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atto quinto | 65 |
di fuori, lo abbandona, e fatta invisibile investe l’anima e l’assedia e l’opprime con legioni di fantasime e di larve, che affollandosi si conseguono confuse e senza interruzione. — È strano che il malato debba cantar fra gli artigli della morte! — Io sono il rosignuolo di quel debole cigno, e intuonerò con lugubre metro la sua morte! A me tocca innalzare la voce, per dire la separazione della sua anima dal suo corpo, che tendono entrambe al loro eterno riposo.
Sal. Fatevi animo, principe, perocchè voi siete nato per rimetter l’ordine in questo regno sconvolto, ch’ei lascia immerso in così orribili mali. (rientra Bigot col seguito che porta sopra una lettiga il re Giovanni)
Gio. Sì, certo ora la mia anima può fuggire liberamente pei larghi fori della sua prigione in rovina. Tutti i fuochi dell’ardente sole son nel mio petto; le mie viscere consumate si riducono in cenere: omai non son più che una figura delineata col pennello sopra una pergamena, che si raggrinza e impiccolisce davanti all’ardore della fiamma.
Enr. Come sta Vostra Maestà?
Gio. Avvelenato... molto male;... morto, abbandonato, condannato!... E niuno di voi comanderà all’inverno di rinfrescare colle sue dita agghiacciate la mia bocca di bragia? Niuno farà scorrere tutti i fiumi del mio regno sulle mie viscere abbruciarti, o chiamerà i venti del nord per temperare col loro alito le mie labbra aduste? Vi chieggo ben poco: non chieggo che un po’ di ghiaccio, e voi siete tanto spietati, tanto ingrati da rifiutarmelo!
Enr. Oh! così fosse nelle mie lagrime qualche virtù che valesse a risanarvi!
Gio. Le tue lagrime sono bollenti. — L’inferno è nel mio seno, e il veleno lo strazia, corrompendomi il sangue tocco da mal mortale. (entra il Bastardo)
Fil. Non ho più lena per la celerità del corso che intrapresi, onde vedere Vostra Maestà.
Gio. Oh, cugino, venisti per chiudermi gli occhi. La molla del mio cuore è rotta, e tutte le funi, mercè cui la mia barca veleggiava, andarono sperperate, nè mi rimane più che una rudente sottile, un finissimo capello. Il mio cuore non conserva che una fibra che non durerà che il tempo di udir tue novelle, e quindi quel che ti apparisce di me non sarà che argilla insensibile, inanime forma di realtà estinta.
Fil. Il Delfino si prepara a marciare verso questi luoghi; e il Cielo solo sa in qual modo potrem resistergli. In una fatal notte,