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che un nobile romano (fatta eccezione de’ buoni, che però si posson tenere chiusi in pugno) è manco istrutto, abile e libero che un gentiluomo delle Marche e delle Romagne. La classe mediana, non tenuto conto di alcune eccezioni di cui vi parlerò fra poco, è assai più numerosa, più ricca, più fiorente a levante degli Appennini che nella capitale e nei dintorni. Gli stessi plebei dannosi a vedere più onesti, secondo che vivono a maggior distanza dal Vaticano.

I plebei della Città eterna sono fanciullacci male allevati, dal costume variamente pervertiti; ed il Governo che, stando in mezzo ad essi, conosceli e temeli, usa a dolcezza con essi. Di lieve imposte li gravita, sollazzali con spettacoli, e talvolta loro dà pane: panem et circenses. Loro non insegna leggere; ma non vieta il mendicare ed il lotto. Manda cappuccini a domicilio; il frate tarchiato dà numeri pel lotto alla moglie, trinca a garganella col marito, forma i bimbi, e talvolta presta aita alla fabbrica. Ne i romani plebei paventano la fame al segno di averne a morire; se mancano di pane a casa, se ne provveggono, senz’obolo sborsare, nella gerla del fornajo, consentendolo la legge. Da essi null’altro si chiede, se non che siano buoni cristiani; che s’inchinino riverenti ai preti, che s’umiliino innanzi ai grandi, che ai facoltosi cedano la mano, e sopratutto, che si guardino, come dal finimondo, dal sorgere in turbamenti politici. Pene sono ad essi