I suicidi di Parigi/Episodio secondo/I
Questo testo è completo. |
◄ | Episodio secondo | Episodio secondo - II | ► |
I.
The foundling hospital.
A capo di Lamb’s-Conduit street, a Londra, sorge un grande edificio che occupa un considerevole posto nella strada.
À una spaziosa corte esterna, un gran giardino di dietro, Macklembourg Square all’est e Brunswik Square all’ovest.
Quest’edifizio occupa tre lati di un quadrato. La facciata è costrutta in pietre, le due ali in mattoni. Le finestre di mezzo sono ornate di vetri opachi; quelle dei lati di piccoli cristalli, sopra telari dipinti a rosso.
È il foundling hospital — l’ospizio dei trovatelli.
Il pubblico è ammesso a visitarlo ogni domenica, mediante una retribuzione di sei pence (dodici soldi), che si lascia in un vassoio tenuto da uno degli amministratori dello stabilimento, alla porta della cappella. Gli altri giorni l’ingresso è interdetto.
Vi si va la domenica per udirvi suonar l’organo, il quale non à altro merito che quello di essere stato regalato da Haendel. Vi si va per ammirare il ritratto del capitano Thomas Coram — il fondatore dell’ospizio — magnifico dipinto di Hogarth, e qualche altro quadro più o meno bello di Ramsay, di Shackleton, di Hudson e di Joshua Reynold. Vi si va per udir cantare e veder mangiare i figli del luogo; osservare come sono coricati e con quanta nettezza tenuti.
Ed invero, non poche tenere madri augurano ai loro propri figliuoli la sorte di quelli abbandonati — mentre tanti fra costoro invidiano la felicità dei fanciulli che ànno una madre!
Una bella mattina di giugno, raggiante di un sole caldo e limpido — cui i detrattori della mia cara Londra le negano anche nell’estate — una carrozza sboccò dal lato di Mecklembourg Square e si fermò innanzi all’inferriata dell’ospizio.
La carrozza era stemmata, tirata da quattro cavalli grigi pomellati, condotta da un cocchiere che pesava due tonnellate, a parrucca incipriata, forte in colore, raso il mattino, vestito di una livrea amaranto a lacci neri. Tre lacchè, similmente vestiti, recando ciascuno nelle sue mani un lungo bastone a pomo di oro, tenevansi in sul pedile di dietro.
Discesero, ed un di costoro si avvicinò allo sportello per pigliare gli ordini del padrone.
Questi disse un motto, ed il valletto andò a suonare al cancello, dimandando al portinaio se mistress Grown fosse in casa.
Alla risposta affermativa del funzionario (che in Italia sarebbe stato cavaliere, se pur no commendatore) il lacchè gli significò di aprire e di lasciar entrare la vettura nella corte.
In generale, gli inglesi ànno un certo rispetto per tutte le persone che girano in cocchio. Ma questo rispetto si eleva ad ammirazione, se il veicolo à aggiogato quattro cavalli, e ad adorazione se le quattro dette rispettabili bestie sono accompagnate da tre o quattro fanti affusolati di parrucche infarinate, di tricorni, e pastorale a borchie lucenti.
Laonde, il portinaio, che aveva contemplato tutto codesto, non oppose la minima difficoltà agli ordini del lacchè del visitatore, e la carrozza entrò trionfalmente.
Allora, il personaggio che l’occupava cavò dal taccuino una lettera e la rimise al valletto.
— Fate dimandare a mistress Grown — diss’egli — se la può ricevermi.
Il valletto penetrò nello stabilimento.
Il personaggio rimase nel cocchio.
A capo di qualche minuto, il valletto tornò ed annunziò al padrone che mistress Grown aveva l’onore di aspettarlo.
Infatti, leggendo la lettera, la buona dama non solo consentì a ricevere immediatamente lo straniero, ma, raggiustata di un giro di mano la sua toilette — che non era proprio disacconcia — uscì dal suo appartamento e venne all’incontro del visitatore — non senza di essersi previamente e ripetutamente mirata nello specchio.
Ahimè! ciò giovava poco alla povera donna! Imperciocchè, per essersi contemplata per cinquant’anni in tutti gli specchi possibili, perfin gli specchi ustoridi del Politecnico! la non aveva accorciati di una linea i suoi lunghi denti, nè fatto impallidir di un zinzino il rosso ardente delle sue guance, nè offuscato di un’impercettibile nuance il tuono carota dei suoi capelli.
Del resto, se queste piccole contrarietà fisiche l’avevano messa talvolta in collera contro la natura — sopratutto quando una velleità di matrimonio le aveva solcato la mente — giammai quella collera non si era volta contro altrui, nè si era fatta risentire neppur di rimando.
Mistress Grown era di un’inesauribile bontà, e di una calma supremamente britannica.
Statemi dunque a far delle glosse contro i capelli carota!
— Chi può essere codesto straniero «di grande distinzione» cui la duchessa di Shetland mi raccomanda di accompagnare io stessa nella sua visita allo stabilimento, senza manco indicarmene il nome? — si domandava la buona mistress Grown, uscendo dal suo drawing room.
Ella ne era ancora a chiedersi codesto, quando il personaggio annunziato comparve.
Mistress Grown era la direttrice della parte orientale dell’edifizio, destinata alle fanciulle.
Bisogna credere che la si aspettasse ad altro, perchè una tal quale sorpresa si dipinse sul suo viso all’aspetto di colui che si avanzava verso di lei.
D’ordinario, i visitatori serii che picchiano alla porta di questi ospizi sono dei pubblicisti — i quali si occupano di scienze sociali — o di uomini di una certa età e mica ricchi.
Il visitatore, questa volta, si presentava con grande spanto; portava lettera di una delle più grandi dame della corte, parente della regina, ed in un giorno in cui il pubblico non era ammesso.
Gli era poi costui un giovane di venticinque a ventisei anni. E il suo vestire semplice, il suo portamento modesto non indicavano, di modo alcuno, ch’egli potesse avere il petto coperto di decorazioni, e che il giorno innanzi egli avesse aggiunto l’ordine della Giarrettiera a quello del Toson d’oro, alla Legione di onore, alla placca in diamanti di S. Andrea.
Il suo andare era lento ed un po’ stracco. Trascinava il passo come la gente distratta, la quale si cura poco della terra cui calpesta e del mondo che la circonda. Era molto pallido. Ma s’indovinava di un’occhiata, che quella pallidezza, pur non essendo affatto naturale, non era una pallidezza completamente malaticcia, nè sopra tutto quel pallore sinistro che denunzia il vizio od il rimorso.
I suoi capelli bruni, un cotal poco laschi sulla fronte, inquadravano un viso leggiermente allungato e si armonizzavano con i tratti avvenentissimi della sua fisionomia.
Portava tutta la barba, d’un colore alquanto men scuro dei capelli.
Uno sguardo opaco e chiuso in di dentro spiccava d’ordinario dai suoi occhi di smeraldo. Per momenti però, quello sguardo si allumava, come le lanterne cieche che si animano di botto quando le si dirigono verso l’oggetto cui si vuole rischiarare. Per ciò, appunto, il suo sembiante dal color scialbo ed inespressivo di già, si velava inoltre di uno strato di ghiaccio. Quell’uomo diventava allora un mistero. Tanto più che la sua bocca si componeva di raro al sorriso, quantunque facesse mostra di denti magnifici, fra due labbra pallide nascoste sotto lunghi batti.
Quell’aspetto sofferente non si spiegava. Imperciocchè, non magrezza, non linee curve, non contrazioni violente di muscoli, non rughe, nulla insomma, l’abbiam detto, che dinotasse il disordine dell’esistenza di certi chiostri, un guasto permanente nella salute. Nulla che indicasse la causa, a quell’età, di quel tono freddo, di quell’aria molle, di quello spossamento di fluido che, dal primo incontro, teneva a distanza coloro che l’avvicinavano.
Non svegliava alcuna simpatia. Ma eccitava una specie di sorpresa curiosa, e forse un po’ di paura — sopratutto quando la sua faccia si oscurava ed e’ rientrava in sè o si stecchiva sotto il sentimento della collera.
Era poi alto, smilzo, ben proporzionato, dall’insieme elegante e senza affettamento, avvegnachè portasse, camminando, la testa un po’ inclinata sul petto e la mano dritta sul cuore.
Le sue maniere erano distintissime, ma poco calorose. Non un gesto, parlando, per rilevare l’espressione di una voce, d’ordinario sorda ed incolore. Non era parlatore. Al contrario, il suo verbo era corto, quando alcuna passione nol dominava. Sotto l’impulsione di un affetto qualunque, però, egli diventava eloquente, poeta, ed aveva un accento sarcastico ed amaro.
Questo personaggio si avanzò verso mistress Grown e la salutò del capo, con rispetto, senza dire motto.
— Milord — esclamò mistress Grown restituendogli il saluto — la lettera di Sua Grazia la duchessa di Shetland, cui vostra signoria mi à fatto l’onore recapitarmi, mi apprende che la S. V. desidera di visitare l’ospizio. Sono agli ordini vostri, milord.
Lo straniero s’inclinò leggiermente.
— Di dove V. S. vuoi cominciare? — dimandò mistress Grown — dai garzoncelli o dalle figliuole?
— Dalle figliuole, madama — rispose il visitatore, in inglese, come mistress Grown gli aveva favellato.
— In questo caso, milord, vogliate darvi la pena di accompagnarmi.
Lo straniero le offerse il braccio, e cominciarono la visita dello stabilimento.
Mistress Grown, pur volendo mostrarsi graziosa verso colui cui le avevano raccomandato, bruciava di voglia di conoscere lo scopo di quella visita. Come non era guari a presumere che quel giovane signore avesse dimandato una lettera ad una dama della corte, per andare personalmente, in treno di gala, a scegliere una cameriera in un ospizio, la sua curiosità doveva avere un altro interesse.
— Non è nemmanco possibile — ruminava nel suo capo mistress Grown — che egli venga a visitare i quadri della sala del comitato. La Marcia di Finchley di Hogarth, il cartone di Raffaello, l’Angelo ed Ismaele di Highmore, il Cristo di Willis, il Moise di Hayman, belli che siano, non richiedono un così alto intervento per essere ammirati. Verrebb’egli dunque per conoscere la storia del capitano Thomas Coram, e come quel bravo uomo fondò l’ospizio? Vien’egli per apprendere i nostri regolamenti e paragonarli a quelli del continente; per osservare come lo stabilimento è tenuto ed amministrato; per ottenere la statistica dei trovatelli raccolti? Non ne so nulla. Come dunque posso soddisfare ai suoi desideri se non l’indovino?
Malgrado si mettesse queste questioni, mistress Grown non osava nulla chiedere allo straniero. Si proponeva mostrargli tutto, tutto dirgli. Lo condusse dunque nella vasta sala ove le ragazze entravano in quel momento per pranzare.
Erano circa centocinquanta.
La sala, lindissima, era rischiarata da parecchi finestroni aperti, sporgenti sul giardino, da cui penetravano, nel tempo stesso, il sole a grandi ondate, la brezza, il cinguettare degli uccelli che folleggiavano negli olmi, ed il profumo dei fiori delle aiuole, misto all’odore delle vivande.
Delle tavole, senza mensale, coperte di tela verniciata, correvano da un capo all’altro della sala.
Ogni figliuoletta occupava il suo posto numerato.
La veste in cotonata bruna non le sformava troppo. L’azzardo le aveva abbellite di teste bionde, di occhi limpidi, di labbra rosee che sembravano sospirare i baci di una madre — e la minestra.
Quando ognuna fu al suo posto, un momento di silenzio seguì. Poi, dal centro delle tavole, una modesta ragazza di diciassette a diciott’anni, la più attempata della compagnia, intonò il benedicite di una voce dolce ed un poco commossa.
Aveva questa terminato appena la preghiera, che un’altra giovinetta cominciò a dispensare con rapidità ed appropriatamente le porzioni di carne e legumi, ammonticchiate nel piatto a lei dinanzi.
La direttrice ed il visitatore percorrevano il refettorio silenziosi e lenti.
Si sarebbe potuto leggere sul sembiante di mistress Grown la soddisfazione, con la quale constatava la ciera di salute che mostravano quelle fanciulle, ed il buon appetito con cui esse divoravano la loro pietanza. Mistress Grown dimandò perfino a qualcuna d’elleno se era soddisfatta.
Il viso dello straniero, all’incontro, restava impassibile. Guardava pertanto attentamente, e rallentava talvolta il passo onde meglio osservare. Gli capitò perfino di fermarsi due o tre volte innanzi alle più adulte di quelle figliuole. Ed allora, se gli si fossero messi gli occhi negli occhi, vi si avrebbe potuto trovar forse quella vita e quell’acuità che mancava loro di abitudine.
Fece due volte il giro della sala, senza disserrare le labbra.
Uscendo del refettorio, mistress Grown, che si sentiva imbarazzata di quel silenzio; che si trovava appesa al braccio di quell’uomo come a quello di una statua di bronzo; che era curiosa di più in più, bisogna dirlo, e che avrebbe voluto trovare nella bocca di lui l’espressione dei suoi sentimenti, gli dimandò timidamente:
— Ebbene, milord, la S. V. pensa dessa che noi compiamo il nostro dovere verso quelle sgraziate creature?
— Lo penso, madama — rispose lo straniero di un tono secco.
— Ed ora, milord, vostra Grazia vuole ella visitare i dormitori delle fanciulle?
— No, madama — rispose lo straniero. Piuttosto il giardino.
— Dopo l’appartamento della segreteria, non è vero, milord?
— Prima, madama, se il permettete.
Uscirono nel giardino.
Lo straniero camminava adesso un poco più sollecito, dirigendosi verso un viale ombrato da folti platani, al coperto dal sole che cadeva a piombo sui praticelli. Delle grandi magnolie, in vasi, riempivano l’aria di olezzo. Le aiuole spiegavano i loro addobbi di girani, di viole, di flussie, mentre le ravanelle; gli anthemi, le cobee, le volubili si arrampicavano su per i tralicci verdi del muro e li tappezzavano di fiori di oro, di zaffiro e di argento.
La caldura e la luce sembravano risvegliare in quel giovane signore una certa animazione; perocchè, forzando il grave suo silenzio, chiese:
— Madama, che fate voi apprendere alle figliuole di questo ospizio?
— Mica molto, milord — rispose mistress Grown un poco imbarazzata. Imparano a leggere, a scrivere, a cucire — in breve, ciò che può occorrere ad una povera famiglia.
— Quale sorte le attende uscendo di qui?
— Le più fortunate divengono cameriere. In generale, si fanno serve od operaie.
Lo straniero si tacque.
— La loro sorte non è poi brillante, milord — continuò mistress Grown. Ma noi ci studiamo, innanzi tutto, d’impedire che esse cadano nel male.
— Sono figlie tutte del popolo? — dimandò lo straniero.
— Lo più sovente, milord. Però, capita talvolta altresì che delle persone di una condizione più elevata vengano a nasconder qui il frutto della loro vergogna o il malore della loro leggiera condotta. Non si dà giammai spiega alcuna. Ond’è che la povera fanciulla, cui si destina ad una cucina o ad una manifattura, potrebbe bene avere una madre che va a corte ed un padre che siede in Parlamento.
— Non avviene mai che una madre riprenda la sua prole?
— Una sopra dieci mila. Quando una donna à fatto rinculare il sentimento della maternità innanzi a quello della vergogna, è ben raro che la abbia un ritorno e si corregga. Quasi sempre, la natura à perduto la sua partita contro la società.
Lo straniero si tacque di nuovo. Ma mistress Grown, che si accorgeva con soddisfazione il ghiaccio cominciare a fondere, e se ne attribuiva modestamente il merito, dimandò:
— Milord, desidera egli la statistica dei resultati morali e materiali del nostro ospizio — che è lo più considerevole di Londra?
— Grazie, signora — rispose lo straniero. Vogliate dirmi piuttosto il nome di quella giovinetta che à recitato il Gratia a desinare.
Mistress Grown guardò fra i due occhi il suo interlocutore, per provar di rendersi conto del senso intimo dell’interrogazione. Poi, dopo un istante di silenzio, rispose secco, secco:
— Maud, milord.
— Potreste farla venir qui e parlarle, madama?
— E che dovrei io dirle, milord, se me lo permettete? — obbiettò mistress Grown, di meglio in meglio stupita.
— Tutto ciò che vorrete, madama — riprese lo straniero; — basta ch’ella parli.
— Ah! sclamò la direttrice, osando guardare di nuovo. Vorreste interpellarla voi stesso, milord?
— Al contrario — rispose questi con vivacità. Io mi ritiro dietro quell’arcata di liane. Io non voglio che udirla.
Mistress Grown salutò profondamente, come qualcuno che si rassegna a cosa che gli spiace, ed uscì per andare in cerca della figliuola.
Due minuti dopo, la conduceva Maud della mano.
Lo straniero si nascose infatti dietro il pergolato.
Egli si sforzava di comprimere nel suo seno una specie d’inquietudine, che si tradiva fuori per un rianimamento inusitato delle guance ed una respirazione più calda e più celere. Le sue pupille, or ora sì opache, scintillavano adesso.
Egli avviluppò del suo sguardo la giovinetta, cui mistress Grown conduceva.
Se questa degna persona avesse potuto osservarlo, ella sarebbe restata sorpresa di trovare tanta vita in un sembiante cui aveva visto un momento fa sì placido e freddo, ed una espressione sì strana su dei lineamenti che un istante innanzi sembravano estinti.
Mistress Grown guidò la ragazza vicino ad un pergolato di clematite, come in passeggiando, parlandole con dolcezza, sorridendole con bontà. Ella non aveva coscienza di ciò che faceva. Ma pensava che il personaggio, il qual le era stato raccomandato di sì alto, e che pareva sì colmo di dignità e di distinzione, non poteva pigliarla a complice di una cattiva azione. Si prestava quindi adesso con non troppa repugnanza ai desiderii dello straniero. Poi una luce le traversò per la mente:
— Vorrebb’egli riparare un torto? — si dimandò ella interiormente. È troppo giovane, pertanto! Lo si sarebbe incaricato... Di che?
Maud la seguiva, niente affatto sorpresa dell’immenso favore di famigliarità cui la direttrice le mostrava. Sembrava così rassegnata, che la si sarebbe creduta indifferente. Non sperava ella adunque più nulla su questa terra, dove si spera sempre? Ovvero aveva dessa una confidenza più illimitata che altrui nell’avvenire?
Chi lo sa?
Una serenità completa regnava sul suo sembiante.
I suoi occhi non esprimevano alcun desìo — se tuttavia non n’era uno quel lungo sguardo di cui seguire una rondine, sì alto nel cielo, che la si sarebbe detta perduta nello spazio.
— Così che dunque, figliuola mia — diceva mistress Grown, continuando la conversazione — voi non avete alcuna preferenza per un mestiere anzi che per un altro?
— Dio mio, madama — rispose Maud — io so che debbo il mio tempo ed il mio lavoro a colui che mi dà del pane. Ch’egli ne usi allora come vorrà.
— Pertanto vi sono lavori più o meno duri, più o meno servili — soggiunse la direttrice. Noi abbiamo attitudini diverse, vocazioni... Ne avete voi una, figliuola mia?
— A che pro averne una, madama, se io non sono al caso di scegliere? Quando non si à neppure ciò che conforta i più piccoli uccelli del cielo, i più piccoli insetti dei campi: una madre! sarebbe mai lecito avere altri desiderii, madama?
— Chi sa, piccina mia — sclamò mistress Grown, volgendo gli occhi verso il traliccio di liane. Non sareste voi la prima creatura abbandonata che avrebbe trovato di un tratto una famiglia e l’opulenza.
— Sì madama — replicò Maud — ma Dio è troppo in alto per guardar sovente a di sì piccoli atomi e seminare miracoli. O’ letto nella Bibbia...
— Come, figlia mia — l’interruppe la direttrice con tristezza — disperereste voi dunque della bontà di Dio?
— No, madama. Ma ò paura di averlo stancato a forza di domandargli sera e mattino...
— Dei sogni?
— Non ancora, madama: un miracolo!
— Ed avete avuto torto, figliuola mia. La cagion prima dei nostri mali sulla terra è la non-rassegnazione.
— Gli è vero, madama. Ò avuto torto. Un giorno però voi mi diceste che, quando si depositò la mia culla alla porta di questa casa, si depositò pure una somma di 500 ghinee — un dono per lo stabilimento.
— Sì. E poi?
— Un altro giorno, madama, mi ricercarono per occuparmi in una casa di confezione come cucitrice. Io voleva andarvi. Voi mi diceste allora, madama, che si era imposto allo stabilimento, depositandomivi, di non disporre di me prima che io non mi avessi compiuto i sedici anni.
— Ebbene, che volete voi conchiudere di codesto?
— Dio mio! l’è chiaro, pertanto. Se vi impedivano di disporre di me, si voleva dunque reclamarmi prima di quell’età.
— Ah!
— Io ò terminato i miei diciassette anni, madama — soggiunse Maud con abbandono — ed alcuno non è venuto.
— Voi disperate, allora?
— Talvolta, madama. Perchè, ecco lì due anni, che non è scorsa un’ora della mia giornata, una sola delle mie notti, in cui io non mi abbia delirato di quell’assente. È dessa morta? mi dico. Ebbene, che mi si indichi la sua fossa, perchè io mi vada talvolta a piangervi e portarvi dei fiori. È dessa povera? io so lavorare; lavorerò per lei. È dessa colpevole? io le perdono — di gran cuore le perdono. Arrossisce di me? ebbene, che me la si mostri soltanto, ed io andrò alla sua porta a vederla passare e benedirla di tutte le forze dell’anima mia. Mi à dessa obliata? ma che la mi oblii. Io non le dimando nulla: non voglio che vederla una volta sola, una volta, per dare una forma al mio sogno implacabile, un obietto al mio amore assetato; per sapere ove volgere il mio sguardo nell’orizzonte, su quale testa invocare la benedizione di Dio, quale angelo adorare nella mia preghiera. Ò io torto, madama, di disperare talvolta, di aspettar sempre, malgrado ciò?
Mistress Grown si tacque un istante, non sapendo che rispondere.
Poi sclamò:
— Figliuola mia, è la volontà di Dio: bisogna obbedire.
— Per fermo, madama — replicò Maud sospirando. Nè è Dio che io mi accusi. Però, come avviene che Iddio — il quale alimenta così amorosamente gli uccelli del cielo; che dà ai fiori ammanto sì bello ed alito così profumato; che riveste gli alberi di fresche foglie per garantirli contro gli ardori del sole; e che tira delle farfalle da immondi bruchi... come avviene, mi domando io, che egli non abbia il male se non per le povere creature dell’uomo, come noi, e che ci orbi di ciò cui dà ai più miseri esseri della creazione: una madre?
La logica del sentimento è senza pietà. E la finisce per far di Dio un mostro, a forza di attribuirgli le più piccole vicissitudini della vita.
Se si fosse detto a Maud che non era Dio, ma una società rachitica che le rubava lo sguardo benedetto di sua madre, il suo dolore sarebbe forse divenuto ateo, trovando che vi era qualcosa al disopra di Dio, più potente di Dio: se stesso ed il mondo!
Il giovane forestiero, che restava senza fiatare dietro la spalliera di liane, gli occhi inchiodati sulla fanciulla, le orecchie tese, si fece avanti di un tratto.
A quell’apparizione inaspettata, Maud si turbò. Divenne di bracia, bassò lo sguardo, si ritirò di un passo indietro.
Lo straniero s’avanzò di un’aria grave verso le due donne e le salutò. Poi, dirigendosi a mistress Grown, le chiese:
— Madama, sarebb’egli permesso di cavare questa giovinetta da quest’ospizio?
Mistress Grown alzò gli occhi su di lui con un certo piglio di osservazione, poi rispose lentamente e con gravità:
— Lo si può, milord, conformandosi a certe regole stabilite dai fondatori.
— Quali, madama?
— Da prima, milord, è mestieri conoscere il nome della persona che piglia a sua carico l’esistenza del trovatello cui le si affida, ed in seguito che vuole ella farne.
— In questo caso, madama — riprese con solennità il forestiero — io vi dimando questa fanciulla. Io sono il principe Pietro di Lavandall, cugino della duchessa di Shetland.
La direttrice e Maud levarono gli occhi attoniti sul principe.
— Come, Vostra Grazia...? — prese a balbuziare mistress Grown imbarazzatissima, dopo alcuni minuti di silenzio... Ma... scusi, milord... non m’inganno io forse? Vostra Grazia dimanda...
— Io vi dimando, madama, questa giovinetta — rispose il principe vivamente agitato.
— Mille grazie per lei, milord — riprese la direttrice. Perocchè gli è, senza dubbio, per farne una cameriera della signora principessa di Lavandall...
— Punto, madama.
— Ma allora, milord — soggiunse mistress Grown, rivenendo un po’ della sua sorpresa... — che vorreste voi fare di questa povera orfana?
— Mia moglie, madama. Voglio farne la principessa Pietro di Lavandall.
E ciò dicendo, salutò le due donne e si allontanò di un passo rapido.
— A casa, e ventre a terra — gridò il principe ai suoi lacchè, salendo in vettura.
Sentiva che la sua emozione era per sopraffarlo.