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XII XIV

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XIII.

— Avete consegnata quella lettera a casa Caruso? — domandò il principe a Giorgio appena desto.

— Sì, Eccellenza, l’ho consegnata alla cameriera.

Dopo quella risposta il principe passò la giornata più tranquillo, mentre donna Camilla non trovava pace. Ora, rôsa dal rimorso, calcolando l’enormità di quello che aveva fatto, temeva ogni momento di veder giungere Ubaldo, di veder giungere i padrini, e sentiva addensare sul capo di suo marito la burrasca provocata da lei.

Ubaldo, destandosi, aveva ricevuto la lettera del principe e stracciata la prima busta ne aveva veduta una seconda all’indirizzo della moglie. Allora, ossequente al principio di non leggere mai le lettere di Maria, si era infilato le pantofole e la veste da camera, e andava a informarsi con premura dello stato [p. 217 modifica]di lei e intanto le recava la lettera, Maria impallidì riconoscendo lo stemma sulla parte posteriore della busta e pregò il marito di posare la lettera sulla rovescia del lenzuolo, aggiungendo che l’avrebbe letta dopo, quando si fosse dileguato quel malessere che provava dopo una notte poco tranquilla.

Ubaldo giudicava cosa naturalissima che il principe, ora che stava un po’ meglio, scrivesse a Maria per domandarle notizie e per esprimerle il suo rincrescimento per la gravissima disgrazia occorsale, e non si meravigliava punto che Maria non avesse fretta di leggere quella lettera. Ma siccome era convinto che il principe non avesse più la testa a segno dopo l’incendio del teatro e questa convinzione non l’aveva espressa altro che alla moglie, vedendo ora la doppia busta, attribuì quel fatto alla smemoratezza di don Pio e lo comunicò a Maria, dicendole:

— Vedi, avevo ragione!

— Mostrami quella busta, — disse la malata celando sotto un sorriso il sospetto che le era balenato nell’animo. Quando ebbe la busta sott’occhio e s’accorse che l’indirizzo non era della stessa mano, il sospetto si cambiò in certezza, ma invece di aprire l’animo suo al marito, disse: [p. 218 modifica]

— È vero, quel povero principe non è punto rimesso dalla scossa avuta; la testa non gli regge, — e sbadatamente aprì la lettera e la lesse, come si leggono le lettere cui non si annette nessuna importanza, intanto che Ubaldo aveva preso in collo il suo Mario e lasciava che il bambino gli tirasse il cordoncino degli occhiali, come se fosse un campanello.

Quando Ubaldo fu uscito per andarsi a vestire, ella, non potendosi muovere, giunse le mani e ringraziò Iddio di non aver permesso che suo marito leggesse quella lettera ardente da cui risultava con evidenza l’insulto fattole dal principe, da cui si capiva come e egli fosse pentito, ma innamorato sempre, più che mai innamorato. Ella pregò con tutto il fervore di cui era capace, affinchè Iddio continuasse a proteggerla contro le persecuzioni della donna cattiva e gelosa, che aveva giurato a lei guerra continua, guerra micidiale.

Dopo quella preghiera si sentì più sollevata, e nascosta nel mobile vicino al letto la lettera di don Pio, che in ogni caso doveva servirle di giustificazione contro qualsiasi sospetto, si dette a pensare con sollievo al momento in cui col pretesto di ristabilirsi in salute sarebbe tornata nella povera casa di Ve[p. 219 modifica]nezia, fra i fratelli e le sorelle, abbandonando Roma dove era stata tanto felice per un certo periodo di tempo, e poi tanto disgraziata.

Durante i giorni che ancora le rimanevano da passare a letto, prima che la gamba fosse guarita, ella assuefaceva il marito e gli amici all’idea di vederla partire per Venezia, parlando continuamente di quel cambiamento d’aria e di vita dal quale sperava la guarigione completa, e mentre ella era sostenuta dalla speranza di sfuggire al pericolo costante che la minacciava, don Pio passava i giorni nell’aspettativa più crudele, e la principessa si angustiava convincendosi che la sua vendetta, quella vendetta che le era costata tanti palpiti e tanto rimorso, era andata fallita o per la vigliaccheria di Ubaldo o per l’accortezza di Maria.

E più il tempo passava e più fermavasi in questo pensiero, perchè si compiaceva di credere la sua rivale complice di don Pio, di credere che ella avesse dalla sua le persone di servizio, e venuta in possesso della lettera non l’avesse consegnata al marito.

Lo stato d’animo, le angustie, i timori del principe e della principessa della Marsiliana erano storia intima, storia di famiglia cui nessuno badava; invece avvenimenti ben più [p. 220 modifica]importanti attiravano l’attenzione della città e del paese. Le cose si erano avverate a puntino secondo i calcoli dell’onorevole Carrani. Due dei cinque uomini politici che capitanavano i diversi gruppi del partito d’opposizione, erano andati al potere in una crisi ministeriale, ma proprio il Carrani era rimasto fuori, ed egli separatosi dai due antichi colleghi, ora ministri, li tacciava di fedifraghi e li combatteva nella Stampa con una violenza inaudita. Gli altri due, perduta ogni speranza, avevano rinunciato alla lotta. Così il giornale non era più l’organo di un partito forte e compatto, ma di un uomo bilioso, di un uomo che aveva dei rancori, dei risentimenti da sfogare, e li sfogava specialmente contro i suoi due amici saliti al potere, di cui conosceva tutte le debolezze, tutte le meschinità.

Se il principe si fosse come prima occupato del giornale, avrebbe trattenuto i furori del Carrani, avrebbe portato una nota di moderazione in tutta quella violenza; ma il principe non aveva più interesse a nulla, non leggeva neppur più la Stampa, e a Montecitorio non andava da due mesi.

Ogni volta che la madre lo spingeva a scotere l’inerzia, a uscire, egli rispondeva:

— Sono tanto brutto, — e si tirava la co[p. 221 modifica]perta sulle gambe, il berrettino sugli occhi e si affondava nella poltrona.

Quando il cosidetto viceprincipe andava ad avvertirlo che scadevano delle forti cambiali alle Banche e che non c’era come far fronte agli interessi, il principe rispondeva:

— Creiamo altre cambiali, — e firmava, firmava strisce di carta bollata, come avrebbe firmato una lettera di nessun valore.

Pareva che dopo quella sera dell’incendio una molla si fosse spezzata in lui e ora era una cosa inerte, senza volontà e senza energia.

Il Rosati, Ubaldo, il Suardi, i suoi amici stessi evitavano di andarlo a visitare, perchè pareva che fosse noiato di vederli, e quell’uomo che per il passato non poteva stare un momento in casa, che in una giornata stancava due pariglie di cavalli, faceva cento cose diverse o si vedeva per tutto, ora non si moveva più di camera, e nelle lunghe serate invernali non aveva altra compagnia che quella della madre dormente, di donna Camilla, che lavorava in silenzio alle rozze coperte per i poveri, e dell’Onorati, che parlava per isfogare la sua loquacità, ma non perchè don Pio lo incoraggiasse, prestandogli attenzione o rivolgendogli domande.

Il palazzo Urbani era divenuto muto; nes[p. 222 modifica]suna carrozza entrava più rumorosamente nel cortile, la duchessa non riceveva più la sera, donna Camilla aveva sospesi i suoi giovedì, i servitori stanchi dell’inerzia dormivano tutto il giorno nell’anticamera. Don Pio era più stanco, più noiato di tutti per quella inerzia del corpo e della mente, ma non osava scoterla, tanto ogni movimento gli riusciva increscioso, tanto ogni desiderio, ogni speranza gli era morta nel cuore dopo che Maria non gli aveva inviato quel perdono che egli le aveva chiesto con un ardore, con una umiltà di cui non si credeva capace. Ora che gli rimaneva più dopo che quella consolazione gli era stata negata?

Noiato di una vita male spesa, disprezzando quel nome, quella posizione e quelle ricchezze che non gli avevano saputo cattivare un cuore di donna, don Pio provava il distacco da tutto, e se vi era una speranza che gli desse la calma momentanea, la pazienza per trascinare quel martirio, era lo stato della sua salute, consunta da un male di cui il professor Bonelli, il medico più celebre di Roma, non poteva dirgli in che consistesse, come si potesse sollevare. Don Pio sentiva ogni giorno più scemare le forze e guardava con compiacenza le mani scarne, che ave[p. 223 modifica]vano preso il colore dagli antichi avori, guardava il suo volto emaciato, gli occhi infossati, i capelli incanutiti, e quella rovina di tutto l’essere suo gli diceva che la fine non poteva esser lontana, quella fine che gli prometteva, a lui cinico, a lui che non aveva mai guardato al di là dell’esistenza terrena, non una vita di beatitudine, ma un riposo eterno, l’oblio di tutto, il silenzio, l’annientamento. Quest’unica speranza, che sorgeva, fiore solitario e rigoglioso sopra un campo sacrato alla morte, lo attraeva irresistibilmente, gli faceva provare una specie di voluttà nel vedere spezzate tutte le gomene, rimossi tutti i puntelli che lo tenevano inchiodato alla vita. Non vedeva il momento che l’ultima gomena fosse infranta, che l’ultimo puntello cadesse, affinchè la nave della sua esistenza scendesse nel mare profondo del nulla e prontamente vi si sommergesse. Per questo non si turbò, non alzò neppur la testa quando un giorno l’intendente gli disse che mancavano i capitali per continuare le costruzioni a Porta Portese.

— Vendete dei terreni, — disse il principe.

— Non si trovano compratori.

— Allora lasciate gli edifizi a mezzo.

— Ma che cosa si dirà di lei, Eccellenza? [p. 224 modifica]— rispose l’intendente sgomento da quella apatia.

Don Pio alzò le spalle e fece con la bocca una smorfia d’indifferenza.

— Si dica quello che si vuole, che me ne importa?

Ma l’intendente, che non s’era ancora arricchito quanto sperava con il patrimonio Urbani e non voleva si dicesse, per non nuocere al credito, che non v’erano denari per continuare le case, creò ipoteche su quelle quattro mura appena alte pochi metri dal suolo e tornò dal principe a consigliarlo di diminuire le spese della Stampa. Egli tremava dando quel consiglio, poichè sapeva quanto don Pio teneva al giornale. Per questo fu molto meravigliato nel sentirsi rispondere:

— Prendete una misura più radicale; ammazzatela.

— E i capitali che è costata?

— Non li piango io, perchè dovete piangerli voi?

— E gli abbonati? — domandò l’intendente sgomento.

— Si rimborsano. Non avete capito che non m’importa nulla del giornale, che non m’importa di nulla?

L’intendente non fiato più, non interrogò [p. 225 modifica]più don Pio su nulla. Faceva o disfaceva di propria iniziativa, e soltanto allorchè doveva far fronte a impegni, diminuire cambiali, pagare interessi e non poteva farlo da sè, presentava nuove cambiali al principe, il quale firmava senza leggere, senza dir parola.

La duchessa, vedendo il figlio ingolfarsi nei debiti, vedendolo camminare a occhi chiusi verso la rovina, gli dava dei consigli, lo esortava a partire per un lungo viaggio e a lasciare a lei la cura di strigare quella intricatissima matassa. Lo assicurava che ella ne avrebbe trovato il bandolo e che sarebbe stata tranquilla, purchè si fosse riavuto di spirito.

— Nel vederti così abbattuto, io non ho più forza, più energia; sento tutto il peso degli anni. — dicevagli la madre con quella tenerezza, che non aveva nel cuore altro che per lui.

— Sono finito, — rispondeva egli scrollando mestamente il capo.

— Ma non rifletti, Pio, che questa rovina ti espone allo scherno della moltitudine, che in questa rovina tu coinvolgi tutta la gente che ci sta d’intorno, che questa rovina sarà per tanti e tanti una catastrofe?

— Sono finito, — rispondeva il principe soc[p. 226 modifica]chiudendo gli occhi per non essere noiato da consigli e da esortazioni che non voleva ascoltare.

In mezzo a quell’abbandono completo di tutto, in quel distacco totale dalla vita, una cosa ancora restava nel cuore di don Pio: il ricordo della donna buona, della donna bella, della donna onesta che egli aveva offesa col suo amore. Ella sola avrebbe potuto rianimare quel corpo affranto, quello spirito anelante l’eterno, il completo riposo, ma Maria non voleva; Maria desiderava di dimenticare l’offesa, e per giungere a quest’oblio non poteva rivedere il principe, altro che dopo mesi, anni, quando appunto la mano del tempo avesse con la sua azione lenta, ma continua, attenuata l’amarezza dell’offesa.

Appena rimessa in salute ella partì per Venezia con l’intenzione di rimanere alcuni mesi in quella città silenziosa, sperando di ritrovarvi la pace e la salute. Ubaldo, che l’aveva accompagnata in famiglia, tornò a Roma ed ebbe dal redattore di un altro giornale la proposta d’inviarlo in Africa dove il governo iniziava delle operazioni militari. Era una occasione per sorvegliare ogni mossa del comandante militare di Massaua, e per combattere violentemente il governo sopra un ter[p. 227 modifica]reno favorevole, perchè il paese vedeva di mal occhio le spese che si facevano per quelle conquiste, che non offrivano altro che lontane e incerte speranze di guadagno.

L’invio del corrispondente in Africa era una risoluzione troppo importante perchè Ubaldo potesse prenderla, senza prima domandare il parere al principe, e per questo andò a trovarlo.

Ubaldo nel parlare dello scopo della sua visita, disse incidentalmente che sua moglie era partita, era andata a Venezia. Questa notizia bastò a scotere don Pio, a fargli battere il cuore, a mettere un lampo di vita negli occhi spenti. Egli approvò l’invio in Africa del corrispondente e riprese a parlare, mostrò interesse per il giornale, per indurre Ubaldo a trattenersi sperando che riportasse il discorso sull’assente. E ottenne quello che voleva: Ubaldo gli narrò tutte le fasi della malattia di Maria, e sciolse anche questa volta un inno di lode alla sua dolce, alla sua buona e affettuosa compagna. In quel carattere basso l’ammirazione si estrinsecava in una maniera poco elevata; Ubaldo poneva nell’esaltare Maria la vanità del possessore, del proprietario di un oggetto raro, di un cavallo di prezzo, ma don Pio non ne era offeso; ba[p. 228 modifica]stava che sentisse parlare di lei, che ne udisse pronunziare il nome per provare l’unica consolazione di cui fosse avido il suo cuore.

Quando Ubaldo fu uscito, il pensiero di quella donna, che egli poteva, che voleva rivedere, operò in lui un miracolo. Don Pio non voleva apparir vinto agli occhi di lei, non voleva la compassione di Maria. Egli sentì a un tratto tutto il peso delle sventure che lo avevano lasciato indifferente per il passato, sentì tutte le amarezze di chi volontariamente si lascia abbattere e ebbe uno scatto di ribellione La rovina, la morte lo spaventarono. E mentre donna Camilla, seduta accanto a lui, lavorava in silenzio, egli teneva ancora gli occhi chiusi, ma con la mente esaminava la sua situazione, vedeva che tutti prosperavano, tutti si avvantaggiavano, tutti arricchivano accanto a lui: uomini politici, giornalisti, ingegneri, amministratori, artisti, operai, domestici; tutti prendevano l’aspetto sereno e tranquillo di grassi possidenti. Egli invece si lasciava stupidamente dissanguare, lasciava che il turbine della rovina lo spazzasse dal piedistallo d’oro su cui era stato deposto, nascendo, dalla sorte, si lasciava finire, si lasciava morire. Ma, doveva e voleva resistere per Maria; l’amore poteva scusare l’offesa [p. 229 modifica]che le aveva fatto, ma nulla poteva scusare la sua distruzione, la rovina che si lasciava scendere addosso senza difendersi. Per resistere sentiva il bisogno di rivederla, di supplicarla con la voce, con lo sguardo, con quel volto stesso consunto e invecchiato innanzi tempo dai patimenti, di pronunziare la dolce, la generosa parola del perdono. Con quel talismano nel cuore egli avrebbe riacquistato l’antica energia e impavido avrebbe sopportato gli urti dell’avversità.