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Io così per trastullo, e per quell’ozio
Fuggir, che a gli egri è sì penoso, e grave,
Volgea tai carte, ed util facea ’l tempo,
Come util vien la canape già infetta
A qualch’opra, sebben non signorile.
Quando ’l vigor di pria, ch’era smarrito,
Alfin poi rivestimmi, ed io risorsi,
Grazie, Odoardo, a te, che con quell’arte,
La qual sa torre a morte i corpi frali,
Me drizzando con l’opra, e col consiglio,
(Del mio malor troncata la radice)
A più matura vita riserbasti.
Perdona s’io di te canto in un rozzo
Stile, e in opra di rustico argomento:
Divina è l’arte, in cui maestro sei,
E lingua piucchè umana a te conviensi,
Non la mia, ch’è mortale, e al fin s’accosta:
Però serbala pur: se vuoi, che ’l puoi,
Serbala, e in altro stil più sciolto ed alto,
“Una volta dirò, che un angiol, credo,
Medico per me fatto, è sceso in terra.
Ma ritornando a la smarrita via:
A questa mercenaria opra d’espurgo,
O di cappar la canape, è antico uso
Di convocar donne operaie, e serve,
Più sollecite assai, non che più attente
Ne lo star ivi ritte a la fatica
Per tutto un dì, tirando a se le vette,
E componendo i fasci e le manate.
Un certo amore è quello che le inclina,
Che nasce là da la conocchia, a cui
Fur destinate fin dal nascimento.
Perciò le vedi, che tornando a sera