v’entraro,
Scendan nel lago: il rimanente stia
Su la sponda a far ciò ch’ora saprai.
Chi giù s’immerge cauto sia, che i piedi,
E le gambe, e le coscie (pel terreno
Limaccioso, che preme) non conficchi
Tanto, che inutil poi riesca a l’opra,
Nè senta le punture assai moleste
Di quel cornuto insetto, che nel fondo
De l’acque morte, e de’ maceratoj,
Sol per supplizio de le gambe, alberga.
Però uno scanno, od un treppiè di legno
Giù mandi pria, su cui posar le piante,
Sicchè per fino a mezza coscia resti
Ne l’acqua sozza, e nulla più, sepolto.
Se vuole a l’opra agil trovarsi poi,