Pagina:Il canapajo di Girolamo Baruffaldi, Bologna 1741.djvu/90

Con uno stelo de la stirpe stessa,
Che canavella in nostra lingua è detto.
Così facendo il buon cultore esperto
Ben ravvisa, distingue, e in un ributta
Gli arbusti, che, meschini, in piè moriro,
O per natura inferma, o per mancanza
D’umore, o per qualunque altro difetto,
Pria che la falce al piè gli minacciasse.
Questi, al color diverso, abbruciaticcio,
E nulla verde, anzi tirante al nero,
Anno il lor vitupero in fronte scritto,
Come in fronte ai Giudei l’ira di Dio.
E pur vagliono anch’essi, e pur corrotti
Dal macerar, son di filaccia pieni,
E a qualche uso ben sa l’arte adattarli.
Sovviemmi, (nè gran tempo è) ch’io mi vidi
Pallido, e tinto del color di morte,
Quando importuno ardor febril m’assalse,
E per più giorni inaridì mia vena.
Io, fra me dissi allor, sono una pianta,
Cui manca, o troppo abbonda il vital suco,
E però fuora d’equilibrio stando
In me ciò che componmi, io già m’accosto
A non poter regger mia vita in fiore,
E già la Parca sta col ferro in mano
Per recider la misera orditura:
E pur poc’anzi fui del numer uno,
Com’era questo popol canapino,
A ordir più fila, e a tesser tele eletto
Là dove le Pierie inclite suore
Stanno al lavoro, e a le bell’opre intente.
Or a l’uso primier più non sentendo
Atta la mia sostanza, inutil stommi,