I suicidi di Parigi/Episodio secondo/II
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II.
Il giorno delle nozze.
Il generale principe Paolo di Lavandall era venuto a Parigi nel 1815 con gli eserciti confederati stranieri.
Alla corte di Luigi XVIII, egli aveva conosciuto Paolina, figlia maggiore del duca di Saint-Cassan, amica intima della famosa nipote del principe Talleyrand.
Paolina non era così bella che la duchessa di Dino, ma era altrettanto ardita ed intraprendente. Si susurrava chiotto chiotto nei saloni che ella arrivava dove altre, infinitamente più belle di lei, non avrebbero osato collocare neppure una speranza, e che, aggiungendo la vivacità caustica del suo spirito e la distinzione delle sue maniere ad una solida istruzione, spigolata nell’esilio, ella avrebbe potuto pretendere a passare per letterata — se non avesse preferito di essere una civetta.
Il principe di Lavandall s’invaghì di lei e la sposò.
E si fece correre il rumore che l’imperatore Alessandro — il quale l’aveva veduta a Vienna, in casa del principe di Talleyrand — lo avesse spinto alle nozze.
Di questa unione, dopo un anno o due, nacquero due gemelli: Pietro ed Alessandro di Lavandall.
Pietro, venendo al mondo il primo, godè del rango di primogenito, e, poco dopo, del titolo e dei diritti della sua nascita, alla morte del padre.
Quantunque gemelli, i due bambini si rassomigliavano poco.
Al fisico, la dissomiglianza consisteva unicamente nella gradazione del colore dei capelli — cui Pietro aveva scuri e Alessandro di un biondo dorato — e forse anche nel colorito — cui il primogenito aveva pallido ed il cadetto molto animato. Ma al morale, questa dissomiglianza era più profonda.
Pietro era un sognatore. Egli amava la solitudine; aveva un carattere fermo; un coraggio freddo; una grande tenacità di volontà. E’ si mostrava poco aperto. Più esatto al compito cui si assegnava egli stesso che a quello cui gli si avrebbe voluto imporre. Poi, calmo fino alla mollezza.
Alessandro, all’incontro, era rumoroso, metti-brighe, pigro. Sempre dietro a gonne di pettegole, con le mani nelle cameriere. Sempre a bisdosso di un cavallo, od un fucile alla mano. Abborriva i libri. Amava la danza; folleggiava per i piaceri; dava volentieri degli scappellotti; e quando non lo si trovava nei boschi a snidare gli orsacchi, i lupi, i nidi di aquila, si era certi trovarlo nella sala d’armi.
Questa differenza di gusti e di costumi non impediva che i due fratelli si amassero teneramente. Però per cagione appunto di questa differenza, per spirito di antitesi, il padre — il quale aveva identicamente il carattere del suo cadetto — preferiva il primogenito, e la madre — la quale, una volta maritata ed allontanata dalla corte, era divenuta una donna seria ed ambiziosa — ammattiva pel figlio cadetto.
Al suo ritorno da Parigi, il principe Paolo aveva concepito qualche sospetto sulle inclinazioni dello tzar Alessandro per sua moglie. Erasi quindi dimesso dal servizio militare e si era ritirato nelle sue terre. Fu mestieri, per conseguenza, che sua moglie ve lo seguisse e vi restasse tanto ch’ei visse.
Dopo la morte di lui, però, la principessa — che aveva subito la solitudine come una punizione — prese tosto la risoluzione di recarsi a corte, ove la nuova Tzarina, dopo la morte di Alessandro, le aveva mantenuto il grado di dama d’onore, ed aveva fatto ammettere suo figlio Alessandro come paggio dell’imperatore Nicola.
La principessa Paolina voleva condurre con lei anche il figliuolo primogenito.
Pietro, oggimai il principe Pietro, le manifestò il suo desiderio di partire per l’Alemagna.
— E che vuoi tu andar a fare in Germania, all’età tua? — dimandò la madre.
— Visitare le università e studiare.
— Ah! — sclamò la principessa.
— Ma ad una condizione — riprese il principe Pietro.
— Bravo! ecco delle condizioni, adesso.
— A due condizioni, anzi, se vi piace, madama — continuò il principe.
— E quali? mio signor principe, se tuttavolta degnate comunicarle — chiese la principessa, ammiccando di un’aria ironica.
— Primo, di sgabellarmi del mio istitutore, e di viaggiare accompagnato da un solo cameriere.
— Benissimo. Quel povero padre Toufferel v’imbarazza dunque, o non sa egli abbastanza?
— Sa anzi troppo. Però, io non voglio più gesuiti intorno a me.
— E secondo?
— Secondo, di vivere affatto libero e padrone delle mie azioni. Io so chi sono e dove vado.
Queste dimande parvero strane, sopratutto al padre Toufferel — il quale governava la testa ed il cuore della principessa, oltre la coscienza di lei.
Si oppose un rifiuto perentorio.
Il giovane principe ricusò a sua volta di ricevere ulteriormente il gesuita, e protestò a sua madre che non si sarebbe recato a Pietroburgo che trascinato dalla forza.
— E perchè?
— Perchè io non voglio disobbedire, come voi disobbedite, madama, ai desiderii, agli ultimi ordini di mio padre e del vostro marito e signore.
Quest’attitudine colpì la principessa, e diede a riflettere al gesuita.
La principessa — che andava alla corte per godere della sua libertà — vide di uno sguardo ch’ella vi menerebbe seco un testimone uggioso delle sue azioni, e più tardi — quando il giovine principe avrebbe raggiunto i suoi diciotto anni, età determinata dal padre per la maggiorità di lui — un padrone severo.
Si lasciò dunque piegare.
Il gesuita calcolò più freddamente: che valeva meglio conservare la direzione della donna che l’educazione del garzone refrattario.
E Pietro partì per la Germania, il giorno stesso in cui sua madre ed il confessore partivano per Pietroburgo.
La vita del buchschaft esercitò sopra Pietro come un incanto.
Potendo pagare dei professori liberi, non si sommise alla severa disciplina della massoneria delle università germaniche. Non accettò dello studente che ciò che gli piacque — vale a dire l’abito, le maniere, la vita di studio mista alle dissipazioni, le libere aspirazioni, i vaneggiamenti elevati — quella mischianza, insomma, di metafisico e di artista che si trova accoppiata negli allievi istruiti delle scuole tedesche.
Non s’imbragò guari nè in teologia, nè in diritto, nè in pedagogia. S’innamorò invece dello studio della fisiologia, della chimica, della fisica. Poi, per una tendenza verso il soprannaturale che gli era propria, si cacciò capo giù nelle scienze mistiche e nelle speculazioni ermetiche.
Il professore di Tubinga, che lo dirigeva, era forte addentro a queste scienze e vi credeva coscientemente.
Il carattere di Pietro, di già sì serio, addivenne quinci in poi più grave e più scuro.
Un incidente lo immerse affatto nella tristezza.
Un giorno, a Heidelberg, e’ venne a parole con uno dei suoi amici, a proposito d’una ragazza incontrata in un ballo. Si batterono alla spada. Si batterono da bravi. E sì bravamente, che, al terzo assalto, caddero entrambi nel medesimo tempo: Pietro, per svenimento; il suo avversario passato fuor fuori.
Ciò fu fatale al giovane principe di Lavandall.
La sua salute si alterò. La sua pallidezza aumentò di giorno in giorno. I suoi occhi perdettero il bagliore della giovinezza. Le sue guance smagrirono. I suoi lineamenti, completamente alterati, divennero di un tratto più maturi. Breve, l’insieme di sua figura acquistò un cotal che di strano e di turbato.
E’ se ne penetrò, e s’impose per conseguenza un grande riserbo, una solitudine quasi completa. Evitò perfino le occasioni delle grandi emozioni.
Aveva torto? No.
No, perchè una sera, avendo ceduto all’attrazione di vedere il Wallenstein di Schiller, alle ultime scene del dramma, il suo cameriere lo raccolse svenuto nel suo palco.
Lasciò dopo di ciò la Germania, ed andò a Parigi.
Pietro di Lavandall aveva allora ventitrè anni.
Il dottore di Nubo gli consigliò di abbandonare lo studio, che ruinava la sua salute, e di addarsi alla vita elegante ed agli esercizi signorili dello sport.
Il principe lasciò quindi il nome d’imprestito, assunto in Germania, e si recò da suo avolo sotto il suo vero nome.
Il duca di Saint-Cassan presentò il principe alle Tuileries, ed a quella parte della aristocrazia francese che aveva accettato la monarchia democratica. Per il suo nome però, per il suo titolo, per i precedenti di suo padre, egli fu ricercato altresì e carezzato nei saloni dell’aristocrazia ribelle del Faubourg Saint-Germain.
La principessa di Lieven lo mise alla moda in mezzo al mondo dell’intelligenza.
Il principe di Lavandall era, oltre a ciò, ricchissimo, bel giovane, dalle maniere squisite, ma poco inchinevole verso il mondo e che, per ciò appunto, rilevava la persona a cui e’ si piaceva interessare. Aveva un carattere eguale e fermo, e di una elevatezza costante nei sentimenti.
In una parola, a ventitrè anni, il signor di Lavandall era ciò che addimandasi un uomo serio, con cui è d’uopo contare, sia che prenda parte a qualcosa, sia che si astenga.
Infine, era affettuoso nel fondo, ed eccessivamente sensibile.
Il re Luigi Filippo gli dimandò una sera perchè non abbracciasse la carriera diplomatica.
— Perchè, sire, — rispose Pietro — il principe di Metternich ed il principe di Talleyrand àn fatto della diplomazia una mariuoleria elegante, ed i ministri di V. M. un’ingenuità pomposa.
— Ne siete voi ben sicuro? — disse il re, volgendo il dorso senza aspettare la replica.
S. M. rinculava innanzi alla spiega della frase ingénuité pompeuse, troppo, troppo cortigiana!
— Gli è un curioso giovane il vostro parente cosacco, signor duca — disse il re al signor di Saint-Cassan.
— Avrebbe spiaciuto a V. M.? — dimandò costui.
— Non bazzica egli dunque il mondo?
— Pochissimo, sire. E ciò che è più singolare, non à contratto alcun legame, nè con i giovani della sua età e della sua condizione, nè con gente di altra sorte.
— Non à desso un palco agl’Italiani ed all’Opéra?
— Sì, sire. Ma vi si mostra di raro, per qualche minuto solamente, e sempre solo.
— Non accetta inviti a pranzo?
— Neppure dal suo ambasciadore.
— Non si mostra ai balli?
— Solo per farvi un atto di presenza indispensabile, e di cui sarebbe impossibile astenersi. Ma non balla mai. À pranzato due volte sole al club, durante l’inverno, ed è passato tre volte pel Bois.
— À bei cavalli?
— I più belli che si siano veduti mai a Rotten-Row, a Londra.
— Giuoca allora?
— Lo si è visto, all’ambasciata d’Inghilterra, perdere tre o quattro mila luigi al whist — parlando di scimie col barone di Humbold, assiso accanto a lui.
— Ma allora che si dice di lui? — chiese il re, il quale aveva forse una ragione ad un’altra in questa investigazione persistente e minuta.
— La vita del principe, sire — rispose il signor di Saint-Cassan — non à nulla di apparente, e quindi nulla che possa dar presa alla maldicenza od alle congetture. Le donne sono intrigate di questo mistero che traversa i saloni. Gli uomini son tenuti in distanza da quel ghiaccio e da quella riserbatezza. Tutto al più, sire, taluno si permette dimandarsi a voce bassa: perchè quella specie di misantropia in mezzo a tanta opulenza di favori della natura? perchè quell’aria stravolta in un sembiante che attira la simpatia? E non si va più innanzi, sire. Perchè un conte italiano, la settimana scorsa, essendosi permesso di domandargli se non fosse malaticcio — con quel pallore sì intenso e quella tristezza sì costante — il principe gli dette del guanto sul muso, ed il dì seguente l’uccise in duello, di un colpo di pistola. E, cosa strana, sire! egli cadde svenuto nelle braccia del conte di Nubo — il quale era nel tempo stesso il suo medico ed il suo unico testimone.
Luigi Filippo ne sapeva abbastanza per ricusarlo come segretario dell’ambasciata di Russia.
Si era discorso di ciò, pare, alla corte di S. Pietroburgo, e lo si era ripetuto nei saloni della principessa di Lieven.
Si vide però il principe di Lavandall prolungare, una sera, più tardi che di costume, la sua presenza al ballo in casa del duca di Luxembourg, e spingere la compiacenza fino a ballare con la signorina di Perceval, a cui la duchessa lo aveva presentato.
Il conte di Perceval aveva passato la sua vita nell’emigrazione, vi aveva mangiato il resto del suo patrimonio — cui Bonaparte gli aveva restituito, — e sciupato con una ballerina la sua parte del miliardo, cui i Borboni avevano avuto cura di fargli ben pingue, per compensarlo della sua fedeltà.
Questo conte non aveva voluto udire a parlare del ramo cadetto — gli Orléans — e viveva adesso di una dotazione sui fondi secreti di Roma, cui il cardinale Lambruschini gli aveva fissata, in considerazione dei servizi che aveva resi al partito cattolico.
Il conte di Perceval si era ammogliato, dopo la Ristaurazione, per piacere alla signora di Cayla per meglio servire la Congregazione. Di questo matrimonio aveva colto, o raccolto, la bella personcina che aveva danzato col principe di Lavandall — la signorina Antonietta di Perceval.
Senza essere proprio sciocca, madamigella di Perceval — forse per timidità esagerata — s’imponeva una grande sobrietà di risposte, un grande riserbo di giudizi. Di guisa che passava per fanciulla di poco spirito, e desolava coloro i quali, per cortesia, si trovavano obbligati a chiaccherare con lei. Malgrado ciò, e forse a causa di ciò, dopo quella sera, dovunque Antonietta di Perceval andò, il principe russo si mostrò anch’egli.
Secondo la sua abitudine, non prolungava di molto la sua presenza nei saloni. Ma, durante il poco tempo che vi restava, alcun’altra persona non aveva il privilegio di disputarlo alla signorina di Perceval. Breve, le cose giunsero al punto, che si cominciava a dimandarsi se non si fosse caduto in inganno nell’apprezzamento dello spirito di quella giovinetta.
Di un tratto poi il rumore si sparse, che madamigella di Perceval sposava il principe di Lavandall.
— Scherzate voi?
— Il duca di Saint-Cassan à fatto la dimanda di matrimonio ed è stata gradita.
— Impossibile.
— Gli è il duca stesso che me lo à detto.
— Ed a me il conte.
I commentari cessarono. Lo stupore però non cessò.
Infrattanto si preparava il cesto da nozze.
La duchessa di Saint-Cassan e la sua cugina, la vecchia contessa di Cars, non si accordavano riposo — tanto l’impazienza del giovane principe era grande. La domenica seguente si fecero i tre bandi a S. Tommaso d’Aquino. Gl’inviti si spiccarono.
Due giorni più tardi, incontrandosi nei saloni dei Faubourg, la gente si diceva, di un tuono dolce ed insinuante:
— Non sapete? Il matrimonio di Lavandall è ito in malora.
— Come! rotto?
— Positivamente.
— Impossibile.
— Sì vero, che il principe è partito per Roma.
— Via, via! l’ò visto ieri sera, ed abbiamo anzi parlato dei suoi sponsali.
— Ciò può essere. Pertanto, ieri sera stessa, egli ebbe un colloquio col suo futuro suocero. La conversazione fu corta e secreta. Dopo che, il conte di Perceval, pare, ritirò la sua parola — ed il principe è partito stamane.
— Tutto codesto è vero — intervenne a dire il conte di Nubo. Il povero conte francese ha rifiutato la mano della sua figliuola al ricco principe russo. E questi corre le poste in questo momento sulla strada di Marsiglia. Che occorse egli fra quei due uomini? Alcuno nol sa; neppure la fidanzata. Alcuno nol saprà mai, forse.
Lo scacco subito, i commentari ingiuriosi che ne seguirono e circolarono, ferirono al vivo il principe di Lavandall. Visse a Roma un anno, senza vedere un’anima, tranne papa Gregorio XVI — che era un maiale — e che lo ricevè una volta ed andò a visitarlo due, nella di lui villa vicino Albano.
Il papa vi pranzò anzi, perchè Gregorio amava desinar bene, ed in casa Lavandall si faceva lauta mensa.
In questo frattempo, la madre del principe — la quale si era rimaritata ad un giovane conte polacco — capitò a Roma ed andò ad istallarsi in casa del figlio, verso il Pincio.
Tutto al contrario del principe di Lavandall — che scansava il mondo — la madre lo attirava intorno a lei a grossi fiotti.
Il principe Pietro si trovò di nuovo, dunque, malgrado lui, in mezzo alla società. La collera, del resto, era passata; il cordoglio si era calmato.
Egli cominciò, nonpertanto, a trovare i balli dei principi romani insopportabili; i desinari dei cardinali grossolani; gli spettacoli stolidi. Le feste di sua madre lo stancavano meno. Imperciocchè, se sua madre invitava l’aristocrazia romana e straniera, egli invitava nel tempo stesso, da parte sua, gli artisti e gli scienziati.
Ecco come codesto era avvenuto, con grande scandalo delle principesse romane — le quali non ricevono gli artisti ed i letterati che nei loro boudoir, dicesi, in un’altra camera più particolare, dicevan dessi.
Per fare eseguire un busto di suo padre, il principe Pietro aveva visitato lo studio di uno scultore francese, Filippo Mortier, che gli era stato indicato come uomo di rara abilità. Andando all’atelier, gli era capitato due o tre volte di non trovarvi lo scultore. Però aveva parlato con la sorella di lui, madamigella Aurora — la quale pingeva il ritratto in miniatura della principessa di lui madre — oggi contessa Soblowiski.
Madamigella Aurora, a vero dire, lasciava molto a desiderare, quanto a capacità d’artista. Ma ella pigliava il passo e precedeva di più tappe, anche le donzelle le più felicemente dotate, quanto a spirito ed a bellezza.
Ella ne aveva più, di entrambi, che tutte le principesse romane fuse insieme.
Il principe di Lavandall — forse contrariato la prima volta di non incontrare lo scultore e d’incontrare sua madre — ne fu ammaliato la seconda volta. Di poi, egli non si recò più allo studio che quando Filippo e la principessa non vi erano.
Il principe Pietro invitò alle sue feste lo scultore e la sorella, e qualche altro artista di Roma.
Arrivò ciò che era inevitabile.
Il principe — anima tenera ed affettuosa, uomo solitario e di natura timida — s’infiammò di madamigella Aurora, la quale, scaltraccia! restò ben calma da parte sua. Gli era in ogni modo savio, nel posto di quella savia damigella. Imperciocchè, che poteva ella aspettarsi dal principe di Lavandall, se non di divenire la sua amica?
Ora, quale non fu il suo stupore quando, un giorno, suo fratello le disse:
— Doh! la bella, tu non sai?
— Che mò?
— Indovina.
— Il papa à partorito.
— Ciò si è visto. Meglio ancora che codesto, birbaccia.
— Oh! oh!
— Io ti dò marito.
— N’era tempo, m’immagino.
— Forse. Ma, che mi affoghi, Satana! se tu avessi aspettato ancora dieci anni non avresti trovato di meglio.
— Lasciamo i se avessi ed avresti, e parla tondo. Con chi mi mariti tu? Con Pasquino?
— Ambiziosa! Sali ancora.
— Fino a che piano?
— Scendi al primo.
— Ci siamo. Con chi dunque?
— Col principe di Lavandall.
Aurora scoppiò in un immenso scroscio di riso.
— Gli è pertanto vero, giuro a Dio! — sclamò lo scultore. Quell’originale, mica più tardi che stamane, à avuto l’onore di dimandarmi la tua mano.
— Destra o manca?
— Ti porti il diavolo.
— E tu?
— Io ò risposto che tu eri la più milensa artista di Roma.
— Insolente. Ed egli?
— Egli à replicato... Indovina.
— Peste sia del tuo indovina! — scoppiò Aurora.
Vi era nello studio un pezzo di specchio. Madamigella Aurora lo avvicinò con grande serietà agli occhi suoi, e, dopo aver contemplato per alcuni secondi i suoi lineamenti stupendi, soggiunse, di un’aria fra il serio ed il comico, imitando la voce del principe:
— E perchè no, al postutto? Egli à risposto: madamigella Aurora è la più milensa artista, voi dite, signore? Io me la fumo! Ella è, in ogni caso, la più bella fanciulla di Roma.
— Alla lettera, sillaba per sillaba! — sclamò lo scultore.
— Egli à dello spirito, allora — replicò Aurora con la gravità di un giudice.
E si lasciò amare.
Chi non avrebbe fatto altrettanto?
Ma, una volta il fratello cacciato dentro nella cosa; una volta il motto magico di matrimonio pronunziato; bisognava venire a una conclusione. La modesta damigella voleva strombettare il proposito, parlare alla madre del principe, riempirne Roma e le quattro parti del mondo — come diceva papa Gregorio — che s’intendeva più di trippe alla milanese che di geografia. Prima di spingere le cose fin lì, il principe chiese un colloquio ad Aurora onde comunicarle i suoi pensieri.
Il colloquio ebbe luogo.
Fu corto.
L’indomani dicevasi per Roma:
— Il principe di Lavandall è partito stanotte!
La notizia era vera.
Aurora gli aveva negata la sua mano.
Un anno era scorso da questo avvenimento, ed abbiamo visto come il principe Pietro di Lavandall, due volte respinto — una volta dal padre della fidanzata, una volta dalla fidanzata ella stessa — si fosse poscia deciso a cercarsi una moglie in un ospizio di trovatelli — senza consultare le inclinazioni della fanciulla.
Una zia del principe era venuta di Alemagna — ove era prima dama d’onore della regina di Würtemberg — ed aveva condotta seco la giovinetta in Lamagna.
La sovrana l’aveva nobilitata.
Di guisa che, un anno dopo la scena dell’ospizio di Londra, in tutta la Parigi aristocratica si ripeteva la notizia che il principe di Lavandall sposava la contessa Maud di Walenheim.
Il matrimonio doveva aver luogo a Parigi nella chiesa protestante della strada d’Aguesseau.
Tutto era pronto nel palazzo del principe, ove la zia aveva condotto la fidanzata.
Si terminava la toilette delle nozze. Gli amici, i parenti, riempivano i saloni. Il principe entrò nella camera della zia — ove Maud si teneva, attorniata da cameriere — e dimandò che lo si lasciasse un istante solo con costei.
La zia e le cameriere uscirono.
Maud si guardava intorno con un’intensa timidità.
Pietro la prese per le mani, la guidò ad un canapè, e, facendola sedere, cadde alle ginocchia di lei.
— Maud — diss’egli, riprendendo nelle sue ambe le mani dalla fanciulla — angelo mio diletto, ascoltami.
Maud provò a rialzarlo, senza rispondere. Il principe restò e continuò:
— Per soddisfare alle leggi del mondo, andremo a presentarci or ora innanzi ad un altare, ove un prete benedirà la nostra unione. Ciò vi lega, voi, perchè quel prete è il vostro; il Dio di quell’altare è quello cui voi adorate e che vi à fatto così bella. Io, non sarò legato...
— Perchè dunque, signore? — dimandò Maud timidamente.
— Perchè il dio mio è un altro che il vostro, ed il mio Dio non à sacerdoti. Ma gli è dinanzi a voi che io vado a prestar giuramento; io vado ad impegnare a voi la mia vita. Accettatemi contessa Maud di Walenheim.
— Mio signore, voi avete dunque obliato che mi tiraste dal Foundling hospice di Londra?
— Eh! che importa donde io vi abbia cavata, mio bell’angelo! — riprese il principe. Le creature come voi vengono dal cielo. Chi si preoccupa del luogo ove giaquero le perle e i diamanti che adornano il vostro collo? Io vi amo, Maud. Io vi amo tanto quanto una creatura sulla terra può amare.
— Grazie — sclamò la giovinetta in uno slancio di riconoscenza, levandosi impiedi e rilevando il principe. Voi mi date più che io non avrei giammai osato di chiedere, più che non avrei giammai osato sperare: grazie, grazie, grazie!
— Io non vi dò nulla — continuò il principe, portando le mani della fanciulla sul suo cuore — e non vi domando nulla ancora. Il mio nome, le mie ricchezze, il mio cuore, certo, nella bilancia del mondo meritano qualche considerazione. Per me, tutto codesto non à valore alcuno. Ma voi, vi siete voi dimandata, perchè io mi andassi a cercare in una terra straniera, fra le fanciulle abbandonate, la moglie a cui volevo dar il mio titolo, la mia opulenza, il mio amore?
— Sovente — rispose la giovinetta.
— E vi rispondeste?
— Io nono ancora nelle tenebre, e...
— E?
— O’ paura, ma ò fede: temo, ma credo.
— Ebbene — sclamò il principe — il giorno in cui lo saprete, il giorno in cui dovrete giudicarmi, Maud, ve ne supplico a ginocchi, siate indulgente. Innanzi di pronunziare la prima parola che vi verrà alla bocca, fermatevi, guardate il cielo... e forse mi aprirete le braccia e direte: io vi perdono!
— Voi mi spaventate — mormorò la contessa tremando.
— No, figliuola mia. Imperciocchè voi non avete alcun delitto a perdonare, neppure una colpa.
— Ma allora?
— Allora vi sovvenga che potrete versare la felicità in una esistenza, riparare l’ingiustizia o il gastigo di Dio...e che vi amo. Sì, io vi amo.
— Oh! se potessi comprendere! — sclamò Maud con un movimento istintivo d’ingenuità.
— Se volete comprendere, e non credere, io mi spiego — rispose il principe con impeto. Ma ve ne supplico ancora, abbiate confidenza. O’ voluto parlarvi per dimandarvi questa grazia. Io transigo sul mistero della vostra nascita. Abbiate pietà del dolore della mia vita.
Maud si tacque per due minuti, poi chiese:
— Voi nascondete dunque un segreto?
— Sì.
— Se io avessi una madre, glielo rivelereste voi?
— Senza esitare.
— E quale sarebbe la condotta ch’ella terrebbe in questo caso?
— Un padre mi rifiutò la mano di sua figlia.
— Che condotta, credete voi, terrei io stessa, se mi parlaste?
— Un’altra donna, in una situazione identica, mi respinse.
Seguì un momento di silenzio.
Maud bassò gli occhi, mentre i colori si alternavano sul suo sembiante. Poi, alzandosi di un tratto, ella disse con una grande solennità, quasi la fosse nata in un castello:
— Principe di Lavandall, voi avete richiesta la mia mano?
— La vostra mano oggi, — rispose il principe con una specie di sussulto — domani...
— Il domani appartiene a Dio, signore — replicò la giovinetta di un’aria ispirata. Principe di Lavandall, eccovi la mia mano.
— Grazie, angelo del cielo! — sclamò il principe al colmo dell’entusiasmo.
— Tutto ciò che una donna può impartire, principe di Lavandall, io ve lo dò. Divozione, fedeltà, sommissione, sacrificio, fede... io metto tutto ai vostri piedi. Voi m’introducete alla vita. La mia vita, a partir da oggi, vi appartiene. Entrando nel vostro focolaio, io non lascio nulla dietro a me — nulla, che dei vaneggiamenti! Voi siete tutto per me, passato ed avvenire, parenti e sposo, la terra tutta intera: mia madre!
— Basta, Maud — fece il principe. Voi obliate però una parola, fra tutto codesto. Ora, se questa parola, che voi obliate adesso, la ritroverete giammai nel vostro cuore, ditemela! perchè giammai un uomo non avrà tanto studiato di sì ben meritarla che me. L’amore non si fabbrica, nasce.
E dicendo ciò, prese la mano della sua fidanzata e vi appoggiò per la prima volta le labbra.
Poi entrò nel salone con lei.
Il viso del principe portava lo stampo di un grande esaltamento. I colori vi andavano e venivano come le onde sulle rive dell’Oceano. Un sudor freddo perlava la sua fronte. Le sue mani erano madide e ghiacciate. Un sordo tremolio alterava la sua voce.
Si andò alla chiesa.
Il principe sollecitava dello sguardo la fine dalla cerimonia. Il mondo gli turbinava d’intorno.
Gli sponsali compiuti, i suoi muscoli, la sua anima, si rilassarono. Il suo sguardo, sempre commosso, divenne più sereno; la sua respirazione più eguale. Stringeva la mano di sua moglie in una convulsione di inebriamento.
Il dottore di Nubo, che era naturalmente fra i numerosi invitati, e seguiva degli occhi ansiosi le alterazioni di quel viso, trovò modo di guizzare fino a lui e di susurrargli all’orecchio:
— State forte contro voi stesso; stecchitevi, principe, e ritornate all’istante a casa.
Il principe trascinò quasi sua moglie, e gittandosi nella sua berlina di viaggio — che li doveva condurre dritto nella Svizzera — ordinò all’intendente:
— Fate il giro dei boulevards esterni, e ritornate al palazzo.
Poi bassò le tendine e cadde ai piedi di Maud. Questa non capiva nulla a quell’agitazione, a quelle contraddizioni, ai contrordini. Agitata, sorpresa, aspettava.
Il tatto di quella mano di donna amata calmò il principe.
Egli non pronunziò una parola e s’inebriò degli sguardi druidici di Maud — la quale, a sua insaputa lo magnetizzava.
Il palazzo di Lavandall — ove il principe non era atteso, dovendo egli partire per la Svizzera uscendo di chiesa — era quasi vuoto. Pietro condusse la sposa nei suoi appartamenti e chiuse la porta.
Le otto scoccavano.
L’appartamento era rischiarato da un fioco riflesso di luna, che penetrava dai balconi. L’aria era imbalsamata del profumo dei fiori che riempivano le giardiniere.
Un silenzio completo e fitto regnava tutto intorno. Uno strato di neve, spolverato sugli alberi del giardino e sulle aiuole, faceva trovar delizioso il soave calore dell’appartamento.
La figura di Maud, tutta vestita di bianco; la sua corona di fiori bianchi sulla ricca capigliatura bionda; la pallidezza cui le cagionava una strana emozione; la luce bianchiccia della luna che cadeva a piombo su lei dall’alto di un balcone, le davano qualche cosa di fantastico. Era una delle più belle visioni che avessero mai sfiorato l’immaginazione di un poeta.
Il principe di Lavandall la contemplava con occhi febbrili, smarriti; era agitato da un brivido straordinario.
Il suo viso era contratto. Le sue labbra, di un pallore spaventevole. Egli aprì di un tratto le braccia; allacciò sua moglie in una stretta convulsiva; le dette il primo...l’ultimo bacio! sulle labbra. Poi, la dietrospinse con un’estrema violenza, facendo uno sforzo terribile per snodare le sue braccia dalla vita della giovinetta — che si sentiva scricchiolare le ossa, spezzare e soffocare.
Ella andò a cadere sur un divano. Egli stramazzò per terra, svenuto.
Stravolta, smarrita, Maud non pensò neppure a chiamar aiuto.
Aprì il balcone per dar aria.
Un raggio brillante di luna, che si sprigionava da due nuvole, bagnò il sembiante del principe.
Maud rinculò spaventata.
Quel sembiante sì nobile testè, quei lineamenti sì belli, erano accartocciati da un’orrida convulsione. Le labbra spandevano una schiuma livida e sanguinolenta. Gli occhi rotavano ferocemente nelle orbite. Tutto il viso si copriva di una pallidezza lurida, piombiccia, schifosa a vedere.
Il principe era epiletico1.
Maud, spaventata, andò a rifugiarsi in un attiguo gabinetto, e pregò.
Due ore dopo, il signor di Lavandall rinvenne in sè. Si guardò attorno: era solo in mezzo alla tenebre, e... vedovo!
— Vedovo! — sclamò egli infatti, cercando dello sguardo e del desiderio la moglie.
E ricadde nel parossismo.
Note
- ↑ Questa malattia non fa tanto orrore in Italia, dove si è visto Pio IX, l’imperator Ferdinando d’Austria e Ferdinando II di Napoli portarla sul trono. Nel resto d’Europa, la è considerata nel senso d’irresistibile repugnanza orrore e disgusto con cui è pinta in questo racconto.