Il Fiore delle Perle/21. L'assalto delle pantere
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Capitolo XXI
L’assalto delle pantere
Than-Kiù ed i suoi compagni si erano accampati nella grande foresta, in attesa che la ferita del valoroso Hong si rimarginasse e che l’osso non corresse più il pericolo di tornare a spezzarsi.
Pram-Li e Sheu-Kin, dopo d’aver esplorato i dintorni per accertarsi che non vi erano selvaggi, avevano costruita una graziosa capanna sotto la fresca ombra di un colossale pombo, servendosi di grossi rami e di grandi foglie di banani e di arecche e colà avevano condotto il ferito, per meglio ripararlo dal calore eccessivo che regnava sotto quelle piante e dall’umidità della notte, che produce sovente la terribile febbre dei boschi.
Mentre Than-Kiù vegliava su di lui, il bravo malese ed il giovane chinese percorrevano da mane a sera la foresta in cerca di provviste, scalando gli alberi per spogliarli delle frutta migliori e frugando i macchioni per saccheggiare i nidi dei volatili od impadronirsi della selvaggina che vi si nascondeva.
Le provvigioni così abbondavano nella capanna, tornando i cacciatori o con banani profumati, o con deliziosi mangostani, o con enormi durion, frutta che tramandano un odore disgustoso di aglio marcio ma che sono squisite come la miglior crema e che hanno un aroma che sembra formato di mille essenze; oppure recavano delle frutta d’artocarpo, grosse come la testa di un uomo, rugose, e contenenti una polpa giallastra che ha il sapore dei carciofi o di certe specie di zucche e che arrostita surroga il pane.
Altre volte invece tornavano dalle loro escursioni portando qualche giovane babirussa sorpreso nel suo covo, o qualche giovane scimmia o delle uova di calaos o delle nidiate di pappagalli o di fagiani dorati e perfino qualche testuggine di terra.
Dieci giorni erano così trascorsi in perfetta calma, durante i quali le carni strappate dal proiettile di Pandaras si erano completamente rimarginate e l’osso quasi unito, con grande soddisfazione del ferito che soffriva assai di quella immobilità forzata.
L’undicesimo giorno però, un avvenimento inaspettato venne a mettere in apprensione gli accampati ed a turbare la loro tranquillità.
Sheu-Kin, come il solito, si era recato in un certo luogo pantanoso, dove pareva che si radunassero tutti gli scoli della foresta, per cercare qualche testuggine, avendone sorprese altre al tramontare del sole, quando nel girare gli sguardi intorno, vide dinanzi a sè, alla distanza di quaranta passi, un animale che gli agghiacciò il sangue.
Era più grosso di un pardo nebuloso, misurando un metro e mezzo di lunghezza con un’altezza di ottanta o novanta centimetri, aveva la testa piccola e di aspetto ferocissimo, il collo lungo e robusto, le gambe corte e muscolose, una coda lunga un buon metro ed il pelame nero lucente, con delle macchie d’un nero più intenso ed opaco.
Il chinese non aveva mai percorso i boschi delle grandi isole malesi, nondimeno si era subito accorto con quale formidabile avversario avrebbe avuto da fare se fosse stato assalito, avendo riconosciuto in quell’animale una pantera nera, una fiera che gode una triste celebrità per la sua ferocia e per la sua voracità. Sheu-Kin era coraggioso, lo si è visto alla prova, pure nel trovarsi dinanzi a quella pantera, separato da una distanza così breve, ebbe paura, tanto più che si trovava armato del solo kampilang, non avendo fino allora incontrato in quella foresta alcun animale feroce.
Invece di fuggire, ebbe però il sangue freddo di rimanere immobile al suo posto, guardando fisso la belva, e snudando lentamente il kampilang, essendo ben deciso a vendere cara la vita.
La pantera dal canto suo non si era mossa o lo guardava con curiosità, coi suoi occhi verdastri, che avevano dei riflessi della fiamma. Solamente la sua lunga coda, nera al pari del corpo, si agitava mollemente da destra a sinistra, sfiorando le erbe. Uomo e belva si contemplarono così per parecchi minuti, poi quest’ultima s’allontanò lentamente lungo la riva della piccola palude, fermandosi di tratto in tratto per volgere la testa e guardare Sheu-Kin.
Quando scomparve in mezzo ai canneti, il povero chinese si terse il freddo sudore che gli bagnava la fronte, poi, dopo essersi ben accertato di non essere spiato dal feroce nemico, se la diede a tutte gambe attraverso la foresta.
Aveva percorsi trecento passi, quando udì dietro di sè un fruscìo di foglie secche ed uno scricchiolìo di rami. Credette dapprima di aver spaventato qualche babirussa o d’aver fatto fuggire qualche gatto orsino, poi accortosi che quel rumore continuava, si decise ad arrestarsi dietro il tronco di un sagu, stringendo con disperata energia il kampilang.
La notte calava rapidamente, però non essendo quella parte della foresta molto fitta, sotto gli alberi ci si vedeva ancora tanto da distinguere un animale di media grossezza ad una distanza di cinquanta o sessanta metri.
Sheu-Kin, quantunque cominciasse a sudar freddo e si sentisse prendere dai brividi della paura, guardò dietro di sè deciso a contrastare il passo anche alla pantera nera, se avesse continuato a seguirlo.
I suoi timori non lo avevano ingannato. La fiera che aveva incontrato presso la palude non lo aveva abbandonato; la vide ferma a cinquanta passi, e non era più sola.
Era in compagnia d’un altro animale simile per le forme al primo e di egual mole; aveva però il pelame giallo oscuro a macchie ed a rosette d’una tinta più cupa e le parti inferiori biancastre.
Per quanto dovesse sembrare strano al chinese di trovare due fiere così diverse di colore, anche nella seconda riconobbe una pantera, una di quelle che i malesi chiamano harimau-bintang, ossia della Sonda.
— Se mi seguono vuol dire che quelle bestie contano di cenare col mio corpo, — mormorò il disgraziato, battendo i denti. — Se riesco a giungere alla capanna, potrò chiamarmi ben fortunato. —
Le due fiere, vedendolo fermarsi, lo avevano imitato, anzi l’hariman-bintang si era subito sdraiata in mezzo all’erba, senza staccare dal chinese i suoi occhi che nella semioscurità avevano dei lampi giallastri. La sua compagna invece si era tenuta in piedi, battendosi i fianchi con la coda, con un moto nervoso che tradiva una certa impazienza.
Trascorsero altri due minuti senza che nè le due belve nè il chinese si muovessero, poi questo, un po’ rassicurato del contegno niente affatto aggressivo di quelle, si decise di continuare la ritirata, tanto più che ormai aveva la certezza di non trovarsi molto lontano dalla capanna.
Abbandonò alla chetichella l’albero protettore e scivolò in mezzo ad un macchione di rotang e di pepe selvatico, sperando di non essere stato scorto, ma s’avvide ben presto che anche le due pantere si erano mosse, riprendendo ostinatamente l’inseguimento.
Affrettò il passo essendo ormai scese le tenebre, tenendosi più che poteva presso gli alberi per rifugiarsi dietro ai tronchi in caso d’un assalto e appena scorse in distanza la capanna, si diede a corsa disperata, chiamando il malese e Than-Kiù.
La giovanetta e Pram-Li, che stavano preparando la cena, udendo quelle grida s’affrettarono ad uscire, credendo che fosse inseguito da qualche drappello di selvaggi.
— Cosa ti è accaduto? — gli chiesero, vedendo il chinese pallido come un cencio lavato e coi lineamenti alterati.
— Le pantere, — rispose egli con voce rotta. — Presto, prendete i fucili o ci faranno a brani. —
Pram-Li in due salti si precipitò nella capanna e tornò fuori portando tre carabine.
— Dove sono queste pantere? — chiese Than-Kiù, che nulla vedeva.
— Mi hanno seguìto per due chilometri, alla distanza di cinquanta passi, — rispose Sheu-Kin. — Mezzo minuto fa le aveva ancora alle spalle.
— Non vedo nulla.
— Nemmeno io, — disse Pram-Li.
— Vi dico che mi hanno seguìto fino qui.
— Quante erano?...
— Due.
— E non ti hanno assalito?...
— No, però non mi hanno lasciato un solo momento.
— Chi parla di pantere?... — chiese una voce.
Hong, vedendo Pram-Li correre fuori colle carabine e udendo quel dialogo, si era affrettato a lasciare il suo giaciglio non volendo, in caso di pericolo, rimanere inoperoso, quantunque si trovasse nell’impossibilità di far uso del suo braccio ferito.
— Siamo spiati da due pantere, — disse Than-Kiù. — Hanno seguìto Sheu-Kin fino a pochi passi dalla capanna.
— Brutti vicini, amici miei, più pericolosi delle tigri, — disse Hong. — Erano due?...
— Sì, una nera ed una gialla — rispose Sheu-Kin.
— È impossibile!... — esclamò Than-Kiù. — Saranno state o tutte e due nere o tutte e due gialle.
— No, Sheu-Kin non può essersi ingannato, — disse Hong. — Le pantere nere non formano una vera specie, ma sono casi di melanismo e si vedono sovente insieme a quelle gialle. Comunque sia, le une valgono le altre e dovremo tenerci bene in guardia, essendo quelle belve coraggiose e non temendo l’uomo anche armato.
— Credi che si siano nascoste in questi dintorni?...
— Certo e attenderanno il momento opportuno per piombare su di noi, è vero Pram-Li?
— Sì, — rispose il malese. — Sono pazienti ed astute e non si lasceranno sfuggire l’occasione di rapire qualcuno di noi, dopo d’averlo sventrato con un buon colpo di zampa.
— Se le tenebre non fossero già calate si sarebbe potuto scovarle o costringerle a lasciare questa foresta, — disse Than-Kiù, — ma con questa oscurità non potremo fare nulla.
— Si potrebbe tendere loro un agguato, — disse Pram-Li.
— In qual modo? — chiese Hong.
— Se quelle belve hanno veduta la capanna, sono certo che fra un paio d’ore verranno qui a ronzare per cercare d’introdurvisi, essendo audacissime. Invece di dormire mettiamoci in agguato e facciamo su di loro una buona scarica.
— E dove vuoi nasconderti?...
— Scaviamo una buca, nella quale ci nasconderemo, coprendoci con dei grossi rami e attendiamole.
— Verranno poi?...
— Conosco un mezzo infallibile che le attirerà dalla nostra parte.
— Allora ponetevi all’opera. Fra un’ora s’alzerà la luna e potrete far fuoco con la certezza di non mancare ai vostri colpi, — disse Hong.
— Aiutami, Sheu-Kin — disse il malese. — Avremo molto da fare, non possedendo nè zappe, nè vanghe. —
Scelsero un posto situato a circa cinquanta passi dalla capanna tra due arecche che proiettavano, con le loro smisurate foglie, una cupa ombra, e si misero a scavare la terra con grande lena, adoperando i kampilang.
Ci volle una buona ora ed anche l’aiuto di Than-Kiù per scavare una fossa capace di contenere due uomini, però finalmente fu fatta e tappezzata di grandi foglie, essendo quel terreno assai umido.
Pram-Li, dopo d’aver date a Sheu-Kin le istruzioni necessarie, vi scese con Than-Kiù, essendo questa la miglior bersagliera di tutti, fors’anche di Hong.
Il giovane chinese s’affrettò a coprirli con rami d’albero molto grossi, già precedentemente tagliati, e che potevano ripararli contro un fulmineo attacco delle due fiere, poi accese a breve distanza alcuni legni secchi gettandovi sopra un pezzo di grasso di tartaruga.
— Quest’odore basterà per farle accorrere dalla nostra parte, — disse il malese a Than-Kiù.
Poi rivolgendosi a Hong ed a Sheu-Kin, continuò:
— Chiudetevi nella capanna e non uscite se non udite le nostre chiamate. È necessario non commettere alcuna imprudenza con quegli animali.
— Ed io dovrò rimanere inoperoso? — disse Hong, melanconicamente.
— Prenderai più tardi la rivincita, mio povero amico, — rispose Than-Kiù. — Le occasioni non mancheranno di certo.
— Lo spero. Buona notte, mia dolce amica e che Budda ti guardi. —
I due chinesi si ritirarono nella capanna, chiudendo accuratamente la porta e rinforzandola internamente con due sbarre di legno, ed il malese e la giovanetta aguzzarono gli occhi verso la tenebrosa foresta, tenendo il dito sul grilletto delle carabine.
Al cicaleccio dei pappagalli ed alle grida discordi delle scimmie era succeduto un profondo silenzio. Solo, di quando in quando, il cadere di qualche ramo secco attraverso il fogliame o il capitombolare rumoroso di qualche frutto già maturo, facevano trasalire i due cacciatori in agguato.
Ben presto degli strani e misteriosi rumori ruppero bruscamente quel silenzio pauroso. Ora pareva di udire dei sospiri repressi, come se delle anime inconsolabili vagassero sotto la tenebrosa foresta; poi echeggiava bruscamente una salva di fischi o uno scoppio di strida, quindi tutto taceva per alcuni minuti.
Poco dopo ricominciavano i rumori; dei rami scricchiolavano come se degli animali cercassero d’aprirsi il passo fra i cespugli, le foglie secche accumulate sotto gli alberi scrosciavano, poi si udiva uno starnazzare d’ali, qualche grido soffocato, qualche miagolìo di gatti orsini o di gatti selvaggi, poi ancora tornava il silenzio.
Il malese e la giovanetta, inginocchiati l’uno accanto all’altra, essendo la buca poco profonda, col volto appoggiato ai rami che li difendevano, ascoltavano con profondo raccoglimento e spiavano ansiosamente gli alberi ed i cespugli vicini.
Il fuoco acceso da Sheu-Kin si era spento, ma intorno alla buca ondeggiava ancora il fumo fetente del grasso gettatovi sopra per allettare l’ingordigia delle due pantere. Pure pareva che le due sanguinarie fiere non avessero nessuna fretta a mostrarsi.
Ad un tratto però, l’udito acuto del malese distinse una nota sommessa, come soffocata, che pareva fosse partita dalla parte della capanna.
— Vengono, — mormorò agli orecchi di Than-Kiù.
— Le pantere? — chiese questa.
— Sì.
— Non ho udito nulla.
— Le hariman non hanno la voce forte come le tigri, anzi a trenta metri non si ode più il loro grido.
— Le vedi?...
— Non ancora.
— Che assalgano prima la capanna?...
— L’odore del grasso bruciato le attirerà qui, sta’ tranquilla. Ti raccomando di non far fuoco che a colpo sicuro poichè se falliamo, si getteranno su di noi e faranno di tutto per smuovere i rami e prenderci.
— Sono adunque così terribili?
— Più audaci e più risolute delle tigri. Quasi mai fuggono, nemmeno se si vedono strette da tutte le parti. A Giava ho assistito sovente alle lotte che quei rajah fanno sostenere ai loro lancieri per agguerrirli ed ho veduto delle pantere scagliarsi contro duecento e più uomini armati. Hanno lo slancio più pronto e più deciso delle tigri e perciò sono più pericolose. Toh!... Odi?... —
Una nota breve, bassa, che sembrava un sordo mugolìo erasi udita dalla parte della capanna.
Than-Kiù accostò il viso ad una apertura e guardò attentamente in quella direzione. L’ombra proiettata dalle smisurate foglie dei vegetali le impediva di discernere qualsiasi cosa, tanto più che la luna non era ancora sorta.
— Con questa oscurità non sarà cosa facile colpirle, — disse.
— Verranno vicine, — rispose il malese. — Ah!... L’hai udito rompersi un ramo?...
— Sì, Pram-Li.
— Si avvicinano a noi.
— Sono pronta a riceverle.
— Taci!... Un altro ramo si è spezzato!...
— Ed odo le foglie agitarsi dinanzi a noi.
— Che si preparino ad assalirci da due parti? — mormorò il malese, con inquietudine.
— Non importa, Pram-Li. Tu pensa a quella che si è fatta udire presso la capanna ed io mi occupo dell’altra. —
Un altro grido gutturale risuonò più vicino, poi il malese e Than-Kiù videro confusamente una massa nera che usciva da un gruppo di cespugli, lontano dalla buca trenta o quaranta passi.
Pram-Li ebbe un brivido.
— La pantera nera, — mormorò.
— La vedo bene e la prendo di mira, — rispose Than-Kiù. — Vedi l’altra?
— Non ancora.
— Occupiamoci adunque di questa, pel momento. —
La pantera nera si era arrestata presso la macchia di cespugli, coi quali si confondeva, però fra le tenebre si vedevano scintillare i suoi occhi verdi a lampi fosforescenti e quegli occhi erano proprio fissi sull’ammasso di rami e di foglie che coprivano la buca. Certamente la sanguinaria belva aveva già fiutata la preda umana e prima di farsi innanzi, voleva accertarsi dove si nascondeva.
Than-Kiù aveva passata la canna della carabina fra i rami, procurando di non fare il menomo rumore, e l’aveva presa di mira, imponendo fermezza al tremito dei suoi nervi.
Già stava per far partire il colpo, quando udì piombare sui rami che la riparavano una massa pesante, e quindi un rauco brontolìo.
Il malese aveva mandato un grido di terrore e con uno sforzo violento ma rapido, aveva costretta la giovane chinese a piegarsi contro il fondo della buca.
— Cos’hai?... — Chiese Than-Kiù, con accento spaventato.
— È piombata su di noi la pantera gialla, — rispose Pram-Li. — Non alzarti o sei perduta. —
La compagna della pantera nera erasi slanciata sopra la buca, sperando forse di poter stringere di colpo la preda; invece si era trovata separata da essa da quell’ammasso di grossi rami disposti in modo da non permetterle il passaggio del corpo.
Furiosa per quella delusione, l’hariman-bintang cacciò le zampe attraverso quei fori, cercando di afferrare le teste dei cacciatori, e non riuscendo nemmeno in ciò, si mise a rimuovere gli ostacoli con crescente rabbia.
In quell’istante dalla parte della capanna rintronò una detonazione, tuttavia la pantera, per nulla spaventata, continuò a lavorare d’artigli.
Pram-Li e Than-Kiù non avevano perduta la testa. Passato il primo istante di terrore, avevano puntate in alto le carabine.
L’hariman ne afferrò una fra i denti cercando di schiacciarla o di strapparla, ma i due colpi partirono quasi simultaneamente.
La fiera, col capo fracassato, fece un balzo in aria, poi la si udì cadere pesantemente al suolo, dinanzi alla buca.
— È morta!... — si udirono a urlare Hong e Sheu-Kin.
Than-Kiù mosse alcuni rami e guardò fuori cercando cogli sguardi la pantera nera. Questa, forse spaventata da quelle detonazioni e per la morte della compagna, era scomparsa.
— Non vedo più l’altra, — disse.
— Credo che ne abbia avuto abbastanza e che non tornerà più ad importunarci, — rispose Pram-Li. — Usciamo di qui. —
Rovesciarono i rami ed aiutandosi l’un l’altro si slanciarono all’aperto, dove s’incontrarono con Hong e Sheu-Kin, che si erano affrettati a uscire dalla capanna.