Il canapajo/VIII
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Dello scavezzamento della canape: del gramolarla: uso dè canavazzi
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Tu, che semisepolto in queste bolge
Scotendo vai lo canapin cadavero,
Sicchè l’arido scheletro, di cenci
Lacero penda, e quasi nudo appaja;
Non paventar se il puzzo allor più s’alza,
Pel frequente che fai dibattimento,
E le narici ti percote e infetta.
Lascia che l’ipocondrico sofista,
Ch’ogni picciol mutar d’aria, o di sole
Teme, piucchè ’l fiatar d’un basilisco ,
Gridi, e fugga da te, come da peste,
E siegui pur ne l’opra tua costante,
Col far, che s’accartoccino i pedali
D’ogni manata, come a tortiglioni;
Che lo stesso faranno, per natura
Di lor continovanza, anco le vette.
Poi butta ogni manata su la riva,
Dove, stando i garzoni, coglieranle,
E ad ogni tanto porteranle in mezzo
A la verde, vicina, ampla pianura,
Dove diritte in piè, tutte staransi
Con a terra ’l pedale alquanto aperto,
E pire militari in guisa appunto
Di padiglioni, o tende, ne faranno.
Nol tel diss’io, ch’è una milizia vera
L’arte di far la canape a la villa?
Ma qui neppure ha fine il suo ritratto.
Una battaglia ruinosa ancora
Resta per darle l’ultima giornata.
L’aria cocente, e ’l sol de la stagione,
Se per tre giorni luminoso dura,
Farà che bianca, e che rimanga asciutta
La scorza, il cannarello, il piè, la vetta;
Sicchè tu nuovamente rilegando
Di vinci i fasci li rimetta in carro,
Ed a le case tue li riconduca,
Ovunque più ti giova riponendoli,
Fin che ’l tempo rivegna, che col legno
Tu lor ripurghi i vestimenti e l’ossa.
La fretta più non ti tormenti, o ’l dubbio
De l’incostante, o qual si sia stagione.
Ciò che ti resta far, non ha nè giorno,
Nè prefissa ora; quando puoi, farailo,
E quando tal numer di man’ sia teco,
Che basti a l’uopo; se fanciulle avrai,
O se spose gagliarde, i giovinotti
Robusti, credil pur, non mancheranno,
Che al flagel de la canape ad ogni ora
Invitin la tua mano: è quel lavoro
Scuola d’amore, se nol sai, per essi;
E in questo vario tuono di battute,
Del loro amor la musica s’accorda.
Colui, che primo di Bertoldo scrisse,
(Bertoldo fatto di Poema degno)
Cantò ancor de la canape una farsa
Nel bolognese favellar, sì pregno
Di arguti sensi, e saporiti motti,
E in essa tutti colorì i costumi
De gli operaj, che a questo frangimento
De la macera canape dan mano.
Di là trass’io, non men che da una longa
Pratica, quanto (Albatica gentile)
Sarò per dirti in questi versi miei,
Sicchè basti a far dotti i tuoi villani,
Allora quando a villeggiar ten vai,
E tu lo scritto mio con la lor opra
Ne l’atto del travaglio confrontando,
Ne ammendi, o approvi ’l lavorìo che fanno.
Il loco del flagel, di cui qui canto,
Che siasi a cielo aperto cercar dei,
Ed ampio quanto ti bisogna a l’uopo,
Sì perchè gente molta è, che s’adopra,
Sì perchè ’l maneggiar de le mazzuole
Vuol libertà di colpo, e sì a la fine,
Perchè l’aria più giuochi, e spiri intorno
La polve a dissipar, ch’indi ne nasce.
E poi, se com’è l’uso, tu incominci
A piena luna, con quel suo chiarore
Ti possa ella tal dar luce, che basti
Tante cose a veder, quante conviensi.
Vero è, che se d’Autunno, allor che ’l giorno
A la vindemmia ogni villano invita,
Comincerai quest’opra strepitosa;
Forse le pioggie allor, non così rare,
Turberanno l’impresa: allor tu puoi
Far, che sia pronto il portical, che suole
Esser atrio a le stalle, e teza è detto,
Ma che di carro, e di qualunque arnese
Libero sia, pel già vicin lavoro,
E la canape insieme, e gli operaj
Tutti là trasportar sotto al coperto.
L’opra è però spedita più allor quando
Stiasi in aperto, e senz’angustia alcuna.
Tu reggitor, fa che sia pronto in mezzo
Un panconcello dai tre piè, ma largo
Da un lato, e lungo sia fino a l’estremo
Sempre più angusto, e ad un sol piè ridotto.
Al lato largo chiama una gagliarda,
E allegra insiem donna, o fanciulla, e questa
Sieda a schimbescio su la sponda, e faccia
Che in modo stia d’aver tutto ’l prospetto,
Dal mezzo busto in su, posto al diritto
De la panca, su cui l’opra comincia.
Allor vedrai far i garzoni a gara
D’esser gli eletti, e gongolar per giubilo,
Per cagion di colei, per cui fors’anno
Qualche d’amor viva scintilla in petto.
O’ sì che l’opra avvalorata allora
N’andrà volando al desiato fine.
Come là dove la fucina Etnea
Bolle di foco, e su la dura incude
Nudi le braccia, ed in cojetto solo,
Sterope e Bronte i colpi risonanti
In bella gara ripetendo vanno;
Così i due prodi garzoncelli alzando
O la mazzuola, o ’l mattarel che sia,
Stanno i lor colpi a scaricare intenti
Su la manata prima, che lor porge
La donna accorta al panconcello in riva,
Tanto fuora sporgendola a diritto,
Quanto l’aride canne a trinciar basta.
Prima il pedal sia quello che si porga,
Su cui più colpi scaricar dovrai,
Perchè più grosse son le canne, e dure:
Poi bel bello, e fors’anche ad ogni colpo,
Fin tanto che polputa è la manata,
Vada la donna fuor porgendo il fascio,
Poco più, poco men, quanto sia un palmo,
E rivoltandol, come la mia Ippolita
Solea già far ne lo schidon l’arrosto.
Tempesteranno i colpi giù a vicenda,
E gli abbattuti stecchi in giù cadranno,
E ’l tiglio insieme piegherà fin tanto,
Che la codetta le rimanga in mano.
La donna, allor che il fascio al fin s’accosta,
Volga ’l capo al fastello, e fuor ne spinga
La coda sì, che in due colpi leggieri
Resti disciolta la minuta canna,
Che giù stesa precipita in un punto,
E con le man’ se stropicciar la vuole,
Sarà de l’arte cortesia, e finezza.
Perchè ’l pedal più di leggier si franga,
Aprasi da la pronta femminella,
Che vedrassi così cedere al primo
Colpo, nè occorreranno altre percosse.
La virtù, allor ch’è unita, è più gagliarda,
Ma fievol resta quando si separa.
Sia la vicenda de’ flagellatori
Con arte fatta, nè col duro colpo
De l’impugnata, ben tornita, e liscia,
E sorbigna maciulla il pancon tocchi,
Che gran dolor n’avria la mano, e ’l polso.
Colei, ch’è ’l mobil primo del lavoro,
E schiava sta dannata a quel flagello,
Ben cauta la manata in grembo tegna
Ne l’atto, che strignendola nel pugno,
La sporge fuori a la tempesta dura,
Onde alcun troppo violento colpo,
(Colpo d’innamorato giovinastro
In cui amor forza a natura aggiugne)
Non gliela strappi d’improvviso, e mandi
Il tiglio, ed il manipolo in soqquadro,
Nè più modo vi sia di districarlo.
Attenta ancora stia (se può) al lavoro,
Nè gli occhj di leggier pianti nel viso
A l’uno, o a l’altro percussor: può questo
Far sì, che troppo inavvedutamente
Le mani avanzi, e non più ’l colpo cada
Su la manata no, ma su le mani,
E vergogna ne senta, e n’abbia offesa
Da la percossa a precipizio data
Da ch’indiscreto fu fin da la culla,
Nè possa a l’opra più servir quel giorno.
Anzi, se in alcun d’essi va occhieggiando,
O compartendo pur qualche sogghigno
A quel che più fa seco a la civetta,
Può destar gelosia nel suo rivale,
E può con gelosia destar lo sdegno;
E di tai caccabaldole in sequela,
L’ordin de le battute alterar molto,
(Che tremor nasce in chi d’ira s’accende)
E quindi, per assalto di furore,
Può nascer danno d’altro che di ciarle.
L’arme è già pronta, nè convien cercarla,
Perchè già d’ambo è la mazzuola in pugno;
Fuman gli altari, e vicino è ’l nimico.
Un forte colpo, colorito a fallo,
Può ’l rivale fiaccar tra capo e collo,
(Che in tal lavoro non saria già ’l primo)
E scomponendo il lavorier già preso,
In guerra sanguinosa convertirlo,
E far rider il fisco, e ’l criminale.
Piuttosto a canticchiare ognun s’appigli.
La donna canti ’l caso d’Atteone,
Che per troppo veder, mise le corna:
E i garzon’, quel di Piramo, e di Tisbe,
Che per soverchio amore ambo moriro,
O ciò che improvvisar puote in quel caldo
La fantastica mente innamorata:
Che non sarian già questi i villan’ primi
Ne l’improvvisatrice arte maestri.
Sallo l’Etruria, ove le villanelle
De la grazia real son fatte adorne,
Perchè (se d’improvviso anche sfidate)
Cantano al par de le Pierie suore:
Che ’l poetico foco al pari infiamma
La mente a chi s’abbevera a la fonte,
E di rustico cibo si nutrica,
Che a chi Montepulciano infiasca, e ingozza,
E di rare vivande empie l’ imbusto.
Rotte così le coste a le manate,
Di tratto in tratto porgeransi ad altro
Garzon, che a destra di chi siede ai colpi,
Stia ritto, e pronto a prenderle di botto.
Costui, poichè la prima ha già afferrata,
(E così l’altre, che verran dappoi)
Vedrà che tutto in fila s’è converso
Ciò ch’era pria tronco legnoso e duro,
E dovrà forte scuoterlo a due braccia,
E ben più volte alzando, e ribassandolo,
E allargando la rete del suo tiglio,
Farà con questo ventilar, che giuso
Piombin le scheggie fatte, ed ogni stecco,
E resti quanto puote il tiglio mondo.
Nè speri già di tutto ripurgarlo;
Altro a ciò si richiede, altro processo,
E nuovo esame di tormenti a forza.
Dopo a l’ingrosso le manate scosse,
Di quante n’ha (torcendole in obbliquo)
Un fastellotto, e se può dirsi, un gruppo
Attortigliato, senza nodo, formi;
E tutte tutte in cumul le riponga,
Per man d’altro garzone ausiliario,
Che mancar qui non dee per buon governo.
Finchè questo flagel dura in vigore,
Truppa diversa di garzoni, e donne
Stassi in disparte, ma ne l’aja stessa,
Tutta ad altr’opra intenta, e in gozzoviglia,
Per quanto porta un intermezzo solo,
Tra ’l faticare, e ’l ristorarsi alquanto.
Que’ fastelli, cui già rotte fur l’ossa,
E attortiglione in cumulo fur messi,
Passano ad altra man, per nuovo ancora
Soffrir martirio, e meglio raffinarsi.
Vedrai due nuovi panconcelli in piedi,
Disposti sì, che l’un dia loco a l’altro,
Nè al vario lavorar ostino punto:
Questi gli eculei son, dove ciascuna
Manata ha da soffrir nuovo tormento.
Grametto uno s’appella, o sia maciulla,
Su quattro piè fermo così, che sembra
Il cavallo, che tien scuola di salto.
Sul dorso apre un canale, ed una fossa
Profonda sì, che non ha fondo alcuno;
E in essa (come ’l bue ne le narici)
La lingua ognor chinando va bisulca
Lungo ’l canal, ed or s’alza, or s’abbassa,
A piacer di chi tienla in pugno stretta
Pel manico, che là presso la fine
Si sporge in fuori, sempre al perno fissa.
Gramola è l’altra, ed è simile affatto
Ne’ piedi, ma nel dorso apre due fosse
Eguali a quelle del grametto, e in tutto
Parallele così, che ben diresti,
Nacquero tutte ad un medesmo parto.
In queste fosse anche due lingue vanno
Calando giù ne l’atto del lavoro,
Mosse da quella man, che le governa
Siccome fa la superior mascella
Del coccodril, ch’unica al mondo s’alza.
Finchè in alto sostiensi la mascella,
Non più bisulca, ma trisulca fatta,
Da la sinistra mano, un de’ già detti
Fastelli sciolto, e non più attortigliato
Con l’altra man si sottoponga steso
Pria sul grametto per obliquo, e tosto
La forzosa mandibula lo prema,
Lo calchi, e pesti, e piucchè la manata
Fugge, rifugge, e torna a soffregarsi;
Più l’addenti, sebben denti non have,
(Ch’anzi l’averne le saria dannoso)
In virtù di quel vario stiramento,
Di quel pestare, e riscoscender spesso
Tra que’ due legni ambo tormentatori,
S’andranno e stecchi e scheggie sminuzzando.
Così ’l vecchio, sebben perduti ha i denti,
Pur con l’ossee gengive masticando,
Tanto fa, che sminuzza anche le croste.
Nel così far vedrai tra legno e legno
Cader pioggia di stecchi: allor la forza
Rinvigorisci pur de le tue braccia.
Nè cessar dal flagel così per poco:
Ma ti ricorda, che quest’è la prima
Addentatura, nè son bene ancora
Tutte le scheggie conquassate e dome.
Ha da finir questo fioccar di neve.
Un sol non vidi mai pettine usarsi
Per lisciar chioma rabbuffata e incolta.
Tempo è di scuoter ciò che pettinasti:
Già l’operaria a te vicina aspetta
Il fascio primo, che a l’ingrosso è infranto:
Recalel dunque: essa non tanto stanca,
Come tu, de le braccia, ben potrallo
Riventilarlo, ed una pioggia spessa,
Anzi un diluvio, far cader di stecchi:
Dallelo, e prendi tu nuovo fastello,
Da sottometter del grametto al morso.
Siegui trattanto, e non ti perder molto
O forosetta, a guardar d’occhio bieco
Il villanel tuo caro, perchè porta
Fitto nel cappelluccio un amaranto,
E tu lo credi un don de la rivale.
Anche tu ne l’occhiel del gonnellino
Porti una rosa, ed ei non se ne duole,
E pur non è don di sua mano al certo;
Sai tu di donde vegna? ed io pur sollo.
Siegui a calcar col tuo gramile, e intanto
La tua vicina, scossa una manata,
A chi stassi a la gramola la porga
Per ripulirla a l’ultima finezza.
Quelle due lingue, quelle due mascelle
Faran ben altro, che quel tuo grametto.
Chi ha più lingue in bocca, è un uom che vale
A star con tutti a tavola rotonda:
Ma chi ha più mascelle, non l’invidia
A tavola, al tinello, ed in cucina.
Sicchè la grama, a l’ultimo, è valente
A far ciò, che finor tu non facesti.
Vedi quel suo calcar, come conficca
E stritola ’l fastello, e seco quanti
V’ha stecchi grossi, tutti li sminuzza,
E poco men, che li riduce in polve,
E in quattro, o sei lisciate esce di lizza,
Ed il tiglio fa lucido, e ’l raffina?
Così fa chi i capei tiene in cultura;
(Cosa in oggi comune a gli uomin’anco:)
Un pettinel finissimo, e minuto
Fa ciò che far non puote il grossolano,
E pur, vedi ove l’attentato arriva!
E le lendini stana, ed i pidocchj:
Qui non ha fine lo scorticatojo.
Passato in altra mano il liscio tiglio,
E scosso nuovamente, ecco sottentra
Un’altr’arme a grattargli la cotenna,
Ed a darli così l’ultima purga.
Tienla la man villana, e rialzandola,
Ecco impugna un coltello, anzi un pugnale
Di legno sì, ma largo, e liscio, e d’ambe
Le coste sì sottil, che sembra spada,
E quindi con ragion spatola è detta.
Con questa il fascio tutto, che da pria
Sparnicciato n’uscì fuor de la grama,
E si frega, e si stende, e purga ancora
Da qualche avanzo de’ minuti stecchi;
E tal lustro ne nasce, che di prezzo,
E di credito, ovunque ella si mostri,
S’accresce la tua canape altrettanto,
Ch’io sto per dir, ritornerebbe al mondo,
Per lavorarla, Berta, se filasse.
Ma, se nol sai, convien, che cauto adopri
Questo estremo rimedio a tempo e a loco:
Se il tiglio è forte, e resistente al colpo,
Fa quell’uso che vuoi di questo legno,
Che a la fin poi ne rimarrai contento:
Ma s’è floscio, e sottile, allor deponlo,
Perchè danno gli arrechi, e non più ’l lucro
N’avrai, che già da pria ti promettea,
Non meno il suo candor, che la sua forza.
Ed ecco de la canape ridotto
Tutto il lavor sì faticoso al fine.
Il canavaccio anco svestir ti resta:
Questo, macero e asciutto, di leggieri
Spoglierailo, tirando a fil la scorza
Pel lungo de la canna, onde ben tosto
Nuda e bianca vedraila, e ne potrai
Far siepi, e zolfanelli ad ogni casa
Comuni, e usati per accender foco:
O pur ne farai serbo per allora,
Che in notte buja andrai pel vicinato,
In carnascial sonando il colascione ,
A veglia, o a danza con la tua famiglia;
E saran le tue faci, e i tuoi fanali.
Questa canape poi, perchè nericcia,
Con l’altra già migliore non mesceraila:
Tienla divisa, e dàlla al tuo funajo,
Che la bifolcherìa di funi e spago
Per lungo tempo ti terrà provvista:
Ma l’altra no, candida, liscia e forte:
Quella sarà la favorita, e d’essa
Tu ne farai più mazzi, o fastelloni,
Ma soprattutto pel di fuor ben lisci,
Ne le sue fronti, per riporli dove
L’agio di casa tua più tel consente;
Fin che ne venga il mercadante accorto,
In denaro a cambiar la tua fatica:
Che ben molti verranno da la fama
De la tua mercanzia sempre invitati,
Se l’astuto sensal scritto non abbia
Qualche flagel di grandine, o melume
A Vinegia, a Livorno, o a Sinigaglia.
Guarda però, che il magazzin dov’hai
Riposto il tuo sudor, sia ben guardato
Da l’umido, e in prospetto abbia buon lume:
Sicchè entrando il mercante, al sol riflesso
Del balconcel, per così dir, s’abbagli
Nel lustro, e nel candor di que’ fascioni.
Allora cresci per la tua derrata,
Che non saratti mai l’offerta avara.
Vedrassi a josa il canalino carco
Del centese tesor correr più lieto
Co’ varj legni suoi verso Ferrara,
E di là poscia, ver l’Adriaco mare,
E il testimon portar, ed il sigillo
Di questa canapifera pianura,
Di popol ricca, e d’animi gentili,
De le bell’arti amica, e al ciel diletta.
Ma non più di coltura. E’ tempo, ch’io
Deponga omai la rustica zampogna,
E la cetra ripigli, o pur la tromba,
E canti in altro tuono, or che l’Augusta,
Nuova Partenopea sposa, e reina,
Da la Sarmazia scende, e Italia onora.