I suicidi di Parigi/Episodio secondo/III

Episodio secondo - III. Al castello di Lavandall

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III.

Al castello di Lavandall.

Il giorno che seguì la scena cui abbiamo raccontata, il principe fece dimandare alla consorte se poteva riceverlo.

Maud aveva passata la notte — la sua prima notte di [p. 126 modifica]nozze — accoccolata sur un canapé nel boudoir. Le sue cameriere la avevano rilevata, all’alba, agghiadata di freddo e di orrore.

Un bagno caldissimo, qualche ora di riposo, le avevano poscia restituito un po’ di calma. Ma il suo spirito era tuttavia sotto il peso dello spavento.

Quando le si annunziò la dimanda di suo marito, un tremor sordo la convulse.

Era alzata. Le sue cameriere, stupefatte ed intrigate dal mistero di quella strana notte, la circondavano.

Maud fece rispondere al marito che era pronta a riceverlo, e rinviò le fanti.

Tranne il pallore un po’ più intenso, lo sguardo un po’ più vago, la pupilla un po’ più larga e fosca, e l’andare un po’ più affranto, alcun’altra traccia non restava della crisi della notte sulla persona del principe. Era ridivenuto quel giovane calmo, bello, dalle maniere eleganti, che seduceva il mondo.

Vestito come per una visita di mattino ad una persona estranea, guantato, cappello in mano, e’ si avanzò di un’aria serena e grave nel boudoir di sua moglie.

La principessa si levò.

Il suo primo movimento fu di rinculare di un passo. Poi, si precipitò incontro a lui.

Il principe la salutò rispettosamente, e, prendendola dalle punte delle dita, la ricondusse al canapé. Rimarcò che la tremava tutta.

— Madama — disse egli, dopo alcuni istanti di silenzio, unicamente turbato dal sibilo della respirazione commossa, — madama, io vengo a prendere i vostri ordini. Sono costretto a partir oggi stesso pel castello di Lavandall, ove mia madre mi aspetta da qualche giorno, ed ove mio fratello arriva stasera. Vengo a dimandarvi ciò che meglio gradite: se ritornare a Londra, restare a Parigi o permettermi di offrirvi l’ospitalità nella mia dimora.

— Monsignore, rispose Maud, tremando sempre e biascicando — ciò che vi dissi ieri, non lo ritratto oggi. Sono la vostra consorte, vi seguirò dappertutto.

Il principe salutò e si tacque un momento. Poi riprese:

— Madama, la vita al castello di Lavandall è ben triste, sopratutto monotona. [p. 127 modifica]

Maud sorrise malinconicamente.

— Un immenso edificio di granito grigiastro, addossato ad una montagna sterile, spaziando sur una pianura immensa, alberata, traversata da un fiume dalle acque terrose, circondato da villaggi con contadini più o meno infelici... ecco il castello!

— Io amo le montagne, amo i boschi, amo i fiumi, amo i disgraziati — rispose Maud, bassando gli occhi. Amo sopratutto la solitudine.

— La vita che si mena in quella magione — continuò il principe — è delle più lugubri. Il signore del luogo detesta e disprezza il mondo; lo fugge per conseguenza. Di visite, rarissime. Giammai feste. Non cacce. Qualche passeggiata solitaria. Sempre il silenzio. Gli stranieri potrebbero dire che la è dimora del rimorso. Altri sanno che la è il coviglio del dolore.

Maud si alzò come spinta dall’impeto di un sentimento generoso.

Il principe restò assiso e freddo. E continuò:

— Voi vedete, madama, che vi condannereste al più squallido dei chiostri, scegliendo quella residenza.

— La scelgo — rispose Maud, risedendo lentamente.

— Sola, straniera sur una terra straniera, in mezzo a stranieri, ecco, madama, ciò che voi sarete nel castello di Lavandall — soggiunse il principe, alzandosi a volta sua. Io parto stasera. La vostra servitù attende i vostri ordini, madama, per partire o restare, per seguirvi dovunque. Il mio notaro vi comunicherà, madama, che da domattina vi è una pensione di 200,000 franchi di rendita annua, costituita in vostro favore.

— Vi ringrazio, signore — rispose Maud con fierezza, raddrizzandosi sulla persona. Io non posso accettarla. Il mio posto è assegnato al vostro focolaio. Esso sarà così esiguo che io potrò farmelo; ma vi resterò — finchè non me ne avrete scacciata. Dio mel comanda.

— Sta bene — rispose il principe. Addio, madama. Non vedrete più nulla che possa cagionarvi ripulsione.

E così parlando, senza aspettare risposta, salutò rispettosamente ed uscì.

Maud lo seguì degli occhi; poi si accasciò sul divano e pianse. [p. 128 modifica]

Il principe partì la sera alle sette, non menando con sè che il suo vecchio intendente, il quale da quindici anni conosceva tutti i suoi segreti.

Maud diè congedo alle cameriere che l’avevano trovata la mattina in così lagrimevole stato, e partì la sera stessa, alle otto, accompagnata da quella fanciulla inglese, cui il principe le aveva dato quando la tirò dall’ospizio, e che le si era affezionata. Ella condusse seco altresì un maggiordomo, anche inglese, che l’aveva seguita da quell’epoca.

Quindici giorni dopo, il principe e la principessa di Lavandall entravano insieme al castello. Il principe aveva aspettato Maud ad una giornata di distanza dalla sua residenza.


Ora, quella residenza non era poi così tetra e desolata come il principe l’aveva dipinta a sua moglie. La si sarebbe detta, al contrario, un castello reale.

Era tutta costruita in marmo rossastro, vasta, ornata di terrazze che sporgevano sur una immensa campagna, bellissima. L’attorniavano dei bei giardini con ricche stufe. La popolavano un centinaio o due di servi. I mobili erano di un gusto squisito; le tappezzerie ricchissime; i quadri preziosi; le curiosità senza numero: tutto scelto, insomma, con intelligenza, gusto e conoscenza.

Una foresta di dieci leghe di diametro, ove serpeggiava una riviera dalle acque malinconiche e chiare, era gremita di laghetti, come dei pezzi di argento gittati sur un verde tappeto.

Il castello dominava, a parecchie leghe d’intorno, un numero di piccoli villaggi, con dei chalets dallo stile bisantino, chioschi e minareti di stagno, che risplendevano all’aurora ed al tramonto come guglie di oro, quando il sipario della nebbia, ondulata come i cavalloni del mare, si diradava.

Il clima era dolce. Il cielo profondo e sereno. L’aria pura. La contrada poco montuosa, ma non monotona. Perocchè una vegetazione vigorosa, animata, da parecchi corsi d’acqua, carezzava lo sguardo per una verdura graduata di tutte le tinte. [p. 129 modifica]

Un corriere aveva annunziato l’arrivo del signore. Tutti erano dunque in trambusto, e trenta mila fiaccole di legno resinoso rischiaravano la via al principe ed alla principessa, in mezzo ai loro servi, schierati su due file.

Il conte Alessandro venne loro all’incontro.

Erano parecchi anni che i due fratelli non si erano visti, benchè si scrivessero ogni settimana, l’uno per raccontare le sue imprese alla corte di Nicola, l’altro per minutare la storia della sua anima.

Io dico la storia della sua anima, imperciocchè il principe Pietro non partecipò mai nè a sua madre, nè a suo fratello, l’istoria dei suoi matrimoni naufragati, nè la storia di Maud.

Questa fanciulla era per tutti (la zia di Alemagna e la regina di Würtemberg tranne) la contessa di Walenheim.

Non appena i due fratelli si scorsero, balzarono di vettura e caddero l’uno nelle braccia dell’altro.

Restarono qualche minuto così, senza dir verbo.

Infine, Alessandro richiese suo fratello di essere presentato alla principessa.

Maud, imbaccuccata in una calda e ricca pelliccia, si teneva rannicchiata in uno spigolo della carrozza. Un raggio di Luna, a traverso i cristalli degli sportelli, le aleggiava sul viso e ne accresceva la pallidezza. Aveva l’aria di una visione.

Quando il principe aprì lo sportello per presentarle suo fratello, un fiotto di luce delle fiaccole, che circondavano la vettura, la inondò. La visione sembrò arrossire. Un hourrah! eclatante corse su tutta la linea, mentre il conte Alessandro diceva di una voce commossa:

— Permettete, madama, al primo dei vostri vassalli di baciare la vostra mano.

Quella mano era ghiacciata e tremante.

Alessandro la sentì a traverso il guanto.

Maud rispose semplicemente:

— Grazie, fratello!

Ma i due fratelli avevano tante cose a dirsi; Alessandro aveva tanti complimenti a fare a Pietro sulla bellezza della sua consorte; bruciava tanto di comunicargli tutt’i suoi progetti, tutti i suoi favori alla corte, sopratutto [p. 130 modifica]dello tzar... Il principe entrò nel coupé del fratello, e Maud continuò il suo viaggio sola.

Ciò colpì Alessandro. Si astenne però di esprimere alcuna osservazione.

La loro madre li aspettava sotto la marquise del verone, fra un esercito di lacchè e di servi che riempivano l’aria di acclamazioni.

La vista di Maud li abbarbagliò tutti.

E per questa semplice ragione, la giovane principessa spiacque alla vedova suocera.

Il principe condusse Maud nell’appartamento di lei, per riposare, per prepararsi al banchetto ed alla festa di notte che li aspettavano.

Entrando nella camera da letto, i loro sguardi caddero sur una lettera, in un vassoio d’oro, sopra una piccola tavola di malachite. Il principe, credendo che quella lettera, la quale li attendeva, fosse a lui destinata, la prese. Però, leggendo che l’indirizzo portava il nome di Maud, gliela rimise.

Questa l’aprì sbadatamente.

Era una lettera di mistress Grown, che ne conteneva un’altra.

Maud l’aprì, lesse e barcollò.

Il principe rimarcò tutto e non profferì verbo.

Maud gli porse allora ambo le lettere.

Il principe non lesse quella di mistress Grown. Lesse a mezza voce l’altra, concepita così:

«Se un dì sarete svanturata ed avrete bisogno di aiuto, scrivete ogni primo giorno del mese a mistress Evelyn March, fermo in posta, a Londra, e sarete protetta. Siete amata, avvegnachè sembriate abbandonata.»

Il principe salutò sua moglie, restituendole la lettera, senza soggiunger motto, ed uscì.

Maud gettò la lettera nelle fiamme del focolaio, e, malgrado lei, scattò fuori dal suo petto come un grido:

— È troppo tardi!

Il principe l’udì, e volse la testa per osservare sua moglie.

Ella contemplava quasi con gioia la distruzione di quel foglio di carta, che la rallegava ad un mondo sconosciuto.

Il principe portò ambe le sue mani al volto, e scomparve dicendo: [p. 131 modifica]

— Povero me!

Noi passiamo oltre la descrizione delle feste.

Lo tzar Nicola e la tzarina mandarono un monille di diamanti alla giovane sposa, ed un invito pel castello dell’Hermitage.

A cinquanta leghe intorno, la nobiltà russa venne a visitare la nuova castellana, e tutti si accomiatarono incantati. Perocchè non è mestieri di dire che la storia misteriosa di questi due martiri restò sprofondata nei loro cuori.


Il carattere del principe Pietro non sorprese alcuno. Alla Corte stessa dello tzar erasi favellato dei suoi gusti da scienziato e della sua capacità; ciò che aveva occasionato il rumore, lo tzar lo avesse in vista per un posto diplomatico. Ma se tutti — e la vecchia principessa ella stessa — s’ingannarono, vi eran ben due occhi, i quali, non fissandosi mai sovra alcuna cosa, vedevan tutto e vedevano a fondo.

Un mese scorse.

Esso era sembrato un’eternità alla vecchia principessa, che l’aveva passato mezzo a sbadigliare, mezzo a correr dietro al suo giovano marito. Il quale, a volta sua, correva dietro alle giovani contadine del principe, quando non era ubbriaco. Questo soffri-amore di una civetta di cinquantatre anni, imbalsamata di divozione e d’ambizione, avrebbe destato pietà, se non fosse stato ridicolo.

Non avendo dunque ad esercitare nè l’ambizione, nè la civetteria, nè la divozione a parata, in quel tetro castello di Lavandall — ove un giovane sole esso stesso spegnevasi — la principessa Antonietta parlò di ritorno a S. Pietroburgo, onde assistere alle ultime feste della stagione.

Il suo figlio primogenito non la ritenne.

Il suo figlio cadetto la sollecitò a partire, promettendole di andarla presto a raggiungere.

Ed il conte polacco la rapì quasi, vedendosi sorvegliato da vicino — in questa residenza di provincia — dal suo terribile dragone.

Partirono. [p. 132 modifica]

Alessandro restò.

Chi lo ritenne?

L’affezione per suo fratello.

Egli ignorava la ragione delle cose; ma aveva tutto indovinato: l’amore del principe per sua moglie; la pietà di Maud per suo marito; la loro vita solitaria e separata, in quell’appartamento che simboleggiava agli sguardi del mondo un nido di amore. Alessandro aveva intravisto che un abisso divideva questi due esseri, cui scorgevansi traversare insieme il cammino della vita.

Una circostanza però gli porse ben presto il filo di Arianna del mistero che lo investiva.

Dopo la cessazione delle feste e la partenza della vecchia principessa, la calma rientrò nel castello di Lavandall. E’ non vi risuonava oggimai che una voce: quella del conte Alessandro. Non altro movimento lo turbava che quello cui vi portava il giovane conte con le sue cacce perigliose, le sue escursioni nelle vicinanze, i suoi fucili, i suoi cani, i suoi cavalli, i suoi compagni di piacere, i quali venivano a prenderlo od a tenergli compagnia.

Maud passava come un’ombra bianca e silenziosa in mezzo alla calma, o piuttosto al vuoto, che si allargava intorno a lei più sempre e poi sempre.

Non eravi attenzione minuta, prevenenza ch’ella sparmiasse a suo marito. Indovinava i desiderii di lui ed andava loro incontro. Faceva dei miracoli per imparare certi pezzi di Bellini e di Donizzetti, i quali le era sembrato toccassero di più il principe nei suoi viaggi per Francia ed Italia. Ed ogni sera, dopo il thè, ella lo prendeva dolcemente per la mano, si slanciava al piano, e gli modulava, a voce bassa, per lui solo solo, l’aria che aveva discifrata nel dì.

Ella divorava la notte i poeti, per recitare a suo marito gli squarci i più belli, nelle loro rare passeggiate sulle terrazze del castello, od accanto al fuoco, la sera. Ella studiava le scienze naturali, onde avere un obietto di conversazione che sembrava più gradevole al principe. Ella sapeva far nascere sul suo sembiante un sorriso che non era nella sua anima, per offrire un raggio di aurora a quella notte.

Gli è vero che nel suo sguardo Maud portava più sol[p. 133 modifica]lecitudine che tenerezza; che dalla sua conversazione la parola amore era esclusa; ch’ella non fece giammai un segno per incoraggiar suo marito a rompere la cerchia terribile cui aveva scavata intorno a lei la sua prima notte di nozze; ch’ella non fece giammai un’allusione tenera per alleviare il supplizio di quel Tantalo; ch’ella non indicò giammai la via del cielo a quel dannato. Però, se si fosse scandagliata l’anima della giovane donna, vi si sarebbe forse trovato più timidezza che avversione.

Il principe le ispirava paura e pietà.

Se l’orrore non vi si fosse mischiato, l’amore vi si sarebbe guizzato.

Il principe, dal lato suo, non provò di nulla per favorire le proferte di sua moglie, i primi passi. Egli l’amava alla follia, e perciò appunto si mostrava più inesorabile. S’immergeva nella solitudine e nello studio. Correva i boschi a cavallo, seguito unicamente da Ivan (il servo fedele, che non lo aveva abbandonato da quindici anni), esecrando la vista delle umane creature, involandosi a sovvenenze che lo stringevan di presso, fuggendosi, fuggendo, reprimendo forse i rimorsi di non aver parlato, come parlato aveva ad Aurora Mortier, prima del matrimonio.

Egli cercava sottrarsi alla febbre dei desiderii che lo bruciava; scappar forse a suo fratello, la di cui gaia e sana giovinezza lo gittava in un vortice di delirii.

Il principe avrebbe voluto obliare, e si sentiva di più in più attirato, con una vertigine spaventevole, dagli oggetti ch’ei si sforzava di estirpare dal suo cuore e dalla sua memoria.

Maud lo fascinava.

Alessandro lo inteneriva.

Il principe passava le sue giornate nella biblioteca del castello, toccando a mille libri e non leggendone alcuno.

Parlava poco, talvolta con durezza, con ironia sempre. Ascoltava Maud distratto; suo fratello, attentamente. Egli spiava sempre, intento all’incognito, all’assente, a quello che sbrigliava la bufera nel fondo dell’anima sua ed aleggiava negli spazi infiniti. E’ non sarebbe stato che una mente malata, se la prudenza, il soffio sì vicino, la vista sì abbagliante della sua giovane sposa — che gli svolaz[p. 134 modifica]zava intorno come una nera farfalla — non lo avessero briacato di una demenza sensuale.

Quinci la sua malattia s’inciprigniva.

Quando e’ la sentiva approssimare, sia che fosse nella sua camera da letto, o nel suo gabinetto, o nella sua biblioteca, egli toccava un campanello, in un modo convenuto, ed Ivan accorreva ed asserragliava le porte, ove egli restava a guardia fino a che la crisi non si fosse dissipata.

La consegna era inviolabile.

Ora, egli avvenne un giorno che il conte Alessandro avesse urgente uopo di parlare a suo fratello. Ne andò in busca alla biblioteca, ove recavasi di ordinario dopo l’asciolvere. Alessandro incontrò Ivan alla porta.

— Il principe è qui, Ivan?

— Sì, padrone.

— Apri.

— Non si entra, padrone.

— È egli solo?

— Solo.

— Lavora dunque?

— No.

— Apri.

— Impossibile, padrone.

— È per suo ordine?

— Padrone, sì.

— Che fa egli dunque?

Ivan si tacque.

Alessandro riflettè, poi soggiunse:

— Cotest’ordine riguarda me solo?

— Gli è per tutti, padrone.

— Anche per sua moglie?

— Padrone, sì.

— Ma egli non è ammalato, m’immagino, Ivan?

Ivan non rispose.

Alessandro riflettè, poi domandò:

— Posso tornare più tardi?

— Forse, padrone. Ma gli è meglio che non rivenghiate.

— Che cosa è codesto mistero?

Ivan tacque.

— Gli è la prima volta che mio fratello ti dà quest’ordine? [p. 135 modifica]

— L’è una consegna per certe circostanze.

— E se forzassi la consegna, Ivan?

— Padrone, bisognerebbe uccidermi prima. E poscia non sareste contento di essere entrato.

— Ne sei tu sicuro?

Ivan restò silenzioso.

— Me ne lamenterò a lui, Ivan, e tu sarai punito.

— Voi gli fareste della pena, padrone.

— Ma se la principessa volesse entrare, glielo impediresti tu veramente?

— A lei più che a tutt’altri padrone.

Alessandro si allontanò, pensieroso, ed uscì nel giardino.

Maud vi passeggiava.


Essi s’incontrarono di un tratto al gomito di un viale. Per un movimento istintivo, entrambi fecero un passo indietro onde evitarsi. Poi, arrossendo entrambi, si avanzarono vivamente l’uno all’incontro dell’altra, e si stesero la mano.

Seguì un momento di silenzio, camminando sempre verso la porta a vetri che immetteva in una sala del castello. Alessandro sforzandosi a ridere, disse infine:

— Cognata, io m’immagino che Pietro è in via di scoprir l’elexir della giovinezza eterna, perchè egli à piantato alla porta della sua biblioteca il suo cerbero Ivan, ed alcuno non entra.

Maud ebbe un brivido che non sfuggì agli occhi dei conte Alessandro.

— Io sono stato or ora mandato via — continuò egli — E se voi vi andaste, cognatina, avreste la stessa sorte. Me ne sono informato.

— Io non vi andrò, no — gridò Maud, di una voce che denunziava il terrore.

Maud non aveva parlato mai di suo marito con suo cognato. Ella ignorava dunque se questi conoscesse o no il segreto della malattia di lui. Ella aveva però sospettato talvolta che il fratello e la madre dovessero tutto sapere.

— Allora, voi siete a giorno di ciò che egli fa — riprese Alessandro con calma. Non parliamone più. [p. 136 modifica]

— Ma voi, voi non sapete dunque nulla? — dimandò Maud con ansietà.

— Che dunque, cognatina?

Maud scoppiò di un tratto in una esplosione di lagrime, e fuggì al suo appartamento.

Alessandro restò a piè del verone, come una statua. La sua immaginazione batteva i campi a ragione di cento mila leghe al minuto.

Una mano si poggiò sul suo braccio.

Il principe — rimesso dell’accesso — si era trascinato al balcone della biblioteca per rianimarsi al soffio di una giornata di maggio. Aveva visto sua moglie e suo fratello passeggiare. Non aveva udito la loro conversazione. Ma lo scoppio di lagrime e la fuga precipitosa di sua moglie lo avevano colpito. Uscì dunque e venne a suo fratello.

Questi, sempre assorto, non lo guardò e si lasciò condur via, dietro un ciuffo di arbusti, ove erano dei sedili di marmo.

Il principe si assise, in faccia ad un raggio di sole di pieno meriggio.

— Alessandro, cosa ài tu detto a Maud per farla piangere e scappar via così precipitosamente? — dimandò egli di una voce calma e sorda.

— Che tu non avevi voluto ricevermi... Ma che è dunque? — gridò Alessandro prendendo suo fratello fra le braccia. Mio Dio! che è dunque? Come sei pallido? come i tuoi lineamenti sono alterati! i tuoi capelli sono irti sul capo; i tuoi occhi smarriti, stravolti!... Dio mio! Dio mio! la tua camicia, la tua bocca, la tua barba sono macchiate di sangue... Pietro, Pietro... cosa è dunque, fratello mio?

— Nulla, Alessandro — rispose il principe provando di sorridere. O’ avuto un terribile mal di denti ed ò tentato strapparne uno... senza riescirvi. Le gengive àn sanguinato... Calmati... e grazie.

— Pietro... — sclamò Alessandro, fissando il suo sguardo scrutinatore sul fratello, con un accento di rimprovero. Pietro, tu mi nascondi un segreto ch’altri conoscono, perfino un servo. Io credeva che tu mi amassi.

Pietro cacciò il capo nelle braccia del fratello, e non rispose altrimenti che per un singhiozzare represso.

Alessandro se lo strinse vivamente sul cuore e lo baciò [p. 137 modifica]sulla fronte, senza turbare il suo silenzio. Infine, il principe si raddrizzò bruscamente, e, prendendo il braccio del fratello, sclamò:

— Io non voglio involare alla provvidenza l’ufficio di fare dei miseri. Maud sorprese il mio segreto... e tu l’ài vista piangere. Tu pure, sarai tu un giorno testimone della mia miseria, ed il dolore entrerà nel tuo cuore. Non anticipiamo nulla. Il cordoglio arriva sempre troppo presto.

E dicendo ciò, e’ tornò di un passo frettoloso nel suo appartamento, e vi si rinchiuse fino all’ora del pranzo.

A tavola si vide l’uomo consueto, calmo, composto, elegante... La procella era passata, non lasciando altro guasto che quelli cui essa aggiungeva ogni dì nel cuore più che nel corpo dello sventurato.

Alessandro però era stato profondamente colpito da quelle mezzè rivelazioni della giornata. Egli dava la caccia alle supposizioni le più stravaganti, ma sempre lontane dal vero.

E’ non si abbassò ad interrogare Ivan.

E’ rinunziò a comprendere suo fratello.

Egl’intraprese ad osservare sua cognata.

Alcuno non nasconde un segreto come una donna. Però, se il suo cuore vi è implicato, ella à inevitabilmente dei momenti di abbandono in cui si tradisce.


Se il giovane conte fosse stato un acuto psicologo, le sue osservazioni avrebbero presto messo capo ad un risultato. Ma il conte Alessandro non aveva persistenza nella sua analisi. Imperciocchè egli cominciava sempre per mettere innanzi il cervello, e lo trovava poi sempre distanzato dal cuore.

Lo studio di Maud era, gli è vero, fascinante. Ma forse, pure il conte Alessandro non fece nulla per scongiurar la magia.

Nell’esploramento di questa miniera misteriosa di un’anima, e’ non rivenne che diamanti: la purezza, l’ingenuità, il candore, l’affezione, la divozione, la pietà, la tenerezza.... Maud cantava tutta la solfa della virtù per quel filosofo di venticinque anni, il più bel giovane dell’impero russo — «dopo l’imperatore» soggiungevano i cortigiani. [p. 138 modifica]

La bellezza di Maud era irresistibile. L’insieme lo aveva impressionato a prima vista. L’esame dei dettagli lo esaltava adesso.

E’ si proponeva di sorprendere negli occhi di sua cognata il secreto della desolazione di lei... e si vedeva nascere l’iride! Egli sperava strapparle dalle labbra la parola del mistero... e vi vedeva pullulare baci che dimandano le ali! E’ scandagliava la pallidezza di quel sembiante... e vi scorgeva la trasparenza! E’ si aspettava a ritrovar su quella fronte le stigmate dell’ambascia... e vi leggeva l’elevazione della preghiera! La desolata si cangiava in fata; la fata cingeva l’aureola di una santa.

Che distanza dalle voluttuose bellezze che l’avevano inebriato alla corte di Pietroburgo! Queste gli inoculavano la febbre; Maud, l’estasi.

Maud metteva in evitare suo cognato la sollecitudine cui questi metteva ad incontrarla. Ella non usciva sola nel giardino, nel parco, a cavallo, in visita per soccorrere ai bisogni dei suoi servi, che quando il conte Alessandro era partito per la caccia o in visita presso i vicini. Ella voleva sfuggire le spieghe ulteriori sul conto di suo marito: ecco tutto.

Aveva dessa compresa altra cosa?

Ella aveva potuto avere un’intuizione, un sogno forse; ma non altro indizio che questi.

Ah! se ella avesse potuto interrogare suo marito che era sì penetrante!

Che abisso, infrattanto, in questo povero cuore torturato!

Il principe di Lavandall diveniva ogni giorno più misantropo. Gli era perchè gli accessi della sua malattia, lungi dal distanzarsi, si rapprossimavano?

Ogni qualsiasi cosa lo stancava adesso. Ogni piccola emozione lo scuoteva, al punto ch’ei non poteva più tollerare le corte conversazioni accanto al fuoco, dopo il desinare, ed i bricioli di musica cui Maud gli regalava all’ora del thè, come per lo avanti.

Adesso, dopo il pranzo, il principe si ritirava nelle sue stanze.

Maud lo imitava.

Il conte Alessandro passava le sue serate come poteva. [p. 139 modifica]

Talvolta però, alzandosi da tavola, il principe diceva al fratello:

— Vuoi che andiamo a prendere una tazza di thè da lei, se non la scomodiamo poi troppo?

L’invito era un gaudio per il giovane conte; un ordine per la moglie. Ma la riunione non si prolungava mai al di là delle nove.

Maud ed Alessandro vedevano bene che la salute del principe si alterava di peggio in peggio; che lo spirito di lui era più colpito, che la melanconia lo divorava.

Un giorno, Alessandro gli propose di fare un viaggio in Francia; andare alle acque in Germania. Gli occhi del principe corruscarono, e non rispose.

La vita diveniva intollerabile. Ora, se Maud aveva il dovere di subirla e l’abitudine di soffrirla, quali erano le ragioni — dimandavasi il principe — per le quali il giovane conte vi si sottometteva? Perchè non ritornava egli alla corte, piuttosto che proporre distrazioni di viaggio? Che interesse aveva egli a restare in quel soggiorno di cordoglio e di ombre — lui cui le feste invocavano, cui l’amore agognava, cui il favore del sovrano attirava?

Il principe Pietro trovavasi una sera sotto l’imperio di queste riflessioni, prendendo il thè da sua moglie, in compagnia di suo fratello, quando e’ credette sorprendere, e sorprese di fatto, uno sguardo di intelligenza in fra le due giovani persone.

Lo sguardo del conte era intenerito; quello di Maud, spaventato.

E si facevano segno.

Il fatto è che la fisonomia del principe si scomponeva a vista; che i suoi occhi addiventavano orribilmente stralunati; che un pallore cinereo si diluiva sul suo sembiante; che la sua bocca contorcevasi; ch’e’ tremava tutto; che sforzavasi di aggraffarsi alla tavola, al seggiolone; che, una parola agonizzava a rantolo nella sua strozza.

Maud diceva degli occhi al conte: chiamate Ivan!

Il conte si sentiva il cuore compreso di una pietà senza limite per suo fratello, cui egli tanto amava e cui vedeva tanto soffrire.

Il principe colse quello sguardo e cadde di peso sul solare, innanzi che suo fratello gli aprisse le braccia. [p. 140 modifica]

Maud gettò un grido di terrore e fuggì.

Il conte Alessandro possedeva adesso il segreto di quel disastro di famiglia. Egli rilevò suo fratello che si dimenava nelle convulsioni, e lo depose sur una dormeuse. Poi e’ corse a chiudere gli usci, e fece chiamare Ivan.

Ivan venne. Ed ambo assistettero con amore la povera creatura perduta in tanta sciagura.

Alessandro restò presso di suo fratello tutto il tempo che le convulsioni durarono. Quando però la crisi si calmò, e’ si ritrasse, onde non umiliarlo di sua presenza al ritorno dei sensi. Egli entrò nel gabinetto vicino, per sortire, e si fermò sulla soglia.

E’ vide Maud a ginocchio, che pregava, suffusa, annegata nelle lacrime, gli occhi rivolti al cielo.

Il conte non seppe dominare la sua commozione. Fece un passo verso di lei, le cadde accanto in ginocchio e prendendole la mano gliela baciò.

Quel bacio era una rivelazione, una confessione, una catastrofe: esso risuonò.

Il principe sentillo ribalzare sul suo cuore, e levò la testa — sotto il peso ancora della mano della malattia.

E non potè sollevare il suo corpo. Ma e’ vide suo fratello traversare la camera, senza volger la testa dal lato suo, e partir precipitoso.