Carlo Innocenzo Frugoni

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Questo testo fa parte della raccolta Poemetti italiani, vol. X


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IL VERO

POEMETTO

DELL’ABATE

CARLO INNOCENZO FRUGONI



Muse, figlie di Giove, ancor la fonte,
Che con l’onda volubile dei versi
Va ricca di splendor, fervida d’estro,
Tutta a me s’apre, e tutta ancora il petto,
Vostra mercè, celesti Dee, m’inonda;
E benchè già sul non curvato tergo
Mi segga il grave sessagesim’anno,
Ancor Poeta sono, ed ancor destra
Spirar mi sento in sen l’aura d’Apollo,
Che seco porta su robuste penne
La creatrice Fantasia, dovunque
Cagion de’ voli suoi degna la chiami,
E certo, se giammai con qualche nome,
Più ch’altri illustre, ed onorato in terra
Con glorioso ardir spiegai le piume
Cigno felice per l’Ausonio cielo;
Or’è, Pierie Dive, or’è, faconde
Trionfatrici del nemico obblio,

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Che un nome eccelso per l’eccelse vie
Del Toscano cantar ergo a gli Dei.
Arduo segno a’ miei carmi, alle sonanti
Saette d’or della Febea faretra
È l’egregio Lorenzo, il prode, a cui
Il nome diè la Morosina stirpe,
Pianta superba, che di lunghe etati
Nell’antica caligine nasconde,
Ferace ognor di generosi germi,
L’auguste frondi, e l’immortal radice.
A nome tal sulla pendice Ascrea,
Come improvviso, occulto Dio vi scota,
Tutti piegate le odorose cime,
Eterno onor d’eroi, vergini allori.
Voi pur tal nome ripetete, o Spechi
Sacri al dotto silenzio; e fatel, voi
Fonti di Pindo a i duo gran Vati amiche,
Tanto altero sonar, quanto ancor s’ode
Il saggio Ulisse, ed il pietoso Enea.
     Mirate: ecco di là, donde alla luce,
Lieta madre del giorno, e dei colori,
Schiude l’astro maggiore il roseo varco
Ecco si move, ecco a me ratto vola
Da bianchissimi augei per l’aria tratto
Di nitido cristallo ardente carro,
Che folgoreggia, e il conosciuto aspetto

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Mi presenta d’un Dio. L’intatte membra
Avvolge; ma non cela argenteo velo,
E fuor balena dal sicuro volto
Forza di rai, che tramontar non pave,
Fugge, dov’egli appar, d’insidie dolci
Il falso labbro instrutta, e i vizi usata
Alimentar di mal offerto incenso
La bilingue lusinga, e seco fugge
La nocente menzogna, a cui l’atroce
Lingua cosperge di cerberea spuma
Nemico di virtù l’empio livore.
Lo favoreggia il tempo, e se lo guata
Da lunga notte ingiuriosa oppresso,
Con l’instancabil ricercar dell’ali
L’ombre più folte si dirada, e rompe,
Che quanto ascoso più, tanto più bello
Con la possente annosa man lo tragge
Nell’aure aperte del negato giorno.
     Egli fermato il luminoso cocchio,
Divinamente avanti me lampeggia
Prima tre volte, e gli occhi miei sospende,
Io son, poi dice, io son, ben mi ravvisi,
De gli umani intelletti il primo obbietto,
Io la fonte del bene, in cui l’umano
Desio s’accheta, io l’immutabil Vero.
Non io di colassù, dove m’alberga
Nel beato sereno il tempio immenso

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De’ Divi, e degli eroi, facil discendo:
Ne le sembianze mie, che mal conosce,
Al vaneggiante vulgo aprir mi degno.
Venni a te, perchè udii, che sulle corde
Della lira Dircea, cui diede Euterpe
Il suono emulator dei chiari nomi,
Un nome tenti, in cui spirar ben deggio
Tutta la luce mia, talchè t’ammiri
Questa, e qualunque età, che sia col giro
De’ rinascenti secoli, e del sole,
L’obliquo corso a misurar più tarda.
Nè del Parnasso tuo, come mal sogna
L’ignara turba, a me le verdi selve
Ignote sono. Amo le Dee Sorelle,
Con lor m’affido: amo i divin Poeti.
E, quando il caldo meditar gli leva
Sopra le basse terre, e i frali sensi;
Io tutto allor sulle sublimi cetre
Sotto splendenti immagini mi mostro,
E con le belle somiglianze mie
Di meraviglia amo ferir le menti.
Grande impresa tu volgi. Io so, qual’alma
Dal più bell’astro uscita a lodar prendi,
Che dal gran Morosin fuor tralucendo,
Divina parte del mortal suo velo,
Celar non puote il suo natal celeste.
Egli sull’are mie, che man profana

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Toccar non osa, fin dagli anni primi
Giurommi fede. Egli nel fido labbro,
Egli nel fido petto, egli nell’opre
Me, non timido porta. Io nel suo core
Imperturbabil regno: e tu, che il dei
Ne’ tuoi carmi adombrar, mirami, e pensa,
Che tanto degne sorgeran le lodi,
Quanto me tutte somigliar potranno.
     Disse, e su gli occhi miei nel pieno lume
Di sua beltà rilampeggiar lo vidi;
E tutta allor commossa, i’ non so come,
Da se sentii l’impaziente lira
Tendersi a maggior suon, tutta ondeggiarmi
D’armonico tremore in man repente,
Quasi miglior divinità l’empiesse.
Ed io di me maggior già dalla forte
Vetusta gente, già dall’alte gesta,
Onde tanto per gli avi in pregio crebbe,
A lui volea, come per calle adorno
Di domestico onor, scender col canto.
Ma, no riprese il Nume. Uopo non ave,
Costui da tanta origine disceso,
Che della gloria sua. Perchè l’altrui
Mal ti volgi a cercar? Sai pur, che dono
Di virtute non è, ma di fortuna,
Un illustre natal. E a chi fu dato,
Pria che, venendo nell’eteree piagge,

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L’indole incerta, e il non ancor maturo
Genio disveli, meritare in sorte
Una splendida cuna? È fra i mortali
Voto d’errori il saggio. Il nome, e gli avi,
E quanto egli non feo, come straniero
Ornamento ricusa, e suo non chiama.
So, quant’anime egregie uscir dall’alto
Ceppo fecondo, qual di mite ulivo
Nei pubblici consigli, e nelle industri
Cure di pace ai prischi di ricinta:
Qual di fulgida mitra, e de’ Romani
Sacri onori velata, e quale in terso
Acciaro avvolta, e per le patrie cose
Non tarda a provocare i bei perigli.
Veggo quel forte, cui Nettuno, e Marte
Fer dell’invitta patria immortal padre,
Francesco il prode, che dal ben difeso,
E ben ceduto ancor Cretense regno
Torse le Adriatiche prore, e vincer parve
Per l’inegual finita Odrisia guerra
Con una pace, che uguagliar poteo
L’onor d’una vittoria. Oh quanto, oh quale
Fra l’onda Ionia, e fra l’Egea nol vide
Poi tutto tinto di nemico sangue
Quel debellato suol, che dal Re domo
Nella rapida Elea curul tenzone
In largo dono, ed in dotale scettro

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Pelope ottenne, che regnar vi fece
Le sue leggi, e il suo nome! Africa sola,
Sola Numanzia all’uno, e all’altro Scipio
Titolo eterno non daran sul Tebbro.
Dalla sua grande, e ben tentata impresa
Il suo Scipio vivente Adria pur noma,
E sculto, e vivo in ricordevol marmo
Lascia ai nipoti l’efficace esempio.
Anzi pur suo campion dall’alma fede
Di guerrier Pileo, e di gemmato brando
Delle scose dal ciel gemine chiavi
Arbitro in terra il Vatican l’onora.
So, come affise sull’Adriaco Trono
Fra l’uguaglianza delle patrie leggi,
La clamide in usbergo, e l’aureo corno
Mutando in elmo, ai polverosi campi
Tornò di guerra, condottier supremo.
Al suo partir, fausto tonando a manca
Il ciel sereno, risonar s’udiro
Di Vaticinj le festose arene.
Pronti dal fianco a fulminar su i mari
Lo seguian cento abeti. Altier su tutti
Mettea le antenne il glorioso Pino
Portator dell’eroe. Destro le vele
Tendeva il vento, e sotto il curvo rostro
Fea l’ampio flutto, obbediente al corso,
Diviso biancheggiar di larghe spume.

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Dai fondi algosi uscite, e intorno sparse
Lo fecondavan di Nereo le figlie,
Grondanti il verde crin di salse stille;
E lievi il precedevano i tritoni
Segnando il calle, e con la torta conca
Di trionfal concento empiendo l’aure.
     So, quanta a lui, che a celebrar t’accingi,
Luce dal degno genitor verrebbe,
Da’ magnanimi zii, dal gran germano,
Alla Cornara unito eccelsa donna,
Gemma delle matrone, ad amar nati
Tutti la Patria, e più splendenti insieme
Per opre illustri, che per auree stole,
Dalla concorde autorità de’ padri
Ad un sangue d’eroi date in retaggio.
Il veggo, il so; ma il nobil tuo soggetto,
Vo’, che de’ pregi suoi solo si vesta,
Di se contento assai: come profonda
Indica vena d’or, che per le cupe
Cieche latebre del materno monte
Il fulvo tronco, e i biondeggianti rami
Immensa propagò, se mai l’ingorda
Voglia d’aver per lo squarciato giogo
Vittoriosa a ritrovar la giunge,
Assai del suo tesor ricca si scopre.
     Su dunque sveglia l’animoso ingegno,
E l’inclito Lorenzo ai secol tardi,

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Come a me piace, sulle dotte carte
Ne’ miei colori immortalmente pingi.
Tacer dei de’ suoi dì la prima aurora,
Che in fasce d’oro lo vedea tranquillo
Ber l’aure prime, e i primi rai di vita.
Troppo imperfetto, ed infecondo è il primo
Cominciar de viventi. Allor da’ rozzi
Organi imbelli, allor da’ sensi inerti
Non secondata ancor dorme ragione,
Quasi un’ozio dell’alma. E qual non t’apre
Nelle vegnenti età l’eroe diletto
Fertil di gloria faticoso campo,
Come infinito mar, che di spalmata
Nave all’ardito veleggiar si mostra?
Non tacer, come sul fiorir degli anni
Spiegò l’indole bella, e come i lumi
Del pensar giusto, e dell’oprar diritto
Prese dall’arti formatrici, e seppe
Sorger, qual forge lieta pianta in lieto
Terren, traendo delle occulte fibre
Per le mudrici vie l’umore amico.
Fra la Patrizia gioventù togata
Qual gravitate, qual mirabil senno
Da’ primi di nol distinguea? Tal forse
Giovane apparve, e i non fallaci augurj
E le speranze meritò di Roma
Il forte Fabio, che cresceva all’armi,

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Crescea, pieno di mente, alle dimore
Riparatrici della patria afflitta.
Qual chi, l’esterior curando poco
D’una conca Eritrea, chiuso ricerca
Il raro parto nell’argenteo seno,
Tu pur ricerca in lui l’aureo costume,
Cerca il cor generoso. Ivi sedersi,
Come in vivente, inviolabil’ara,
Religion vedrai, che per man stringe
Della Patria l’amor. D’ambo egli tolse
Le rette fogge, e le più certe apprese
Arti di governar. Quanta ancor resta
Rimembranza di lui, quanto desio
Fra i popoli commessi? In lui non sorde
Al supplicar de’ rei fur l’ire ultrici,
Provvide nel punir. Godea pietate,
Quanto convien, temprarle, e fea sovente
Succeder delle pene al tristo orrore
Ne’ dolci aspetti lor grazia, e perdono.
Narra, qual copia di Nestorea lingua
Sciogliea nelle tacenti arcane fedi,
Giudice affiso l’immortal Senato.
Era a i tranquilli giorni, era a i turbati
Alle pubbliche cose il suo consiglio
Luce fedel, come in dubbiosa notte
All’errante nocchiero aerea torre,
Che da lunge splendendo il porto insegna.

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Vedilo poscia ad alti uffici eletto,
Sublime messaggier d’Adria partirsi;
Vedilo abbandonar la natal foce
Nobil fiume, che dee, mutando climi,
Crescer d’onda, e di nome, Iberia vede,
Vede il possente Regnator Ispano,
Sotto il cui scettro ossequioso il sole
Suddito nasce, e cade. Abile a i dolci
Studj di pace, abile all’armi ammira
La bellicosa Senna, e il Re, che i Numi
Testè serbaro per serbare al mondo
Quel che fargli potean, dono migliore;
L’invitto Re, nella cui man si stanno
Or l’iraconde folgori di guerra,
Che tardi strinfe, e che depor non puote
Placato alfin, che alle vittorie in grembo.
Piacque a i Re grandi, a cui piacer si tiene
Supremo in terra onor. Trovar potero
Nelle lor menti a i sommi Dei vicine
Grazia, e fede i fuoi detti. Avea compagna
Prudenza al fianco, antica Dea, che vela
Di palma a crescer lenta il crin canuto,
E a moderar l’uman viaggio esperta
In mille modi il buon cammin ritrova,
E in mille modi la difficil riva
Delle cose nel turbine agitato
La vittrice afferrar. Fra l’ardue cure

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I fortunati accessi, e i buon momenti
Col buon successo a trasvolar sì presti
Sagace conoscea. Ne’ suoi pensieri
Sedea l’augusta Patria, e il dover sacro
Del carattere eccelso; e, quanto soffre
Un ingegnoso vestigare onesto;
Ne’ chiusi arcani penetrar sapea,
Che taciturna, e inesorabil guarda
La pensierosa gelosia de’ regni.
     Là poi ti volgi, ove il Leon partendo
Con l’Aquila i suoi dritti, attento veglia
De’ suoi confin sulle ragion gelose.
Vedil colà tentar d’egregio zelo,
E di rara saggezza estreme prove,
E non tentarle in van. Quel chiaro Genio
Veder gli è dato, onor del secol nostro,
Onor di Giano, a cui l’ugual non sorge,
Quel Genio caro all’immortal dell’Istro
Magnanima Eroina, a cui la terra,
Come alla viva, e non più vista immago
D’ogni regal virtù, drizzar dovrebbe
Solenni are felici, e qual divina
Cosa scesa fra noi, chiamar co’ voti.
Qual per lui glorioso, e quale insieme
Difficil paragon! Tutto nel saggio
Celebrato Cristiani a fronte avea
Quel provvido saper, che dritto scerne,

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Che impavido consiglia, e solo basta
All’impensato variar de’ tempi
O l’alma pace sui fecondi solchi
S’incoroni di spiche, o de’ superbi
Sul mal accorto ardir tuoni Bellona.
Parlar dovea col ridonato a’ grandi
Fati dell’Austria novel Tullio, a cui
Tutte eloquenza le sue fonti aperse,
Perchè il pubblico ben, perchè la scritta
Per man di Temi in adamante eterno
Delle genti ragion parlar l’udisse,
Qual pien di fede, e pien di mente nova
Non altro udiro ancor popoli, e Regi.
Piacque a genio sì prode, e feo tra loro
Fede, e concordia su i confin prescritti,
E sulle antiche mete in mutui amplessi
Scendere amiche, e riunir le destre.
Vedilo alfin de’ bei sudori il frutto.
Cogliere in sen di lei, che sul mar stende
Il forte braccio del suo giusto impero,
Ed ormai vince, e col suo nome oscura
Le prische Emule sue, Roma, ed Atene.
Per la grata sua man verso i suoi figli
Larga di guiderdone, eccol’ nell’ostro
Patrizio folgorar. Miragli incontro
Venir la gioia universale; e palma
Battendo a palma il pubblico favore

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Accompagnarlo per le ornate vie
Di lungo popolar plauso frementi.
E ver lui mira, più che mai serena
La regal fronte, e i maestosi sguardi
Volger la Patria, gloriosa madre
De’ Semidei di libertà custodi.
Udisti? Ecco le lodi, in cui rifulge
La Deità, che da me parte. Io queste
Del tuo gran Morosin proprie sacrai;
E tu queste per me portar dei vive
Oltre l’invida morte, e il tempo avaro.
     Tacque, e repente in luminosa nube
Involgendosi tutto, alto levarsi
Vidilo in aria, e di purpureo foco
Lunghe strisce lasciar, dovunque seco
Le rote rapidissime passando
Sollecito lo trasser della gloria
Un nuovo nome a collocar nel tempio.