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Allor taglialo pur, ch’è già maturo,
E per lui giunta è ormai l’ora di morte,
Che già con quel suo sì bizzarro orgoglio,
Per se non la credea sì da vicino.
Ma non lo scuoter, anzi serba illesa,
Ogni sua vetta, ed ogni ramuscello,
Troncandoli così, che decollato
E senza capo il busto ne rimanga.
Questo, asciutto che sia, ben ponlo in fasci,
E dopo macerati i primi arbusti,
Al destin serbal del maceratojo.
Il seme poi ne le sue frondi ancora,
Ponlo in massa così, che già si sgusci,
E a forza di percosse, un coreggiato
Batta, e ’l ribatta sì, che fuor ne sbalzi
Da la già secca lolla, ov’era chiuso,
A rinovar la sua progenie antica,
Serbandol fino a l’opportuno tempo,
Quando la Primavera ogni animale,
Ogni pianta, ogni fior scalda, e innamora.
Ma l’estremo pensier de’ canavacci
Non vo’ che la merenda mi ghermisca.
Al desco adunque, al desco, anzi a l’erbosa
Mensa, ch’è a piè d’un olmo apparecchiata,
Ciascun m’aspetti, ch’esser io vo’ ’l primo,
Con la mia fida Albatica per mano.
Ma che non può la fame? In fin ch’io detto
De’ canavacci, e del lor uso, ognuno
S’è assiso già, già le vivande ha in pezzi
Divise da trinciante, e trangugiate.
Dammi quel cacio qui, golosa Menica,
Ch’io n’assaggi un tantin, sicchè m’attizzi
La sete nel palato, e possa dopo