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— Egli à dello spirito, allora — replicò Aurora con la gravità di un giudice.

E si lasciò amare.

Chi non avrebbe fatto altrettanto?

Ma, una volta il fratello cacciato dentro nella cosa; una volta il motto magico di matrimonio pronunziato; bisognava venire a una conclusione. La modesta damigella voleva strombettare il proposito, parlare alla madre del principe, riempirne Roma e le quattro parti del mondo — come diceva papa Gregorio — che s’intendeva più di trippe alla milanese che di geografia. Prima di spingere le cose fin lì, il principe chiese un colloquio ad Aurora onde comunicarle i suoi pensieri.

Il colloquio ebbe luogo.

Fu corto.

L’indomani dicevasi per Roma:

— Il principe di Lavandall è partito stanotte!

La notizia era vera.

Aurora gli aveva negata la sua mano.

Un anno era scorso da questo avvenimento, ed abbiamo visto come il principe Pietro di Lavandall, due volte respinto — una volta dal padre della fidanzata, una volta dalla fidanzata ella stessa — si fosse poscia deciso a cercarsi una moglie in un ospizio di trovatelli — senza consultare le inclinazioni della fanciulla.

Una zia del principe era venuta di Alemagna — ove era prima dama d’onore della regina di Würtemberg — ed aveva condotta seco la giovinetta in Lamagna.

La sovrana l’aveva nobilitata.

Di guisa che, un anno dopo la scena dell’ospizio di Londra, in tutta la Parigi aristocratica si ripeteva la notizia che il principe di Lavandall sposava la contessa Maud di Walenheim.

Il matrimonio doveva aver luogo a Parigi nella chiesa protestante della strada d’Aguesseau.

Tutto era pronto nel palazzo del principe, ove la zia aveva condotto la fidanzata.

Si terminava la toilette delle nozze. Gli amici, i parenti, riempivano i saloni. Il principe entrò nella camera della zia — ove Maud si teneva, attorniata da cameriere — e dimandò che lo si lasciasse un istante solo con costei.