Il bel paese (1876)/Serata XXV. - Il Vesuvio nella fase pliniana
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SERATA XXV
Il Vesuvio nella fase pliniana.
Fase pliniana, 1. — Fase stromboliana, 2. — Fase pozzuoliana e fase ischiana, 3. — Eruzione del 1631, 4. — Attività stromboliana del Vesuvio negli ultimi due secoli, 5.
1. Eccomi a parlarvi, come v’ho promesso, delle fasi che presenta un vulcano. Esse sono quattro: la prima è la fase pliniana o fase di esplosione. Voi intendete già perchè questa prima fase si chiama pliniana. Infatti è la gran fase del parossismo, quando il vulcano, rompendo d’un tratto il sonno, che forse dormiva da secoli, come fece il Vesuvio al tempo di Plinio, squarcia il suo cono, butta, se fa d’uopo, in aria le montagne, solleva alle stelle il mostruoso pino, cioè il gran getto di vapore, che per la sua forma fu paragonato da Plinio a quella pianta, inonda l’aria di ceneri, di lapilli, e di pietre, che cadono all’ingiro del cono, come cadono la neve e la grandine, e dalla gola infocata vomita torrenti di lava. Nell’atto che la lava erompe, le ire del vulcano sembrano acquietarsi: anzi spesso l’uscita della lava si presenta, relativamente parlando, come un fenomeno tranquillo, e si può dire che colla emissione delle lave si chiude la prima fase, e si apre la seconda. Questa però veramente non comincia se non allorquando il vulcano, perduta la forza di espellere le lave, se le ritiene, per così dire, in corpo, sicchè gli gorgogliano nella strozza; e questa può dirsi fase di dejezione, se si guardi al fatto che l’ejaculazione delle lave ne è come il preludio. Meglio però si chiama dai moderni fase stromboliana, la quale può durare indefinitamente, mentre la prima è sempre, relativamente, di corta durata».
2. «Fase stromboliana.... Che razza di parola è codesta?» domandò la Giannina.
«Stromboliana da Stromboli.... perchè lo Stromboli dura appunto già da secoli in questa fase. Sapete voi dov’è lo Stromboli?».
«Stromboli» rispose tosto Giovannino, «è una delle isole Lipari».
«Appunto; è un’isola vulcanica, anzi un vulcano che sorge dal mare, disegnando un cono regolarissimo che si projetta ben da lontano sull’orizzonte. D’inverno e d’estate, di giorno e di notte, navigando da Napoli a Messina, voi vedrete sempre quel cono che fuma. Così come i viventi, lo videro fumante i Romani e i Greci, ed i suoi fuochi interni, riflessi dal fumo durante la notte, servirono ad essi di faro, come servono a noi. Come avviene questa cosa? Quel brav’uomo di Spallanzani, di cui vi ho parlato altre volte, fu il primo, io credo, a superare la vetta dello Stromboli, anzi a sormontare, con rischio della vita, l’orlo del cratere. Egli trovossi allora sospeso sopra una profonda voragine, e vide giù in fondo la lava ribollente a guisa di liquida pece. Essa a volte a volte si rigonfiava, si rigonfiava, quasi la ventraja di un gran bue sventrato. Ma ad un tratto era come crepasse e dalla rotta pelle usciva una viva luce, quindi un getto di vapore, che, levandosi con forte scoppio lasciava cadere sui fianchi e nell’interno del cono una grandine di scorie e di lapilli. Così lo Stromboli ribolle da due mila e più anni, rimontando ai tempi di Polibio e di Strabone. I suoi brevi parossismi non presentarono mai i caratteri di una vera eruzione; come i suoi riposi non lo dissero mai spento. Altri vulcani presentarono, come lo Stromboli, l’imagine di una caldaja di lava bollente; ma nessuno, che si sappia, si mantenne così lungamente, così costantemente, in questo stato di perenne attività. Sul cessare delle grandi eruzioni i vulcani presentano assai frequentemente, durante un periodo più o meno lungo, i fenomeni dello Stromboli; ed ecco perchè questa fase, che succede ai grandi parossismi, fu detta fase stromboliana.
3. » Ma ordinariamente anche la fase stromboliana ha corta vita. Le dejezioni sono cessate; le lave più non ribollono che lentamente nel cratere; le scorie natanti si riuniscono, si conglutinano; formasi sul fondo del cratere un sodo pavimento, che serve di coperchio alla grande caldaja. Talvolta dai crepacci di cotesto coperchio, continua, benchè assai indebolito, a sfogarsi il vulcano, che lancia al di fuori getti intermittenti di vapori e di scorie: talvolta anche qualche sgorgo di lava. Più tardi, però i maggiori crepacci si ostruiscono, e dai crepacci minori, come dagli spiragli d’una grande caldaja, emanano soltanto i gas e i vapori; i quali mantengono una nube che oscilla sulla vetta del cono. Il vulcano è entrato nella sua terza fase, la fase di semplice emanazione, o fase pozzuoliana, come io la chiamo da poco tempo in quà. Il vulcano si è convertito in solfatara. Fumajole di vapori acri e puzzolenti, moffette, ossia esalazioni di gas acido-carbonico, sorgenti calde, sublimazioni di diversi minerali cristallini tra i quali primeggia il solfo, ecco quanto resta di quella terribile attività, che sparse dapprima la desolazione e la morte sopra vaste regioni. Ma anche le emanazioni cessano a poco a poco: le lave, esposte all’azione atmosferica, si decompongono, si convertono in fertile terriccio. Una vegetazione rigogliosa si arrampica, per dir così, sull’arida montagna; riveste il lembo del cratere e il fondo, che era una volta la bocca spalancata dell’abisso. Così il camino di un’ardente fornace si trasforma in una silenziosa foresta, o in lago tranquillo, accarezzato dagli zefiri. Il vulcano è spento!... È spento?... Egli dorme: ma quanto il suo sonno è menzognero! Egli non corre che la quarta delle sue fasi, la fase d’estinzione o fase ischiana che appunto si dice fase, perchè non rappresenta che uno stato passaggero del vulcano. Quel vulcano si desterà, forse fra un mese, fra un anno, fra un secolo, forse fra mille anni, più furente, più spaventoso di prima.... E che vi pare che io esageri? Sappiate che noi abbiamo pure in Italia un vulcano che ci ammaestra per bene a diffidare di uno stato di tranquillità, ed è da esso ch’io piglio l’epiteto di ischiana per designare questa fase di morte apparente. Sai, Giovannino, dove è posta l’isola d’Ischia?»
«Se ben mi ricordo, nel golfo di Napoli», fu lesto a dire Giovannino. «Ma non è un vulcano».
«Forse gli stessi Ischiani credono, al pari di te, che non sia un vulcano. Anche quelli che per avventura ne riconoscono la natura vulcanica dai numerosi crateri che veggonsi là colla bocca ancora spalancata, e dalle correnti di lava che sembrano eruttate jeri, non dubitano al certo di ritenere come spento il loro vulcano. Corsero infatti sei secoli ormai dacchè l’Epomeo, il più gran monte, cioè il più grande, o meglio l’unico vulcano dell’isola, dorme tranquilli i suoi sonni, sotto le coltri fiorite di una vegetazione lussureggiante. La storia delle sue eruzioni termina con quella formidabile del 1302. Sarà stata l’ultima? Io non oserei affermarlo e nemmeno sperarlo. Sei secoli di riposo non sono una garanzia sufficiente».
«Diacine!» esclamò Giannina quasi rimproverando la mia diffidenza.
«Un momento, Giannina. Sai a qual’epoca rimonta l’eruzione che precedette quella del 1302?... Indovinalo un po’.... A circa un mezzo secolo avanti Cristo. Capisci? L’Epomeo d’Ischia fu in grande attività dal 36 al 45 av. Cristo: riposò quindi 13 secoli, finchè ridestossi nel 1302!... Se l’Epomeo, che dorme da 600 anni si avesse a risvegliare da qui ad altri 700 anni; non farebbe nè più nè meno di quanto ha già fatto. Vedi se merita di dare l’aggettivo a quella fase bugiarda in cui si trova esso medesimo attualmente.
» Ora che conoscete, a un dipresso, i costumi di codesti formidabili mostri che si chiamano vulcani, sarete più in grado di apprezzare quanto sto per descrivervi, tornando al nostro Vesuvio. Esso, come vi dissi, compi già molte volte la sua rivoluzione, cioè il giro delle diverse fasi, pigliando le mosse dalla eruzione di Plinio; nè pare voglia stancarsi così presto. Anzi le sue rivoluzioni sembrano farsi sempre più rapide. Dalla vita alla morte, dalla morte alla risurrezione non ci corre per lui che un periodo di pochi anni, di pochi mesi, talora anche di pochi giorni.
» Andando voi a Napoli, nessuno vi potrà dire preventivamente come troverete il Vesuvio. Forse vi darà l’eroico spettacolo di una eruzione; forse vi manderà in pace con una boccata di fumo, od anche con meno. Io, per esempio, non ebbi la fortuna.... (parlo da naturalista, vedete.... come quando i medici, capitandogli un poveraccio straordinariamente martoriato, lo dicono un bel caso....) Voleva dunque dire che io non ebbi la fortuna di incontrarmi in una eruzione».
«Oh ci spiace!» disse Giannina: «così non ce la potrai descrivere».
«Tuttavia vidi il Vesuvio nelle altre fasi, che sono pur belle e posson dirsi tali senza eccezioni».
«Sì», insistè Giannina; «ma un’eruzione!...»
«Che vuoi? Io non poteva dire al Vesuvio: — Da bravo! fammi un po’ vedere come sai vestirti cogli abiti da festa, perchè possa poi narrare a’ miei nipotini le tue prodezze. — Ma via.... non avendo del mio, piglio a prestito l’altrui, e vi dirò qualche cosa della eruzione del 1631, la più terribile forse dopo quella di Plinio e che, per buona ventura, fu molto ben descritta da parecchi testimonî di veduta».
4. L’uditorio dà segno di viva attenzione, ed io comincio1.
«Eccoci al 1631. Da più di tre secoli il Vesuvio, sommerso in una specie di letargo, lasciava credere ai tranquilli coltivatori del suo bel cono, d’aver chiuso l’egira2 delle sue spaventevoli devastazioni. Vuolsi da taluno che un legger soffio di vita si fosse manifestato nel 1500. Non v’ha dubbio intanto che il Vesuvio era spento da 130 anni. Era un periodo di riposo abbastanza lungo, perchè la generazione vivente, anche i più vecchi, non avessero nessuna esperienza, forse nemmeno un ricordo delle sue smanie. I coltivatori di quella montagna erano andati sempre più guadagnando terreno, e ormai i floridi colti si erano spinti fino alle basi del gran cono che sovrasta all’atrio del Cavallo. Il piano stesso dell’Atrio, non altro in oggi che un gran lago di lave, era convertito in una specie di ericaja seminata di arbusti e di macchie, e la ginestra, sempre prima a prendere possesso delle rupi ignude, si era arrampicata sui fianchi stessi del cono. Ma gl’indizî più menzogneri di pace erano offerti da quello stesso cratere, che aveva mossa le tante volte a quelle campagne la più terribile guerra. Chi guadagnava la sommità del cono, si vedeva sull’orlo di una voragine della circonferenza di 2 chilometri, e della incredibile profondità di 150 metri3. Ma quel botro non presentava nulla di spaventoso allo sguardo. Era una specie di vasto anfiteatro, la cui arena era coperta di lussureggiante vegetazione. Alle fragole ed alle altre piante erbacee, che ne tappezzavano le pareti, succedevano, ove l’opportunità del suolo lo permetteva, le querce, gli olmi, i tigli e i frassini. Per un sentiero tortuoso i pastori scendevano a pascervi i loro greggi, mentre il cignale si teneva nascosto nel folto delle macchie. Un piccolo piano seminato di pietre vulcaniche, e qualche bacino di acque calde, talora acri o salate, erano i soli indizî d’una attività che non si poteva dire assolutamente cessata. Ma ecco, verso la fine del 1631, alcune scosse di terremoto cominciano a rendere sospetto il Vesuvio a’ suoi troppo fiduciosi abitatori. Sul principio del dicembre dello stesso anno, un certo tale si era recato sulla vetta del cono. Qual fu il suo stupore quando potè accertarsi che il fondo del cratere si era sollevato! Sparsasi la paurosa novella, altri più tardi corrono a verificare il fatto. Oh spavento! Il fondo del cratere si era sollevato fin presso il suo labbro!... Alla vegetazione, quasi distrutta, eransi sostituiti dei fanghi bituminosi e solfurei. Intanto l’ululato dei cani, il muggito del bestiame e le strida degli uccelli erano tristi presagi di luttuosi avvenimenti4.
» Eccoci al giorno fatale! Nella notte del 15 al 16 dicembre, incominciando dalle 10 pom., i terremoti imperversavano oltre misura. Si contarono fin cinquanta scosse, che si succedevano con furore sempre crescente. Erano il prologo della spaventosa tragedia. L’alba appariva in un cielo perfettamente sereno, e Napoli dormiva ancor tranquilla, non presaga della tempesta che le si addensava sul capo. Alcuni campagnoli che si recavano alla città, videro d’un tratto una gran colonna di denso fumo sollevarsi sulla vetta del Vesuvio. La voce di un fatto così straordinario si sparge rapidamente per la città: le piazze, i terrazzi delle case, tutti i luoghi da cui si poteva vedere il Vesuvio sono in pochi istanti gremiti di spettatori. Lo spettacolo era veramente straordinario. Il sole si levava in quel punto, e sul fondo azzurro, radiante del cielo, spiccava una enorme colonna di fumo, tutta d’un pezzo, biancastra all’esterno, poi nerastra, lurida e d’un rosso scuro al centro. Quella colonna, levatasi al di sopra delle regioni delle nubi, si arrestava ad un tratto, e dilatandosi orizzontalmente in vortici ondosi, presentava quella forma di pino che Plinio aveva così bene descritta. E la chioma del pino si andava allargando a dismisura, pigliando le forme più bizzarre, che all’immaginazione del popolo erano mostruosi elefanti, chimere, colossi minacciosi. Lampi, a guisa di grandi strascichi di fuoco, solcavano quella nube, e s’udivano detonazioni e rumori simili a quelli del tuono. Al tempo stesso vedevasi la montagna lanciare in aria, con spaventevole fracasso, enormi pietre infiammate, che cadevano a grandi distanze, e cominciarono a piovere, in copia strabocchevole, le sabbie e le ceneri. In breve ora il cielo era scomparso dietro la sinistra nube, che coprendo quanto si vedeva di terra e di mare, tutto risepelliva nelle tenebre della notte.
» Tale era lo spettacolo che colpiva Napoli di spavento. Imaginate voi intanto quale orribile scena dovevano presentare i paesi sparsi alla base e sui fianchi di quella montagna di fuoco! Sopra una terra che traballava, sotto un cielo tenebroso che fulminava e grandinava pietre, i poveri abitatori del Vesuvio fuggivano in preda al terrore ed alla disperazione, colla morte dipinta sul volto. Si vedevano madri che seco trascinavano strillanti nella fuga due o tre bambini a una volta: si vedevano figli che si recavano sulle spalle i genitori vecchi e paralitici.... Ma chi fu mai capace di descrivere simili scene! In un istante tutto quel golfo, ove direste si concentrino i sorrisi del cielo e della terra, quel golfo era un finimondo, un inferno, dove sembrava trionfare la collera di Dio, tra le convulsioni della natura, e la desolazione del genere umano.
» Così passò il giorno 16 dicembre, senza alcun indizio che il vulcano volesse rimettere della sua ferocia; anzi verso sera nella stessa città di Napoli le muraglie traballavano e si screpolavano, le porte e le finestre si aprivano e si chiudevano, senza che vi fosse un pelo di vento; le case diroccavano; le ceneri cadevano copiose; un odore di solfo e di bitume ammorbava l’aria.... Il popolo credeva veramente giunta l’ora suprema della giusti zia di Dio. All’apparire del giorno 17 il Vesuvio, anzichè acquietarsi, pareva raddoppiasse le ire. La cenere era così fitta che toglieva il respiro, e la notte così oscura che era impossibile guidarsi altrimenti che al chiarore delle torce. Verso le nove del mattino il vulcano, quasi a far pompa di nuovi mezzi di sterminio, vomitò dalla gola spaventevole una prodigiosa massa di acqua, che precipitossi divisa in tre enormi torrenti. La possa rovinosa era tale che le case erano sradicate intere colle loro fondamenta: e si formarono in mare delle penisole di quasi un chilometro, non altro che cumuli di rovine, che quei torrenti improvvisati venivano recando al mare. Il mare stesso, unendo le sue alle ire del vulcano, tre volte ritirossi con impeto dal lido, fino alla distanza di un chilometro, e tre volte ritornò rovinoso ad assaltare le coste.
» Erano le dieci, quando un nuovo spettacolo venne ad accrescere il terrore di chi ne era già al colmo. Tutta la montagna sembrò un istante liquefarsi. Un enorme torrente di lava incandescente, uscendo d’un tratto dalla nera caligine della montagna a guisa di mostruosa apparizione, mostrossi in atto di precipitarsi dall’Atrio, e scese giù rovinosa travolgendo ne’ suoi fiotti infocati tutta la campagna, e i paesi che le acque e i terremoti avessero per avventura rispettato. Quella massa di lava, la più enorme che ricordi la storia del Vesuvio, veniva giù divisa in numerosi torrenti, dei quali alcuni presentavano più d’un chilometro di larghezza. Veramente la montagna si era squarciata, e le sue viscere infuocate si effondevano sulla terra. Imaginatevi che la superficie di quelle lave fu calcolata di quasi 15 milioni di metri quadrati, e il loro volume di circa 73 milioni di metri cubici. Davanti a quei torrenti di fuoco, ardevano le foreste e le campagne, sparivano le case, ogni traccia di vita era cancellata. Il vasto torrente che discese nella direzione di Portici, distruggendo diversi paesi, si avanzò in mare fino a 400 metri, dal lido: un’altra massa, che divisa in due fiumi della larghezza di 1300 metri, distrusse Torre Annunziata e altri paesi all’ingiro, si spinse pure in mare fino alla distanza di 1300 metri. Fu in questo stesso giorno 17 dicembre, che le sabbie e le ceneri del Vesuvio, trasportate dai venti andarono a spargere il terrore in lontane contrade. La nube attraversò l’Adriatico, passò sulla Dalmazia, e così via via verso l’oriente, sicchè videro cadere le ceneri vesuviane Cattaro, Gradichi, Acrio, l’isola di Negroponte, e infine la stessa città di Costantinopoli.
» Il giorno 18 il vulcano continuò a vomitare ceneri, sicchè l’atmosfera era polverosa, e cadevano piogge fangose. Dal giorno 19 al giorno 27 l’eruzione continuò con fasi diverse, non cessando mai il Vesuvio di vomitare materie infiammate, e ceneri, e pietre. Il giorno 28 una parte del grande cratere crollo, e ne uscì di nuovo un torrente di acqua devastatrice. In fine i fenomeni vulcanici, variando di natura e d’intensità, si succedettero ancora per più di due mesi. Manifestamente però il Vesuvio veniva rimettendo delle sue forze, sicchè col principio di maggio era quasi ritornato alla primitiva calma. Allora soltanto poterono i superstiti misurare la portata di quella grande sciagura. Il gran cono, che avanti l’eruzione, superava di 60 metri la vetta più elevata del Somma, ora gli rimaneva 108 metri al disotto. La montagna era dunque rimasta tronca a 168 metri sotto il suo vertice. La forza che l’aveva così decapitata, l’aveva anche letteralmente sventrata; il cratere che prima della eruzione misurava a stento due chilometri di circonferenza, era ora cambiato in una voragine della circonferenza di cinque chilometri. Che dire del paese all’ingiro? Di quella bella Campania, col suo cielo così dolce, i suoi campi così fertili, la sua aria così salubre? Nulla ormai che un deserto squallido e spaventoso, coperto di lave fumanti, o di aride ceneri e di pietre. La vegetazione scomparsa; i paesi diroccati o sepolti; i lugubri piani sparsi di cadaveri di animali, che ammorbavano l’aria di putridi miasmi. E che più doveva rimanere dell’antico suolo, se a 12 leghe dalla bocca del vulcano le ceneri cadute attingevano il livello dei tetti, e formavano almeno uno strato di tre a sei metri di grossezza! Se tra le pietre slanciate se ne trovò una che non potè venir smossa da 20 buoi?
5. » Basta, miei cari.... Spero di aver detto abbastanza per darvi un’idea della prima, della più imponente tra le fasi che presentano i vulcani. Una eruzione vulcanica, lo ripeto, non si descrive, non si dipinge. È uno di quegli spettacoli davanti ai quali l’uomo si fa piccino piccino e sente di non essere che un granello di polvere a petto di quel Dio, davanti a cui si turbano gli abissi5. Dopo la grande eruzione del 1631 il Vesuvio non ne ebbe altra che potesse paragonarsele per l’intensità dei fenomeni. Non ebbe però nemmeno lunghi periodi di riposo, mantenendosi in quello stato di continua inquietudine, durante il quale un vulcano alterna i brevi riposi coi parossismi non così violenti, come quello che abbiamo descritto. Si può dire anzi che il Vesuvio non presentossi più in uno stato di riposo perfetto, mentre la sua attività, salvo brevi intervalli, manifestossi sempre fino ai tempi nostri non foss’altro che con quel pennacchio leggero e oscillante di bianco fumo, che lo annuncia ai vegnenti da lontano anche nelle epoche di maggiore tranquillità. Ciò vuol dire che il Vesuvio, dalla fase pliniana in cui era entrato nel 1631, e che è sempre assai breve, era passato alla seconda fase, cioè alla fase stromboliana, fase di continua attività, in cui i parossismi più o meno forti alternano con periodi di attività tranquilla, e la cui durata può prolungarsi, per un tempo indefinitamente lungo.
» Vi ho già detto che questa fase si dice stromboliana perchè è caratteristica dello Stromboli (vulcano delle isole Lipari), il quale vi persiste sin dai tempi preistorici. Polibio, Strabone e Plinio lo descrissero su per giù come è descritto dallo Spallanzani, che lo visitò sul finire del secolo scorso. Quel coraggioso naturalista, arrampicatosi, come vi dissi, non senza pericolo, fino alla vetta del cono, e annicchiatosi entro un fesso, da cui poteva figgere lo sguardo in fondo al cratere, rimase lungo tempo testimonio della vita che gl’interni fuochi vi intrattengono da tante migliaja d’anni. Qui giova che vi richiamiate le cose principali che egli vi ha vedute. Il cratere dello Stromboli è una caldaja in forma d’imbuto il cui labbro misura 340 piedi all’incirca. Quella caldaja è riempita fino a una certa altezza di una materia infocata che ha l’apparenza di bronzo fuso, agitata continuamente da moti vorticosi. Di tratto in tratto quella lava si gonfia, alzandosi rapidamente entro il cratere. Quando però è vicina a raggiungere il labbro della caldaja da cui minaccia ad ogni istante di riversarsi, s’ode uno scoppio, come un colpo brevissimo di tuono; una colonna di denso fumo si svolge, lanciando una tempesta di scorie e di lapilli. Seguita l’esplosione, la lava si abbassa per ringonfiarsi, scoppiare, ed abbassarsi di nuovo. Così il cratere dello Stromboli presenta veramente l’aspetto di una gran pentola che bolle, ripiena di un liquido denso e viscoso. Or bene, non è soltanto lo Stromboli che si trovi in queste condizioni. Molti altri vulcani presentano o presentarono, per un tempo più o meno lungo, gli stessi fenomeni. È celebre per questo l’Inferno di Masaya, vulcano dell’America centrale tra i laghi Nicaragua e Managua. Gonzales Fernando, raggiuntane la cima nel 1501, potè osservare, attraverso una spaccatura, il cratere che era uno smisurato abisso, entro il quale le lave salivano e discendevano senza posa. Per dodici miglia all’ingiro, durante la notte il paese era illuminato come durante la luna piena, tanta era l’incandescenza delle lave ribollenti, Celeberrimo è poi il Kilauea nell’isola Hawaii. Imaginatevi una caldaja che abbia 16 chilometri di circonferenza, il cui fondo è tutto un gran lago di lava, dove coperta da una crosta della lava stessa solidificata alla superficie, dove invece scoperta, come fosse composta di ferro fuso. Uno di questi stagni di lava affatto scoperti aveva un diametro di 260 metri, ed era tutto un bollore. Ora tanti altri vulcani, anzi tutti, il Vesuvio, nominatamente, se non presentano i fenomeni dello Stromboli, dell’Inferno di Masaya e del Kilauea in un modo ugualmente deciso, non lasciano perciò in sostanza di offrirli tutti e per lungo tempo. Quando io lo visitai la prima volta nel 1865 era appunto entrato, in seguito ad un parossismo abbastanza violento nella sua fase stromboliana. Fu questa una gran fortuna per me, poichè per la scienza, questa è la fase migliore. Le grandi eruzioni sono anche, non v’ha dubbio, grandi spettacoli: e, se non ne venisse alcun danno al prossimo, sospirerei davvero di potervi una volta assistere. Ma sono, lo ripeto, più che altro uno spettacolo, dacchè bisogna starsene lontani, e molto lontani a vederle. Durante la fase stromboliana, invece, supposto che essa tenga dietro ad una grande eruzione, tu cominci a studiare questa ne’ suoi effetti, percorrendo il campo prima invaso dai sotterranei fuochi, poi ti accosti al tremendo focolare, discendi se fa uopo nel cratere, ti appressi alle lave bollenti, e te ne stai a tutt’agio studiando quegli stessi fenomeni, i quali, verificandosi su scala più grande, costituiscono le grandi eruzioni».
«Saresti dunque anche disceso nel cratere?» esclamò Giannina. «Ma che spavento! Come hai fatto? Che cosa ci hai veduto?».
«Adagio! adagio! Sì, nel cratere discesi; proprio così. Ma c’è da discorrerne un bel pezzo, e non vorrei guastare l’argomento, ora che stiamo per levar la seduta. Vi dirò tutto, per filo e per segno un’altra volta, e spero di divertirvi. Dunque a rivederci».
Note
- ↑ I particolari dell’eruzione del 1631, conservatici da parecchi autori napoletani, furono recentemente raccolti dal sig. H. Le Hon, nella sua Histoire complete de la grande eruption du Vesuve de 1631. Bruxelles, 1865, alla quale specialmente mi attengo.
- ↑ Dicesi egira l’era dei Turchi, che cominciano a contare dal tempo in cui Maometto fuggì dalla Mecca. Il primo anno dell’egira corrisponde al 642 dell’era volgare.
- ↑ Nell’opera del Le Hon dicesi 1500. Non può essere che un errore di stampa.
- ↑ Si notò come i terremoti e in genere i grandi sconvolgimenti della natura producano sugli animali una impressione profonda di terrore. I diversi scrittori, che parlano dei terremoti, dei suoni notturni, dei fuochi e quasi con certezza delle eruzioni vulcaniche che desolarono la Francia centrale nel secolo V dell’era volgare, descrivono i timidi cervi e altre bestie selvatiche che vengono a rifugiarsi entro le mura delle città. Lo stesso durante la terribile eruzione del Conseguina (America centrale) nel 1835.
- ↑ Salmo 76.