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Giacente in mezzo a tormentose piume,
O su piedi non miei, languido e tristo,
Ma non inutil già, sebben mal vivo.
In tanta angoscia, e in sì misero stato,
Elessi il ben de la più cheta vita,
Soli, per mio ristoro, usando gli occhj,
E con la mente seco meditando
Le meraviglie che produr può l’arte
Su i muri, su le tele, e sopra i fogli,
Che in un volume ho qui, quai rare gemme,
A mio ristoro, e de la Patria a onore,
E per memoria a l’avvenir, raccolti.
Benedetta la man, che guidò i segni
Del ferro, e benedetti chi li tinse;
E fu la tua (centese Apelle) a cui
Se un occhio torto fabbricò natura,
Retto però costrusse l’intelletto.
“Quali cose tralascio, e quai ridico,
Da dotta man su queste carte incise?
Carte non son già queste, che avvivasti,
“Ma dive dal ciel scese in terra, e Divi;
“Ch’io veggio i moti, ed odo le favelle.
O carte degne d’esser chiuse in cedro,
E d’oro, e d’ostro, e non di minio adorne,
Piucchè già quelle di colui che l’arte,
Ed il rimedio c’insegnò d’amore:
Carte di chiaro nome, e d’alte idee
Vivaci scaturigini, e di studj,
Che ’l gran figlio di Cento eterno fate:
Nere tal volta sì, ma che in quel nero
Il ver fate più vero e rilucente,
Segnando, qual carattere, o sigillo,
“La macchia del pittor celebre tanto.