Il Re Giovanni/Atto quinto
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ATTO QUINTO
SCENA I.
La stessa. — Una stanza nel palazzo.
Entrano il re Giovanni, Pandolfo colla corona, e seguito.
Gio. Così ho riposta fra le vostre mani la corona che cinse la mia fronte colla gloria dei re.
Pand. Riprendetela da me (ridandogliela) e riguardatevi come debitore al pontefice della vostra grandezza e della vostra autorità.
Gio. Adempite ora la vostra sacra parola. Ite al campo francese e impiegate tutto il potere che vi viene da Roma per arrestar la marcia di coloro, anzichè l’incendio ne strugga. Le mie provincie malcontente si ribellano, il mio popolo si fa ritroso al giogo dell’obbedienza, e corre a giurare amore e fede a re sconosciuto. Voi solo potete purgare il regno da questa lebbra contagiosa che si asconde nel suo seno. Non indugiate; il male è al colmo, ed esige un pronto rimedio per non divenire incurabile.
Pand. Fu il mio soffio che eccitò questa tempesta per punire la vostra indegna disobbedienza al sovrano pontefice; ma poichè il vostro cuore convertito ha ripreso sentimenti più equi e più dolci, questo medesimo soffio la calmerà e ricondurrà giorni sereni nei vostri Stati, turbati dalla guerra. Rammentate sempre il sacramento di fedeltà che in questo solenne dì dell’Ascensione prestaste al papa: io corro al campo francese per far deporre le armi a tutti. (esce)
Gio. È oggi il dì dell’Ascensione? Il profeta non aveva egli annunziato che nel meriggio di questo dì mi sarei spogliato della corona? Ciò infatti avvenne, ma aveva creduto che a tal cosa sarei stato costretto, mio malgrado. Sia lode al Cielo che il mio atto fu volontario. (entra il Bastardo)
Fil. Tranne il forte di Douvres, tutta la provincia di Kent si è sottomessa; Londra ha ricevuto il Delfino e il suo esercito come amici. La vostra nobiltà non vuol più obbedirvi; essa è ita ad offerire i suoi servigi al vostro avversario, e il piccolo numero di uomini affezionati che vi resta versa nel dolore e ondeggia nell’irresoluzione.
Gio. I lôrdi non vollero tornare da me allorchè seppero che Arturo era vivo?
Fil. Vivo non era, ma gettato sui ciottoli della strada, cadavere sanguinoso, in cui il fanale dell’esistenza era stato spento da una mano infernale.
Gio. Lo scellerato Uberto mi aveva detto che era pieno di vita.
Fil. Così, sulla mia anima, credeva e di buona coscienza, per quanto ne posso sapere. — Ma perchè lasciarvi abbattere? Perchè quegli sguardi sì mesti? Agite, come avete sempre pensato, con grandezza e nobiltà. Il mondo non vegga il timore e lo scoraggimento dipinto negli occhi di un re: afforzate la vostr’anima a norma delle circostanze; allorchè tutto è in fuoco, siate voi stesso tutto di fuoco; minacciate chi vi minaccia; disprezzate coloro che vorrebbero spaventarvi; il popolo, che modella la sua condotta su quella de’ suoi regnanti, diverrà grande col vostro esempio, e mostrerà la risolutezza dei cuori intrepidi. Partite, abbagliate come il Dio della guerra, allorchè si appresta alle battaglie; armatevi di audacia, e la vostra fronte mostri sicurezza e fede. Forse che i vostri nemici verrebbero a cercare il leone nel suo antro? Forse che vorrebbero spaventarlo e farlo gemere? Oh, non si dica questo mai! Partite, volate, cercate i pericoli lungi dalle vostre porte. Ite a misurarvi col nemico, prima ch’ei sia venuto vicino al trono.
Gio. Il legato del pontefice si dipartì ora; per gran ventura mi sono riconciliato con lui, ed egli mi ha promesso di congedar l’esercito che comanda il Delfino.
Fil. Oh lega ingloriosa! Noi in seno alla nostra patria, investiti nei nostri lari da un nemico inerme, noi ci abbasseremo a mandargli parole di pace, a venirne con lui a tregua, a vili compromessi? Un fanciullo, un novizio di corte, nudrito nella mollezza e nella follia, giungerà a sprezzarci in casa nostra, a satollare la sua nascente ambizione nei nostri campi bellicosi, a spiegare con aria insultatrice le sue insegne trionfanti fra noi, senza trovare alcun ostacolo? No: corriamo alle armi, mio principe. Forse il cardinale non potrà pattuire la pace, ma se anche l’ottiene, dicasi almeno che il nemico ci vidde risoluti a difenderci.
Gio. Ebbene, provvedi tu a tutto.
Fil. Coraggio dunque e partiamo. Io sono sicuro che potremo far fronte a nemici anche più terribili. (escono)
SCENA II.
Una pianura vicino ai sepolcri di Sant’Edmondo.
Entrano in armi Luigi, Salisbury, Meluno, Pembroke, Bigot e soldati.
Luig. Signor di Meluno, fate copiare questo scritto, e conservatelo con cura per ricordare i nostri obblighi; l’originale di esso venga dato a questi lôrdi, onde leggendo i nostri voleri sappiamo per qual fine giurammo, e possiamo osservare la nostra parola con fedeltà inviolabile.
Sal. Ad essa non si mancherà mai per parte nostra, nobile Delfino; ma nel giurare di servirvi con zelo libero e incorrotto, credetelo, principe, mi dolgo che i mali dello Stato chieggano per rimedio una rivolta disonorante, e che sia necessario di aprire nel suo seno mille piaghe, onde guarirvi un’ulcera inveterata. Oh, con qual dolore io snudo questa spada per far molte vedove nel mio paese, ove l’onorato dovere di difenderne la libertà invoca ad alte grida il nome di Salisbury! Ma tale è la fatalità di questi tempi dolorosi, che per sanare la nostra patria e rendere ai nostri diritti tutto il loro vigore, siamo costretti di mostrare il braccio feroce dell’ingiustizia e dell’oppressione. Quanto è tristo per noi, amici che partecipar veggo al mio dolore, lo esser nati per assistere a questo deplorabile dì, in cui mischiati fra le schiere di esercito nemico dovremo calpestare il seno materno della nostra terra! Ah! mi è forza il ritirarmi per piangere sulla vergognosa necessità, che a ciò ne porta; per deplorare la sciagura che ci condanna ad unirci con forestieri, sotto insegne ignote, per combattere il nostro paese! Qui dunque?... Oh, mia patria! perchè non puoi tu essere trapiantata lungi da questo clima? Perchè le braccia di Nettuno, che ti stringono, non possono recarti in contrade sconosciute, in spiaggie infedeli? Allora questi due eserciti cristiani potrebbero obbliare la loro mutua animosità e unirsi insieme, prima di sparger sangue per guerra sì sciagurata.
Luig. Il tuo discorso rivela un’anima generosa. Il tuo seno è agitato da passioni eccelse, il di cui urto violento commuove e strazia la tua anima. Oh a qual nobile combattimento è in preda il tuo cuore, fra la necessità di una punizione, e un virtuoso rispetto per la patria! Lasciami tergere lagrime sì belle e sì onorande. Il mio cuore si è qualche volta intenerito alla vista del pianto di una donna, di cui la cagione è per lo più volgare; ma i pianti maschi e generosi ch’io ti veggo spargere, e che mostrano a qual tempesta la tua bell’anima sia in preda, rattristano i miei occhi e mi profondano in meraviglia maggiore, che far nol potrebbe la vista dei cieli tutta fiammante di prodigi e di meteore. Solleva la tua nobile fronte, illustre Salisbury, e innalza la tua grand’anima sotto il peso che l’opprime. Lascia codesti pianti ai fanciulli inesperti che non viddero mai le grandi contese del mondo in furore; che non mai assisterono che ai banchetti della fortuna, consapevoli de’ suoi giuochi e del suo sorriso, ma ignari del sangue. Su, seguimi: la tua mano si tufferà nei tesori della prosperità tanto addentro, quanto quella di Luigi: nè avverrà meno per voi, o nobili che mi circondate, e che uniste le vostre forze alle mie. (entra Pandolfo con seguito) Ma già mi pare di udire la voce di un angelo che m’incuori. Vedetelo! Lentamente s’avanza il venerando legato; ei viene a guarentire la vittoria, promettitore il Cielo, e a consacrare colla sua santa parola la giustizia della nostra impresa e dei nostri gestì.
Pand. Salve, nobile principe di Francia; salve, e mi ascolta! — Il re Giovanni si è riconciliato con Roma, e la sua folle resistenza contro i voleri della S. Chiesa, contro il seggio supremo della cristianità, ha ceduto a sentimenti più miti; ripiegate perciò i vostri vessilli minacciosi, e addolcite i selvaggi furori della guerra, ora che il mostro, docile come lione pasciuto dalla mano dell’uomo, riposa tranquillamente ai piedi della pace e non offre più nulla di nocivo, tranne l’apparenza.
Luig. Cardinale, ve ne chieggo perdono: ma io non recederò: io nacqui troppo grande per permettere che mi si regga; per essere l’agente subalterno e passivo, lo strumento servile di una potenza della terra. Fu il vostro soffio che raccese i fuochi assopiti della guerra, fra questo regno e me che l’ho punito; foste voi che forniste nuovi alimenti all’incendio, che troppo divampato è ora per poter estinguersi col debole spiro che l’eccitò. Voi m’insegnaste a conoscere i miei diritti; m’istruiste delle mie legittime pretese; vinceste la resistenza del mio cuore e l’istigaste a questa opera; e venite ora a dirmi che Giovanni ha fatto pace con Roma? Che è a me tal pace? Io succedo ai diritti del giovine Arturo, reclamo questo paese come mio, in virtù del mio illustre imeneo; ed ora che è a metà conquistato, retrocederei perchè Giovanni si è acconciato col Santo Padre? Son io lo schiavo di Roma? Qual danaro Roma fornì essa? quali soldati, quali munizioni, per aver diritto d’interrompere i miei passi? Non fui io che assunsi tutto il fardello? Chi altri che me e i miei vassalli sostengono questa guerra e le sue fatiche? Non udii io questi isolani gridar: viva il re, allorchè circondavo la loro città? La sorte non si libra in favor mio? Non ho io le migliori carte per guadagnare, giuocando una corona? E dovrei abbandonare la vittoria che stringo in pugno? No, sulla mia anima, ciò non si dirà mai.
Pand. Voi non vedete di tale impresa che le belle apparenze.
Luig. Apparenze o verità, non ritornerò in Francia prima che la mia opera non sia stata coronata da tutta la gloria che mi fu promessa anzi che ragunato avessi questo bell’esercito e scelto questi prodi soldati, fiore di guerra, per illustrarmi con conquiste, e cercar fama in seno al pericolo o alla morte. (squillo di trombe) Qual tromba alacre è cotesta che ne chiama? (entra il Bastardo con seguito)
Fil. A norma degli usi stabiliti fra le nazioni, datemi udienza: fui inviato per parlarvi. — Venerabile cardinale, venni per parte del re a dimandarvi come abbiate trattate per lui le cose, e saprò dalla vostra risposta quello che m’impongono i miei poteri e quello che ho debito di dichiarare.
Pand. Il Delfino è troppo tenace nel suo proponimento, e non vuol tenere in cale le mie preghiere. Ei risponde ricisamente che non deporrà la armi.
Fil. Per tutto il sangue che può fare spargere il furor della vendetta, il giovine principe risponde come deve. — Ora udite parlare il nostro re; perocchè è la sua voce che vi si fa udire col mezzo mio. — Questo giovine è apparecchiato, ed è giusto che lo sia: ma Sua Maestà irride e con ragione a questo inefficace e vano preparativo di guerra, a questa mostra militare, a questo esercito imprudente, a questa audacia fanciullesca, a queste schiere di pargoli; ed è risoluta di cacciare con uno scudiscio questi pigmei in armi e questa truppa di fantolini ammutinati. Credete voi che il braccio che ebbe forza di punirvi vicino ai vostri lari, che vi fece fuggire atterriti dal disopra dei vostri tetti, e vi costrinse a nascondervi nelle vostre cisterne profonde, nel limo delle vostre stalle, nei ridotti degli animali più immondi, credete voi che un tal braccio vittorioso nel seno della vostra patria divenga più debole rientrando in quella che è di lui? No: sappiate che il nostro valente monarca ha prese le armi, e che come l’aquila ei si libra sopra il suo nido per tutelarlo dai danni che lo minacciano. — E voi (agli Inglesi) uomini degeneri, sconoscenti, ribelli, Neroni sanguinarii, che straziate il seno dell’Inghilterra vostra patria, arrossite di vergogna. Le vostre mogli e le vostre figlie dal volto delicato s’avanzano, quasi novelle Amazzoni, e marciano con piè leggiero al suono dei tamburi; esse hanno mutate le loro conocchie in guanti di guerra, i loro aghi in lande; e il loro tenero cuore si è riempito di un furore marziale e implacabile.
Luig. Cessa dalle tue iattanze, e ritornatene in pace dal tuo re: in parole insultatici ci sarai sempre superiore. Partiti; il nostro tempo è troppo prezioso per isperderlo in dispute con un uomo quale tu sei.
Fand. Permettetemi di parlare.
Fil. No, a me si aspetta.
Luig. Noi non ascolteremo nè l’uno, nè l’altro. I tamburi suonino la marcia, e la voce della guerra perori la nostre causa, e giustifichi la nostra invasione.
Fil. Sì, senza dubbio, i vostri tamburi ove battuti renderà qualche suono, e di voi pure si udiranno le grida, quando sarete battuti. Il suono d’un solo dei vostri tamburi risvegli un eco e ne udirete tosto un altro rispondergli con voce egualmente forte; un secondo allora seguirà se qualcuno lo provoca, e farà rintronare l’atmosfera con rumore così formidabile quale lo è quello del tuono. Due passi lungi di qui sta il re Giovanni; ei non anela che alla guerra, nè si fidò del legato che striscia qui innanzi a voi; essendosi piuttosto per diporto che per bisogno impiegato un sì timido agente. Sulla di lui fronte guerriera siede la morte spaventosa, che celebrerà in questo dì un banchetto crudele, abbeverandosi nel sangue di mille Francesi sgozzati.
Luig. Battete, tamburi; andiamo in traccia dei pericoli di cui ci minaccia.
Fil. E li troverai, Delfino; non dubitarne. (escono)
SCENA III.
La stessa. — Un campo di battaglia. — Allarme.
Entrano il re Giovanni e Uberto.
Gio. Come si comporta la fortuna? Affrettati a dirmelo, Uberto.
Ub. Temo non volga in male: come sta Vostra Maestà?
Gio. La febbre che mi divora da sì luogo tempo raddoppia le sue forze e mi consuma. — Oh! il mio cuore n’è tocco. (entra un Messaggiere)
Mess. Milord, il vostro prode cugino, Faulconbridge, prega Vostra Maestà di abbandonare campo di battaglia, e di istruirlo col mezzo mio della strada che prenderete.
Gio. Digli che andrò a Swinstend all’abbazia di quel luogo.
Mess. Conservate il vostro coraggio: il potente soccorso, che il Delfino aspettava, naufragò sulle sabbie di Goodwill. Questa novella fu recata dianzi a Faulconbridge, e per essa i Francesi si attiepidiscono e cominciano a ritirarsi.
Gio. Oimè! Questa tiranna febbre mi abbrucia e non mi lascia godere di tal lieto annunzio. Avviamoci a Swinstend; mi si ponga tosto nella mia lettiga: una debolezza generale mi ha preso e sento che manco. (escono)
SCENA IV.
La stessa. — Un altra parte del campo.
Entrano Salisbury, Pembroke, Bigot ed altri.
Sal. Non credevo che il re fosse così fornito d’amici.
Pem. Torniamo alla carica: rianimiamo l’ardore dei Francesi: se essi soccombono, la loro perdita tira con sè la nostra.
Sal. Quel terribile bastardo, quel demonio di Faulconbridge, in onta di tutti gli ostacoli, sostien solo il peso del combattimento.
Pem. Si dice che il re Giovanni, preso da malattia mortale, abbandonasse il campo. (entra Meluno ferito e condotto da alcuni soldati)
Mel. Conducetemi verso i ribelli d’Inghilterra.
Sal. Allorchè eravamo felici ci si dava un altro nome.
Pem. È il conte di Meluno.
Sal. Ferito a morte.
Mel. Fuggite, nobili Inglesi, foste venduti come un armento: ripiegate i pericolosi vessilli della rivolta, e rendete alla vostra patria la fede che le avete tolta. Cercate il re Giovanni e cadete a’ suoi piedi: imperocchè se il Francese ottiene vittoria in questo giorno sanguinoso, ei si propone di ricompensare le pene che sostenete, facendovi decapitare. Ne proferì dianzi il sacramento, ed ho giurato con lui, e altri ancora l’han giurato sopra gli altari di Sant’Edmondo; su quei medesimi altari in cui vi sacrammo una tenera amicizia e un’affezione eterna.
Sal. Sarebbe possibile? Può ciò esser vero?
Mel. Non ho io innanzi a me la morte spaventosa, in questa agonia in cui stommi perdendo il sangue e smarrendo le forme, come cera dinanzi all’ardor della fiamma? Quale interesse al mondo potrebbe spingermi ad ingannarvi, allorchè mi converrebbe perdere tutto il frutto della mia frode? Qual motivo potrebbe indurmi a mentire, quando debbo morir qui, e non posso viver nell’altro mondo che mercè la verità? Ve lo ripeto; se Luigi ottiene la vittoria, converrà ch’ei divenga spergiuro, perchè voi rivediate nascere in Oriente una nuova aurora. Sì, questa notte stessa, il di cui soffio nero e contagioso fuma diggià intorno alla splendida capigliatura del sole, stanco dal corso del dì, e ne offusca i pallidi raggi, questa notte fatale sarà il termine della vostra esistenza! Un secondo tradimento vi condanna a pagar tutti colla vita la pena del vostro abbandono. Se Luigi, secondato dal vostro coraggio, rimane vincitore, raccomandatemi ad Uberto, che accompagna il vostro re. L’amore che per lui sento e la mia origine, perocchè il mio avolo era inglese, hanno risvegliato i rimorsi della mia coscienza, e mi hanno determinato a rivelarvi questa trama tenebrosa. Per ricompensa vi scongiuro di portarmi lungi da questi luoghi, lungi dal tumulto del campo e dal fragor della battaglia, in qualche sicuro asilo in cui la mia anima possa raccogliere in pace il resto dei miei pensieri, e separarsi dolcemente dal corpo, nella contemplazione della vita ventura, fra i pii desiderii dei moribondi.
Sal. Ti crediamo..... e, muoia la mia anima, se non è con gioia ch’io abbraccio quest’occasione di stogliere i miei passi dal cammino di una diserzione colpevole! Come il flutto che si abbassa e si ritrae, noi ci riavremo dai falli del nostro corso irregolare, e rientreremo nei limiti del dovere che avevamo temerariamente varcati, rimettendoci in pacifica obbedienza, sotto l’autorità sovrana del re Giovanni, nostro augusto signore, o di chi altri a cui appartenesse. — Il mio braccio ti sosterrà a partire di qui: imperocchè veggo già ne’ tuoi occhi la cruda agonia della morte. — Su, andiamo, miei amici; disertiamo di nuovo e benediciamo il fortunato cambiamento che fende a ristabilire diritti antichi e sacri. (escono sorreggendo Meluno)
SCENA V.
La stessa. — Il campo francese.
Entrano Luigi e il suo seguito.
Luig. Mi parve che il sole tramontasse con dolore, e che, allentando il suo corso, arrossasse l’Occidente, allorchè gl’Inglesi sconfidati rinculavano taciturni. Oh! da valorosi ci comportammo quando, dopo questo tremendo combattimento, demmo loro l’addio con una salva di cannoni e ripiegammo sereni le insegne squarciate, restando ultimi sul campo e quasi di esso signori! (entra un Messaggiere)
Mess. Dov’è il mio principe, il Delfino?
Luig. Qui: quali novelle?
Mess. Il conte di Meluno rimase ucciso, e i nobili Inglesi han disertato di nuovo a sua istigazione: il rinforzo che aspettavate da sì lungo tempo naufragò sulle sabbie di Goodwin.
Luig. Orrende nuove! Sventura a te che me le arrechi! Non credevo di andar soggetto alla tristezza, di cui esse mi opprimono. — Chi è colui che disse che il re Giovanni era fuggito, un’ora o due prima che la notte venisse a separare i due eserciti, stanchi di combattere?
Mess. Chiunque sia stato, ei disse il vero, signore.
Luig. Bene sta. — Vigiliamo adunque e facciam buona guardia questa notte: il giorno non si alzerà prima di me che tentar penso di nuovo le fortune del dimani. (escono)
SCENA VI.
Una vasta landa nelle vicinanze dell’abbazia di Swinstend.
Entrano il Bastardo e Uberto da diverse parti. È notte.
Ub. Chi è là? Parla, oh! parla prontamente, o faccio fuoco.
Fil. Un amico: chi sei tu?
Ub. Dalla parte d’Inghilterra.
Fil. Dove vai?
Ub. Che fa ciò a te? Perchè non t’interrogherei io sulle tue cose, come tu fai sulle mie?
Fil. Uberto, credo.
Ub. Indovinasti, e voglio ad ogni rischio annoverarti fra i miei amici, tu che conosci così bene la mia voce. Chi sei?
Fil. Chiunque vorrai: e se ti aggrada potrai essermi benigno per credere che discendo per certo lato dalla schiatta dei Piantageneti.
Ub. Dolorosa memoria! Tu, e la cieca notte mi avete fatto arrossir di vergogna1. — Valoroso guerriero, perdona se il mio orecchio non seppe riconoscerti all’accento.
Fil. Avvicinati, avvicinati: quali novelle?
Ub. Oh! io erravo qui in seno alle tenebre per cercarti.
Fil. In breve dunque: quali novelle?
Ub. Mio dolce signore, novelle conformi a questa notte, nere, tremende, sconfortatrici, orribili.
Fil. Mostrami senza velo tutto il loro orrore: non sono una donna e non verrò meno.
Ub. Il re, temo, fu avvelenato. Lo lasciai quasi senza lena, e corsi per istruirvi di questa disavventura, onde possiate in sì subita crise prender temperamenti efficaci.
Fil. E come ebbe egli il veleno? Chi ne assaggiò prima di lui?
Ub. Uno scellerato, un tenebroso scellerato, il di cui cuore scoppiò tosto. Nullameno il re parla ancora e forse può riaversi.
Fil. Chi lasciasti per attendere a Sua Maestà?
Ub. Nol sapete? I lôrdi son ritornati accompagnati dal principe Enrico, a di cui intercessione ebbero perdono: ora stan tutti intorno al monarca.
Fil. Cielo onnipossente, sospendi il tuo corruccio, e non opprimerne con maggior numero di mali, che la nostra pazienza non possa sopportare! — Ti dirò, Uberto, che questa notte la metà del mio esercito, varcando i paduli, fu sorpreso dal riflusso, e le sabbie limacciose di Lincoln se l’hanno ingoiato. Io stesso, in onta del vigore del mio destriero, faticai molto a salvarmi. — Precedimi; conducimi dal re; temo ch’ei non sia morto prima ch’io vi giunga. (escono)
SCENA VII.
Gli orti dell’abbadia di Swinstend.
Entrano il principe Enrico, Salisbury e Bigot.
Enr. È troppo tardi: il sangue e la vita sono avvelenati in tutte le loro sorgenti, e il cervello, in cui alcuni pongono il seggio dell’anima, annunzia col vano delirio che la sua fine è prossima. (entra Pembroke)
Pem. Sua Altezza conserva ancora l’uso della parola; ei crede che, se lo si conducesse all’aria aperta, la freschezza di essa calmerebbe i fuochi avvampanti del veleno crudele che lo strazia.
Enr. Ebbene, si rechi qui in questi orti — (esce Bigot) La sua frenesia dura ella ancora?
Pem. È più placido di quando lo lasciaste: dianzi cantò.
Enr. Oh sintomi vani e ingannatori! I mali, allorchè divengono estremi, non son più sentiti: la morte, dopo aver manomesso il di fuori, lo abbandona, e fatta invisibile investe l’anima e l’assedia e l’opprime con legioni di fantasime e di larve, che affollandosi si conseguono confuse e senza interruzione. — È strano che il malato debba cantar fra gli artigli della morte! — Io sono il rosignuolo di quel debole cigno, e intuonerò con lugubre metro la sua morte! A me tocca innalzare la voce, per dire la separazione della sua anima dal suo corpo, che tendono entrambe al loro eterno riposo.
Sal. Fatevi animo, principe, perocchè voi siete nato per rimetter l’ordine in questo regno sconvolto, ch’ei lascia immerso in così orribili mali. (rientra Bigot col seguito che porta sopra una lettiga il re Giovanni)
Gio. Sì, certo ora la mia anima può fuggire liberamente pei larghi fori della sua prigione in rovina. Tutti i fuochi dell’ardente sole son nel mio petto; le mie viscere consumate si riducono in cenere: omai non son più che una figura delineata col pennello sopra una pergamena, che si raggrinza e impiccolisce davanti all’ardore della fiamma.
Enr. Come sta Vostra Maestà?
Gio. Avvelenato... molto male;... morto, abbandonato, condannato!... E niuno di voi comanderà all’inverno di rinfrescare colle sue dita agghiacciate la mia bocca di bragia? Niuno farà scorrere tutti i fiumi del mio regno sulle mie viscere abbruciarti, o chiamerà i venti del nord per temperare col loro alito le mie labbra aduste? Vi chieggo ben poco: non chieggo che un po’ di ghiaccio, e voi siete tanto spietati, tanto ingrati da rifiutarmelo!
Enr. Oh! così fosse nelle mie lagrime qualche virtù che valesse a risanarvi!
Gio. Le tue lagrime sono bollenti. — L’inferno è nel mio seno, e il veleno lo strazia, corrompendomi il sangue tocco da mal mortale. (entra il Bastardo)
Fil. Non ho più lena per la celerità del corso che intrapresi, onde vedere Vostra Maestà.
Gio. Oh, cugino, venisti per chiudermi gli occhi. La molla del mio cuore è rotta, e tutte le funi, mercè cui la mia barca veleggiava, andarono sperperate, nè mi rimane più che una rudente sottile, un finissimo capello. Il mio cuore non conserva che una fibra che non durerà che il tempo di udir tue novelle, e quindi quel che ti apparisce di me non sarà che argilla insensibile, inanime forma di realtà estinta.
Fil. Il Delfino si prepara a marciare verso questi luoghi; e il Cielo solo sa in qual modo potrem resistergli. In una fatal notte, mentre compievo una ritirata per serbare il vantaggio ottenuto, perdei la miglior parte del mio esercito; esso innoltrò senza avvedersene nelle paludi, e rimase inghiottito dal ritorno inaspettato della marea. (il re muore)
Sal. Voi annunziate queste mortali novelle ad un orecchio già chiuso dalla morte. — Mio sovrano! mio signore!... Dianzi ancora re... ora venuto a tale!
Enr. È così che convien ch’io m’avanzi nella mia via, per essere del pari arrestato! Qual sicurezza, quale speranza, quale stabilità vi è in questo mondo, allorchè si vede un re divenire in un istante un volume di creta inanimata?
Fil. Tu ci lasciasti dunque così? Non rimango presso di te che per vendicarti; riempito tal dovere, la mia anima t’accompagnerà nei cieli, come essa costantemente ti servì sulla terra. — Voi, lôrdi, astri di questo regno, rientrati nella vostra legittima sfera, dove sono le vostre armi? Addimostrate ora il leale sentimento della vostra fedeltà, e venite senza dimore con me a respingere la distruzione e l’ignominia dalle porte commosse della nostra sciagurata patria. Affrettiamoci nella ricerca del nemico, o aspettiamolo di più fermo: il Delfino pieno di ardore corre sulle nostre orme.
Sal. E’ pare che non siate istrutto di quello che noi sappiamo. Il cardinal Pandolfo riposa nell’abbazia, e non è un’ora che vi giunse recandoci per parte di Luigi offerte di pace, che possiamo accettare con onore. Il Delfino è parato a rinunziare a questa guerra.
Fil. Più presto lo farà, allorchè ci vedrà armati e atti a difenderci.
Sal. Ma tutto è già in qualche modo statuito: egli ha fatto trasportare alla spiaggia le sue bagaglie e lasciato arbitro di questa guerra il cardinale. Ora, se lo giudicate conveniente, voi insieme con me e gli altri lôrdi partiremo con esso dopo il meriggio e affretteremo il corso per concludere questi felici negoziati.
Fil. Acconsento. — Voi, nobile principe, in un con tutti i Grandi che possono esimersi dal venir con noi, voi resterete per le esequie di vostro padre.
Enr. È a Worcester che il suo corpo debb’essere inumato: tale fu il suo desiderio.
Fil. Così avverrà: e a voi, caro principe, sia dato di reggere con gloria e felicità lo scettro di questo gran regno! È con deferenza intera ch’io vi sottometto inginocchiato i miei fedeli servigi e l’inviolabile attaccamento di un suddito leale.
Sal. E noi pure vi offeriamo il nostro amore, di cui nulla omai interromperà la corrente.
Enr. Ho un’anima sensibile, e vorrei addimostrarvi la mia riconoscenza: ma non so farlo che con queste lagrime.
Fil. Oh, non paghiamo al presente che il tributo di un dolore indispensabile; perocchè ei ne ha anticipate anche le sventure dell’avvenire. — Questa Inghilterra non mai genuflesse e non mai genufletterà dinanzi ad alcun superbo conquistatore, se non quando ella siasi da sè scoperto il seno, aiutandolo a ferirlo, ad arrossarlo di piaghe. Ora che i suoi illustri lôrdi son rientrati nella loro patria, vengano ora le tre parti del mondo armate contro di noi e non ci arretreremo: nulla mai potrà atterrirci, finchè l’Inghilterra resterà fedele a se stessa. (escono)
fine del dramma.
Note
- ↑ Arturo era di quella famiglia.