Il Re dell'Aria/Parte prima/13. Una pesca straordinaria
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CAPITOLO XIII.
Una pesca straordinaria.
Cominciando i viveri a scarseggiare, poichè lo spazio ristretto del fuso non aveva permesso di aumentare troppo le provviste, anche per non rendere la macchina volante troppo greve, fu deciso di fare una breve fermata su quelle sterminate praterie galleggianti, le quali sono, ordinariamente, ricchissime di pesci.
Avendo Ranzoff dell’aria liquida sempre a sua disposizione ed in grande quantità, sapeva gelarli e conservarli per dei mesi, senza che corressero alcun pericolo di corrompersi, potendo ottenere delle temperature estremamente basse.
Dopo un furioso doldrum, ossia un acquazzone violentissimo che scoppia di sovente nelle regioni equatoriali dell’Atlantico e che ha una durata non superiore a quindici o venti minuti, lo Sparviero discese dolcemente in mezzo ai sargassi, in un luogo ove si presentavano così folti da poterlo sostenere comodamente.
Per maggior precauzione il capitano fece affondare un’àncora, non già colla speranza che toccasse il fondo, essendo i sargassi immensamente lunghi, quasi quanto i kelps che crescono intorno al continente australe polare.
I sei marinai dello Sparviero, dopo di essersi muniti di reti, scesero sulla prateria galleggiante, seguìti da Boris, da Wassili, da Rokoff e da Fedoro, armati di fucili, desiderosi di sparare alcuni colpi contro gli uccelli marini che si mostravano numerosi in quel luogo.
Ranzoff e Liwitz erano invece rimasti a bordo per esaminare le ali e le eliche, le quali potevano aver bisogno, dopo un così lungo viaggio ed uno sforzo così poderoso, di qualche riparazione.
I pesci non dovevano mancare in mezzo ai piccoli canali ed ai bacini formati dalle alghe, le quali si trovavano disperse in gruppi immensi, capricciosamente suddivisi.
— Lasciamo che i pescatori se la sbrighino da loro, — disse il capitano dei cosacchi, dopo di essersi ben convinto che le alghe non cedevano sotto il suo peso, — e occupiamoci dei volatili.
Noi faremo dei terribili massacri e approvvigioneremo lo Sparviero per due mesi almeno. —
Essendo i sargassi ricchissimi di pesci e di crostacei, vere nubi di volatili piombavano di quando in quando su quelle immense praterie, cacciando vigorosamente.
Vi erano piccioni del Capo, bellissimi uccelli marini dal volo leggero e dalle penne variopinte bianche e grigie, disposte quasi a scacchi; dei prion turtur, non più grossi di una tortora, colle penne grigio-turchine sopra e bianche di sotto; delle sule grossissime, volatili stupidissimi che si lasciano prendere colle mani, delle fregate colle ali e le code somiglianti a quelle dei falchi e degli albatros, i quali scendevano in gran numero in compagnia dei pesanti rompitori d’ossa, le procellarie giganti.
I cacciatori, che si erano armati di buonissimi fucili carichi a pallettoni, non tardarono ad aprire il fuoco, facendo cadere numerosi volatili, mentre i marinai s’impadronivano di moltissimi diodon e di merluzzi, nonchè di una rispettabile quantità di quei grossi e ferocissimi granchi, che sono i più formidabili nemici dei piccoli cefalopodi che si celano a milioni fra le bacciferum.
Avevano già sparato una cinquantina di fucilate, facendo cadere fregate, albatros, rompitori d’ossa e rondoni di mare, quando delle grida altissime mandate dai sei marinai, interruppero bruscamente la loro partita di caccia.
— Che siano affondati fra le alghe? — disse il capitano dei cosacchi. — Per le steppe del Don!... Sarebbe come se fossero caduti fra le sabbie mobili!...
— Ma no, — disse il comandante, il quale si era rapidamente voltato. — Sono tutti là, colle reti in mano, sull’orlo del canale.
— Eppure qualche cosa di grave deve essere accaduto, — disse Boris.
I marinai infatti continuavano a gridare ed erano vere grida di spavento quelle che mandavano.
— Accorriamo! — gridò Rokoff.
Anche il capitano dello Sparviero e Liwitz avevano lasciata la macchina volante e balzavano attraverso i sargassi, armati di grosse carabine.
Boris, Wassili ed i loro due compagni stavano per raggiungere i margini del canale dove i marinai stavano ritirando precipitosamente le reti, quando le masse erbose si sollevarono bruscamente gettandoli colle gambe in aria.
— Per le steppe del Don!... — urlò Rokoff. — Che il continente scomparso rimonti alla superficie?...
Anche i marinai erano stati rovesciati, ma subito si erano rialzati, scappando verso lo Sparviero colle loro reti che avevano avuto il tempo di ritirare e che apparivano ben gonfie.
— Che cosa avviene dunque? — chiese il capitano giungendo. — Cedono le alghe?
— Tutt’altro, — disse Boris. — Si sollevano invece.
— Che qualche grosso pesce si sia cacciato sotto questa prateria e che non sia più capace di liberarsi?
— Lo suppongo, signor Ranzoff.
— Qualche balena forse? — chiese Rokoff. — Non mi rincrescerebbe darle la caccia.
— È impossibile che un mostro così enorme si sia inoltrato sotto le alghe, — rispose il capitano.
— Eppure deve essere una grossa bestiaccia se ha tanta forza da sollevare queste masse erbose, — ribattè il cosacco.
In quel momento la prateria galleggiante tornò a sollevarsi quasi sotto i piedi dei cacciatori, ondulando burrascosamente.
Nel medesimo istante si udirono i marinai urlare:
— Lo Sparviero si muove!...
— A bordo!... — comandò Ranzoff.
Era il meglio da farsi, poichè la prateria poteva aprirsi ed ingoiarli tutti, senza lasciare loro alcuna speranza di poter tornare a galla.
Si slanciarono a corsa sfrenata attraverso le alghe che erano strettamente allacciate e si rifugiarono sullo Sparviero. Non si erano però dimenticati di portare con loro gli uccelli marini che avevano abbattuti. Il fuso, il quale posava sui sargassi, subiva infatti delle fortissime scosse, piegandosi specialmente verso prora.
Era la catena dell’âncora che subiva una forte trazione.
— Ora capisco, — disse Ranzoff. — Qualche grosso pesce è stato preso dal nostro gigantesco amo e si sforza a liberarsi dall’incomodo ferro.
— Tagliate la catena, — disse Rokoff.
— Ci tengo troppo alla mia âncora, — rispose il capitano. — E poi sono curioso di sapere con che specie di pesce abbiamo da fare.
— Allora noi ci terremo pronti a fucilarlo, — disse Boris.
— Liwitz, alla macchina, — comandò Ranzoff. — Tentiamo di alzarci.
— Ha una grande potenza ascensionale?
— Sì, signor Boris. Io spero di trascinare fuori dalle alghe quel mangiatore d’âncore.
— A me una grossa carabina, — gridò il cosacco. — Voglio fracassare qualche cosa di enorme. —
Mentre Liwitz si preparava a mettere in moto le gigantesche ali e tutte le eliche, onde dare allo Sparviero il maggior slancio possibile, il misterioso mostro marino continuava a dibattersi furiosamente.
Le alghe, spinte in alto da una forza straordinaria, s’aprivano, formando dei piccoli canaletti e si torcevano in tutti i sensi come se venissero tenagliate da una moltitudine di robuste braccia.
Legioni di bruttissimi ragni marini e di piccoli cefalopodi fuggivano attraverso le bucciferum, gareggiando in celerità, in preda ad un vivissimo terrore. Rokoff, Fedoro, Boris e Wassili si erano collocati a prora, armati tutti non già di fucili da caccia, bensì di pesanti carabine per le grosse cacce.
— Siamo pronti? — chiese ad un tratto Ranzoff.
— Sì, capitano, — rispose Liwitz.
— Dà uno strappo. Vediamo se la catena resiste, ma prima lasciamone scorrere otto o dieci metri. —
I marinai furono lesti a obbedire ed i dieci metri scapparono attraverso la piccola cubia di tribordo, affondando fra le alghe.
Subito le due immense ali e tutte le eliche si misero in moto e lo Sparviero cominciò ad inalzarsi obliquamente, ma giunto all’altezza di dodici metri trovò una vivissima resistenza.
La catena si era tutta tesa e l’âncora teneva fermo, affondata sotto il folto strato d’alghe.
— Ah! La vedremo signor mostro marino, — disse Ranzoff. — O ti mostri o ti strapperemo le mascelle. Liwitz, sforza la macchina.
— Sì, capitano, — rispose il macchinista, — purchè la catena non si spezzi.
— È d’acciaio solidissimo. —
Le ali e le eliche battevano e turbinavano furiosamente, tentando di trascinare in alto il fuso e l’ostacolo che lo tratteneva.
Le alghe si alzavano qua e là come per dare il passo a qualche corpo gigantesco e si strappavano sotto la poderosa tensione della catena.
Il mostro però, a quanto pareva, opponeva una formidabile resistenza, onde non lasciarsi riportare a galla.
Ad un tratto però i sargassi cedettero su una larghezza di parecchi metri quadrati e una enorme massa biancastra, fornita di otto giganteschi tentacoli, comparve fra quello squarcio.
— Un kraken! — aveva esclamato l’ex-comandante della Pobieda.
— Un pesce-diavolo, — aveva gridato invece il capitano dello Sparviero.
Si trattava infatti di uno di quei giganteschi cefalopodi, conosciuti sotto il nome di kraken o di pesci-diavolo, che di quando in quando, a lunghi intervalli, lasciano i baratri profondissimi dell’oceano per mostrarsi alla superficie dei mari.
Era uno dei più colossali, poiché doveva pesare almeno tre tonnellate ed aveva dei tentacoli lunghi fra i sei ed i sette metri.
Il mostro era stato arpionato da una delle patte dell’âncorotto, sotto l’occhio sinistro e così profondamente da non potersene più liberare.
Sentendosi trarre fuori dalle alghe, l’orribile calamaro si dibatteva furiosamente, diventando di quando in quando rossastro.
I suoi tentacoli si torcevano e si allungavano sibilando e sferzando poderosamente la catena e le alghe.
Rokoff fu il primo a tirargli un colpo di carabina, credendo di fulminarlo sul posto, ma la palla attraversò quella massa semi-gelatinosa senza arrecare gran danno al mostruoso calamaro.
— Sprecherete inutilmente delle munizioni, signor Rokoff, — disse Boris. — I proiettili non fanno presa su quelle brutte bestie.
— Sembra anche a me, — disse Wassili, il quale si era pure provato a far fuoco con non migliore fortuna.
— Vedremo però se le sue carni non si squarcieranno sotto l’esplosione di una delle nostre bombette, — disse Ranzoff.
Ursoff aveva portato in coperta un paio di quelle piccole e pur così terribili granate e aveva accesa la miccia ad una.
Ranzoff la prese e la gettò proprio sul corpaccio del calamaro.
— Tiratevi indietro! — gridò subito.
Un momento dopo una violenta detonazione echeggiava e un turbine di liane avvolse lo Sparviero.
Fortunatamente la catena fu spezzata e la macchina volante, che era sotto una formidabile pressione, fece un balzo in aria e così improvviso da atterrare tutto l’equipaggio.
— Per le steppe del Don!.. — gridò Rokoff. — A momenti saltavamo anche noi insieme al polipo!... —
Liwitz si era affrettato a frenare la macchina, mentre il timoniere con un giro di ruota riconduceva lo Sparviero verso il banco dei sargassi.
La bombetta aveva squarciato alla lettera il pesce-diavolo, mutilandolo orrendamente. Tutti i tentacoli erano stati strappati e si trovavano dispersi attraverso le alghe dove si torcevano ancora come immani serpenti.
— Abbassa, Liwitz, — disse Ranzoff. — Dobbiamo ritirare la nostra ancora.
— E terminare la nostra partita di caccia, — disse Rokoff.
Lo Sparviero calò dolcemente sopra la prateria galleggiante, adagiandosi a breve distanza dal pesce-diavolo.
Tutti erano balzati sulle alghe per osservare più da vicino l’orribile mostro marino, la cui massa galleggiava in mezzo ad un piccolo bacino d’acqua nerastra e fortemente impregnata di muschio.
— Per le steppe del Don!... Come è brutto!... — esclamò il cosacco. — Non credevo che nei mari esistessero simili mostri!...
— Veramente non sono molto abbondanti, — disse Boris. — Forse in fondo agli abissi se ne troverebbero molti, però non salgono a galla che raramente, spinti da cause ignote.
— Sono pericolosi però, è vero, signor Boris? — chiese Ranzoff.
— Talvolta sì, perché posseggono nei tentacoli una forza eccezionale, non tale però, come credevano gli antichi naviganti, da poter trarre a fondo una nave.
Qualche volta tuttavia hanno osato assalire i battelli da pesca. Nell’autunno del 1880 per esempio, uno di questi mostri attaccò un battello peschereccio che era montato da un certo Riccardo Hunkin e lo abbracciò così strettamente da fermarlo di colpo, quantunque il vento fosse abbastanza forte.
Per sbarazzarlo dovette armarsi d’un arpione ed impegnare col pesce-diavolo una vera battaglia.
Di quando in quando si mostrano anche abbastanza numerosi.
Pochi anni or sono, sulle coste dell’Algeria, ne comparvero parecchi. Si tenevano accuratamente nascosti fra le sabbie e quando, alla sera, i soldati si recavano a bagnarsi, li gherminavano e li tiravano sotto acqua per divorarli tranquillamente.
— Sono terribili, — disse Wassili.
— Sì, quando sono molto grossi. Mi ricordo che un giorno, sulle coste occidentali dell’Africa, un calamaro attaccò una barca montata da tre pescatori.
Due, presi dai tentacoli, furono soffocati ed il terzo non fu salvato che mercè il pronto intervento d’una scialuppa montata da parecchi marinai. Il disgraziato però aveva riportate tali ferite, prodotte dalle ventose, da non sopravvivere che poche ore.
Quel mostro aveva dei tentacoli che misuravano nientemeno che sette metri e mezzo di lunghezza.
— Era forse il fratello di questo, — disse Rokoff, ridendo.
— O qualche suo prossimo parente, — aggiunse Fedoro.
— È mangiabile almeno la carne di questi signori pesci-diavolo?
— Puzza troppo di muschio, signor Rokoff, — rispose Boris.
— Allora è meglio che riprendiamo la caccia.
— E che i miei marinai riprendano la pesca, — aggiunse Ranzoff. — Noi intanto sbarazzeremo l’âncora che non voglio assolutamente perdere, poichè ne ho due sole.
I cacciatori ripresero i loro fucili e si dispersero per la prateria galleggiante, guardando attentamente dove ponevano i piedi per non esporsi al pericolo di sprofondare, non essendo il sargasso dappertutto tanto fitto da reggere una persona.
Il massacro ricominciò, essendo gli uccelli marini sempre numerosissimi, mentre i marinai costeggiavano i canali dando una caccia spietata ai diodon, alle dorate ed ai merluzzi.
Alla sera il ponte dello Sparviero era così carico di pesci e di volatili, che gli uomini non potevano quasi muoversi.
— Come consumeremo noi tutta questa roba? — chiese Rokoff.
— Non ci pensate, capitano, — rispose Ranzoff. — Colla mia aria liquida gelerò pesci e uccelli a tal punto che fra tre o quattro mesi potrete mangiare l’ultimo albatros che vi ho veduto ammazzare pochi minuti fa. Domani tutti questi viveri saranno ben stivati a prora, ed a poco a poco ce li mangeremo e sempre freschissimi. —
Quella notte lo Sparviero si riposò sui sargassi, avendo i marinai bisogno d’un buon riposo, ma ai primi albori riprendeva le sue meravigliose volate, lasciandosi dietro una nuvolaglia di penne, poichè tutti si erano messi a spennare albatros, fregate, rompitori d’ossa, e diomedee fuliginose, prima di passarli nelle celle freddissime dello scompartimento di prora.
L’oceano era sempre deserto, non essendo le zone equatoriali dell’Atlantico molto frequentate, sia per la presenza delle masse di sargassi, sia per le grandi calme che vi regnano e che sono sfuggite dai velieri.
Se mancavano le navi, abbondavano invece sempre straordinariamente i pesci.
Vere frotte di delfini crocefissi, così chiamati perchè hanno due striscie nere sul dorso che s’incrociano, giuocherellavano a fior d’acqua, mandando dei rauchi sospiri che somigliavano a dei nitriti; bande di feroci pesci-cani del genere dei charcharias, lunghi dai quattro ai cinque metri, sfilavano rapidamente, seguendo con accanimento i banchi di meduse e di cefalopodi.
Di quando in quando delle grandi masse sorgevano bruscamente dalle profondità dell’oceano, lanciando in aria una doppia colonna di vapore.
Erano delle balene a due pinne, dal corpo verdastro, lunghe quindici o diciotto metri, col muso larghissimo e ottuso, colla mascella inferiore assai più sporgente della superiore.
Guardavano un momento la macchina volante, coi loro occhietti piccoli ed intelligenti, poi, spaventate dall’ombra proiettata sulle acque dallo Sparviero, si affrettavano a rituffarsi, sollevando delle grosse ondate spumeggianti.
— È un vero peccato che le navi da pesca non si spingano fin qui, — disse Rokoff all’ex-comandante della Pobieda, il quale seguiva con vivo interesse le mosse di tutti quegli abitatori del mare. — Come mai si trovano qui tanti pesci?
— Sono le correnti che li radunano, — rispose Boris. — Vedete, qui, in mezzo all’Atlantico, si agitano e si muovono dei veri fiumi incanalati perfettamente fra le acque dell’oceano.
In nessuna altra regione del globo s’incontrano tante correnti, e poi qui appunto si forma quel famoso Gulf-Stream di cui già avrete udito parlare.
— Sì, comandante, ma non riesco a spiegarmi come mai si possano formare dei fiumi scorrenti in mezzo all’acqua di mare che è ferma, poichè scorrono, è vero?
— E con notevole velocità, signor Rokoff, — rispose Boris. — La ragione però è semplicissima e facilissima anche a comprendersi, poichè non deriva altro che dalla rotazione della terra combinata con quella del calore solare.
È la rapida evaporazione che qui, più che altrove, avviene, quella che determina la formazione delle correnti, perchè è la causa principale dello squilibrio delle acque dell’oceano.
Sottraendo il sole equatoriale una quantità straordinaria d’acqua, diminuisce la gravità delle stesse acque superficiali e determina il richiamo di quelle che si trovano intorno alle regioni fredde, costringendole ad irrompere dal nord al sud.
Si hanno quindi tre correnti costanti: una che va dall’est all’ovest e due che partono ognuna dai poli verso l’Equatore. Queste due ultime però non seguono una strada normale, inquantochè di passo in passo che si allontanano dalle regioni fredde, si ripiegano sensibilmente verso oriente e verso occidente in causa della rotazione della terra che ai poli è nulla, mentre all’Equatore aumenta fino a 1700 chilometri all’ora.
— Vi sono maggiori correnti nell’emisfero australe o nel settentrionale? — chiese Wassili, il quale ascoltava pure, con vivo interesse, il fratello.
— Nelle regioni australi, — rispose Boris, — pel motivo che le acque polari dell’Antartico affluiscono più facilmente verso l’Equatore, non incontrando alcun ostacolo alla loro corsa.
Quelle invece del Polo Artico sono obbligate a frazionarsi, ciò che fa sì che ritardino assai a raggiungere le regioni calde, dovendo passare fra l’Europa e l’America e fra questo continente e quello asiatico.
— Sono forse queste correnti che formano questo mare dei sargassi? — chiese Rokoff.
— Precisamente, — rispose Boris. — La grande corrente del capo di Buona Speranza che sale verso l’Equatore radendo le coste occidentali dell’Africa, descrive come un immenso giro che va a toccare il golfo del Messico e che poi si ripiega verso l’Europa, radunando nel suo centro tutte le alghe, i tronchi d’albero e le erbe che i fiumi del continente nero e del nuovo trascinano in mare.
L’acqua racchiusa entro questa grande corrente è quasi stagnante, fenomeno che si verifica anche nel grande Oceano Pacifico. To!... Una terra laggiù!... Che sia Sant’Elena?
— No, comandante, — disse Ranzoff, il quale, avendolo udito, era prontamente accorso. — È Trinidad.
Lo Sparviero si è allontanato considerevolmente dalla sua rotta ma per mio volere, onde approfittare dei venti alisei.
— Toccheremo? — chiese Fedoro.
— Non mi fido, signore. Una volta era deserta, ma ora si dice che vi si sia stabilita una colonia di pescatori.
Là, guardate: vedo un Clipper che veleggia lungo le coste. Torniamo verso l’ovest. —
L’isola appariva a una ventina di miglia verso ponente. Come tutte le terre che sorgono dagli abissi profondissimi dell’Atlantico equatoriale è di formazione vulcanica, con rupi e monti affatto sterili.
La sua vetta più alta si eleva fino a 614 metri, ma ben più singolare è il così detto Ninepin, massa cilindrica di roccia che si innalza in forma di torre fino a 258 metri.
Solamente verso l’estremità orientale, dove sorge il Sugar Loaf, una collina conica, vi sono delle vallette verdeggianti.
L’isola è lunga appena tre miglia e larga una e mezza, e presenta pochissimi approdi e anche quelli pericolosissimi in causa della violenza dei frangenti.
Nel 1700 gl’inglesi ne presero possesso, ma soltanto nel 1781 fecero il primo tentativo per fondarvi una fattoria, tentativo che non diede alcun frutto, essendo l’acqua scarsa sempre e la terra infeconda.
I brasiliani, dal canto loro, vollero pure tentarne la colonizzazione e non furono più fortunati, poichè dopo pochi mesi tutti gli animali importati erano morti, perfino i gatti.
Ora non è frequentata che di quando in quando da gruppetti di cacciatori e di pescatori, i quali non si fermano colà che qualche mese.
Per la maggior parte dell’anno essa non è frequentata che da stormi infiniti di uccelli marini, specialmente da starne bianche dette gygis albas con occhi grandi e occhiali neri, il becco pure nero e le zampe azzurre.
Un Clipper, uno di quei rapidissimi velieri che con buon vento largo possono filare comodamente i loro undici nodi, veleggiava lungo le coste meridionali dell’isola, segno evidente che dei pescatori vi avevano già preso dimora.
Ranzoff, che non desiderava affatto di mostrare la sua macchina volante, stava per dar ordine al timoniere di mettere la prora verso il sud-est, per muovere direttamente verso Tristan de Cunha, quando si udì Ursoff a gridare:
— Fumo all’orizzonte!...
— Del fumo!... — esclamarono ad una voce Ranzoff e Boris. — Dove?
— Verso l’isola, — rispose il timoniere. — Giurerei che si cerca di darci la caccia. —
Il capitano e l’ex-comandante della Pobieda avevano preso due cannocchiali che stavano presso la murata, entro grosse borse di pelle, e li avevano rapidamente puntati verso la direzione indicata.
A qualche miglio dal Clipper un punto nero scivolava sull’oceano, lanciando in aria una colonna di fumo denso e pareva che si allontanasse rapidamente dall’isola.
Wassili, Fedoro e Rokoff erano subito accorsi, circondando i due comandanti i quali continuavano ad osservare attentamente verso Trinidad.
— Che cosa vi pare, signor Boris? — chiese finalmente il capitano dello Sparviero.
— A me sembra una torpediniera d’alto mare, — rispose Boris.
— Come può trovarsi qui uno di quei terribili scorridori del mare? Se fossimo nelle acque di Sant’Elena non mi stupirei, poichè là vi sono gl’inglesi, ma presso quell’isola deserta!...
— Eppure sono certo di non ingannarmi e aggiungo anzi che ci ha scoperti e che sforza le sue macchine per raggiungerci.
— Perderà inutilmente il suo tempo, — rispose Ranzoff. — Ci vuole ben altro per gareggiare col mio Sparviero! —
In quel momento una detonazione scosse gli strati d’aria.
— Un colpo in bianco, — disse il comandante. — Ci si invita a fermarci.
— Liwitz! — gridò il capitano. — Lancia alla massima velocità.
— Sì, signore, — rispose il macchinista.
Lo Sparviero, che aveva già quasi compiuta la sua evoluzione, fece un balzo improvviso e s’allontanò velocemente verso il sud-est, scomparendo in mezzo ad una nube abbastanza fitta, la quale annunciava uno dei soliti doldrums, ossia acquazzoni equatoriali.