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410 serata xxiv. intermittenza dei vulcani


«Due città a noi note, e chi sa forse altre ignote, e certamente case e villaggi e vittime umane senza numero. Quando si dice che Pompei fu sepolta, si afferma in pari tempo che nulla può essere rimasto nè dell’abitato, nè delle campagne sui fianchi del Vesuvio; che cioè fu letteralmente distrutto, a giudicarne da ciò che è al presente, uno dei più fertili e popolosi distretti che vantasse l’Italia. Quanti lutti! Quanta miseria! Ma, vedete, i Romani ragionavano e sentivano a loro modo. Per un conquistatore, sia popolo, sia re, l’eccidio di una città, l’esterminio di una nazione, sono ancora un nonnulla. Quanto a Plinio il giovane in particolare, se poteva guardare tranquillamente gli uomini che egli faceva scannare nella Bitinia, pur dichiarando di ritenere la religione cristiana come una innocente superstizione; poteva bene numerare senza scomporsi le vittime di un disastro, di cui nè egli nè nessuno aveva la colpa. Ma torniamo al Vesuvio.

9. » Dopo l’eruzione di Plinio (così si suole chiamarla) il Vesuvio passò per diverse fasi. Vi ho detto, se vi ricorda, che i vulcani tutti presentano lì per li la stessa fisonomia e gli stessi caratteri. Uno di questi è l’intermittenza. Oggi, se volete, i furori di una eruzione che minaccia di subissare un’intera regione; domani la calma, il silenzio più perfetto, che dura degli anni, dei secoli. D’ordinario però un vulcano non passa di lancio dal parossismo al riposo, ma vi passa gradatamente presentando quindi diverse fasi, caratterizzate da diversi fenomeni. Il Vesuvio è anche perciò quello che si direbbe vulcano tipo, perchè già più volte, da Plinio a noi, compì il giro delle sue fasi, alternando le cento volte i repentini furori e i lunghi riposi. Bisognerà pure che vi dia un’idea di queste fasi; ma lo farò un’altra volta».