I Marmi/Parte terza/Discorsi utili fatti ai Marmi di Fiorenza/Agnol del Favilla, Cecco di Sandro e Simon dalle Pozze

Agnol del Favilla, Cecco di Sandro e Simon dalle Pozze

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Agnol del Favilla, Cecco di Sandro e Simon dalle Pozze
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Agnol del Favilla, Cecco di Sandro
e Simon dalle Pozze.

Agnolo. La plebe bisogna fuggire, l’opinionacce del vulgo bisogna scansare e lasciar la pratica degli ignoranti, che se ne vanno dietro a una comune usanza e a un detto familiare; però, a questo proposito, io ho una pronta novelletta o favola che io mi voglia dire. Egli fu un uccellatore che prese una ghiandaia sotto una rete che egli aveva teso per pigliare degli uccellini; il qual uccellatore era un grand’uomo da bene. Quando la ghiandaia si vedde aviluppata in questo nuovo laberinto, la gli prese a dire: — O valente uomo, perché non mi lasci tu andare? A ogni modo non son molto buona carne e non porto utilitá alcuna a chi mi volesse serbar viva. — E cosí gli fece grandissimi preghi che ei dovesse dargli il volo; poi, non vedendo giovargli cosa alcuna, la si messe a fargli offerte e una fra l’altre gne ne pose a campo: — Io ti farò — disse ella — venir mille ghiandaie sotto questa rete, se tu mi lasci: sí che vedi quanto fia meglio, aver tanti uccelli o un solo. — Allora l’uccellatore, che era uomo da bene, gli rispose: — Per questa cosa solamente tu meriti la morte, perché, per una particularitá tua, tu vuoi assassinar mille tue pari. — [p. 116 modifica]

Cecco. Che volete voi dir per questo?

Agnolo. Non sarebbe stato uccellatore alcuno che non avesse avuto caro l’offerta, anzi piú tosto l’avesse a quel ristio lasciata ir via, se ben la non fosse tornata.

Simone. Io sarei stato un di quegli.

Agnolo. Un plebeo voleva che io acconsentisse a una cosa simile, non è molto, la quale aveva l’utile per apparenza, il danno piccolo, ed era scusata secondo l’opinion vulgare, ma secondo l’uffizio dell’uomo da bene era vituperosa.

Cecco. Egli è venuto un certo tempo che non si guarda a nulla, pur che l’uomo si possi nasconder dietro a un dito della mano.

Agnolo. Questo è che non hanno imparato per pratica a esser uomini da bene, come si son fatti per scienza traditori e scellerati, e sono arrivati a quella parte sola che dá utile alla vita cattiva e non all’anima buona.

Simone. Come si potrebbe egli fare a imparare una scienza che facesse uno uomo da bene?

Agnolo. La filosofia è il vero studio; ma bisogna gustar lo spirito della lettera e non lègger solo il carattere: e cosí si ribatte con questo modo l’ignoranza del vulgo.

Cecco. Questo discorso, o in simil materia, mi piacerebbe una volta d’udire.

Agnolo. Io voglio disputar questo per vostro contento; non come, secondo la filosofia, s’abbi da vivere, ma ben vivere; e dividerò prima il mio dire in due.

Simone. Fate che io oda il vostro termine.

Agnolo. Voglio risolvervi qual parti nella filosofia sien soprapiú, perché conosciate qualche cosa di piú che adesso, forse, non conoscete, e mostrarvi, come io principiai, il vizio e il male della opinion popolare; e cosí voglio entrare in una parte di filosofia solamente per questo conto.

Cecco. Dite cosa che io ne sia capace, se volete contentarmi.

Agnolo. La parte della filosofia che propriamente comanda o dá ordini e legge e non ordina l’uomo in tutte le sue cose, [p. 117 modifica] usa di persuadere al marito o insegnargli come egli si debba portare con la moglie, amaestra il padre come debba allevare i figliuoli; cosí di mano in mano ai signori a reggersi con i suoi sudditi: questa mi pare a me che oggi s’accetti, questa parte sola, dico, che, al mio giudizio, è la manco.

Cecco. Insin qui io intendo benissimo e conosco che l’è cosí.

Agnolo. Ora, tutte l’altre parti son lasciate da canto, perché vagabonde, fuor del nostro utile, sí come nessuno potesse di una parte persuadere se non colui il quale abbia prima compresa la somma di tutta la vita.

Simone. Non ci sono eglino de’ filosofi che son contrarii a cotesta opinione?

Agnolo. Mancano! Egli c’è uno stoico, fra gli altri, che stima questa parte che io dico esser leggieri e la quale non penetri insino al petto.

Cecco. Fate che io intenda meglio.

Agnolo. Egli afferma che i precetti o le ordinazioni di essa filosofia giovano assai e la costituzione del sommo bene, la quale chi ottimamente intende e ha imparata, che bisogni in ciascuna cosa fare egli medesimo si comanderá.

Cecco. Datemi uno essempio.

Agnolo. Eccolo: colui che impara a trarre con l’arco, piglia prima la mira del luogo dove egli vuol trarre o ver lanciare una corsesca o un dardo e accomoda poi la mano a fare l’effetto, sí del trarre come del lanciare; ma, poi che ha imparato a trar benissimo con questo modo e per la pratica, usa di trarre in ogni parte e in ogni cosa che egli vuole, come colui che non s’obliga a un particular segno, ma colpisce dove gli piace, a ogni suo comodo. Cosí l’uomo che è in tutta la vita amaestrato non desidera essere amonito particolarmente, perché in ogni cosa è dotto, non vuole imparare come egli abbia a vivere con la moglie e con i figliuoli, ma come a viver bene; e ci sono degli altri, di questa opinione, che giudicano questa parte esser utile, ma debile, se la non viene dall’universo, ove abbia conosciuti i decreti e principii della filosofia. [p. 118 modifica]

Cecco. Io sono a casa benissimo.

Agnolo. In due quistioni, come avevo giá cominciato poco fa a dire, adunque, si divide questo passo: prima, se egli è utile o inutile, e se può far l’uomo beato egli solo; id est, disse il pedante nostro, se egli è superfluo o se tutti gli altri faccia superflui. Coloro che son d’opinione che questa parte sia superflua, arguiscano, senza logica, in questa forma: se alcuna cosa si oppone all’occhio nostro e ci ritarda la vista, non levando quello si debbe, colui che comanda ha perduto l’opera; cosí dove tu caminerai quivi sporgerai la mano.

Simone. Bisogna avere i termini, certo, chi vuol bene esserne capace.

Agnolo. Medesimamente, quando alcuna cosa accieca l’animo e impediscelo nel riguardar de’ suoi ofizii, nulla fa colui che comanda cosí.

Cecco. Seguite, ché, con quel che voi direte, intenderò il detto.

Agnolo. Tu viverai cosí con tuo padre, cosí con gli altri; nulla gioveranno i comandamenti, fino a tanto che l’animo è circondato dallo error della mente: se quello si scuote, aparirá quello che si debbe fare intorno a qual offizio si voglia; altrimenti, tu insegni quello che debbe far l’uomo sano di mente, ma non per questo vieni a far sano l’uomo.

Cecco. All’essempio vi voglio.

Agnolo. Tu mostri al povero che egli rappresenti la persona del ricco: questo come lo potrá egli fare mentre che sará povero? Fa un poco, a un che abbi fame, che contrafaccia un che sia sazio: togli piú tosto la fame ch’egli ha nelle budella e che lo trafigge. Questo medesimo voglio dir io: che, tutti e’ vizii, bisogna rimover quegli e non comandar quello che non si può far infino a tanto che son padroni, se prima tu non caccierai via le false opinioni per le quali noi siamo molestati: né l’avaro saperá come debba usare la sua moneta né il pauroso come debba farsi beffe de’ pericoli; bisogna, e questo è il verbo principale, che tu gli facci toccar con mano che i danari non sono né bene né male, e poi che tu li mostri con vive ragioni [p. 119 modifica] che i ricchi uomini sono infelicissimi. Passa piú inanzi: e’ bisogna che tu facci lor intendere ancóra che ogni cosa che publicamente ci ha spaventati non è da esser cosí temuta come si dice per fama; e, a un bisogno, me’ faresti agiugnerci il dolore nella morte, e che spesse volte nella morte, la qual patire elegge, è grandissimo piacere; e per che cosa? perché nessuno ritorna; e che il rimedio del dolore non è altro che la gran fermezza d’un bell’animo, il quale fa cosí a sé piú leggieri quella cosa che ostinatamente ha sopportata e mostra che gli è ottima la natura del dolore; perché quello che è longo non può esser grande né quel che è grande può esser longo; e che tutte le cose con forte animo si debbon ricevere, le quali ci comanda la necessitá del mondo. Quando per questi decreti tu gli avrai fatto conoscere la sua condizione, e’ poi conoscerá esser beata vita non quella che è secondo i piaceri, ma secondo la natura, quando amerá la virtú, unico bene dell’uomo, e fuggirá la disonestá, suo unico male; tutte l’altre cose, ricchezze, onori, sanitá, forze e signoria, saprá che è parte mezzana, la quale né fra i beni né fra i mali si debbe annoverare; non desidererá in ogni minima cosa il maestro che gli dica: «cosí camina, cosí ti ferma; questo al marito, questo alla moglie, questo all’uomo, questo al non maritato si conviene»; perciò che coloro che con diligenzia insegnano non possono simil cose lor medesimi operare. Il pedagogo ammaestra il fanciullo, la zia alla nipote comanda, e il maestro pien d’ira vuol mostrar all’uomo che non si debbe adirare. Io mi rido, ché se tu entrerai in una scuola di lettere, saprai che queste cose, che con superba cera insegnano tali filosofi, sono nelle regole de’ fanciulli. Finalmente, o tu comanderai cose chiare o dubbiose: le cose chiare non hanno bisogno d’amonitore e non è creduto a colui che comanda cose dubbiose.

Cecco. Sono, adonque, di superchio i precetti?

Agnolo. Questo certamente impara cosí che, se tu insegni cosa che sia oscura e incerta, ti converrá aiutarla con pruove; se ti converrá provarla, quelle cose, per le quali tu pruovi, son di maggior valore e assai da se stesse bastono. Cosí usa il [p. 120 modifica] tuo amico, cosí il cittadino e cosí il compagno: perché? perché è giusta cosa. Tutte queste m’insegna il luogo della giustizia. Io truovo che ella per se stessa si debbe desiderare; né per paura siamo constretti a quella né per mercede vi siamo condotti; e che colui non è giusto, al quale in questa virtú piace altro che sia fuori di essa. Quando io sono di tal cosa informato e conosco quel che io mi debba fare, a che mi giovano questi precetti, i quali amaestrono e insegnano? Dar precetti a color che sanno è cosa soperchia, a colui che non sa è poco; imperò che debbe udire non solamente quel che gli sia insegnato, ma si cerca ancóra se colui a chi tu insegni abbia vere opinioni de’ beni e de’ mali, le quali sono necessarie, o vero non l’abbia: colui che non le ha, niente sará da te aiutato, imperò che la fama contraria alli tuoi comandamenti possiede le orecchie di quello; se le ha, ha ancóra perfetto giudizio delle cose da fuggire e delle cose da desiderare, sa che debbe far tutte queste cose, ancóra che tu stia cheto. Tutta questa parte, adunque, si può rimover dalla filosofia. Due cose son quelle per le quali noi pecchiamo: o vero la malizia, che nasce da false opinioni, possiede il nostro animo o vero, se non è occupato dalle cose false, è inclinato alle cose false e presto, essendo tirato da una certa sembianza lá dove non bisogna, si corrompe. Adunque, o doviamo procurar la mente integra e liberar quella dai vizii o vero doviamo prevenire a quella vagante, ma inclinata alla peggior parte: l’una e l’altra di queste cose fanno gli decreti della filosofia; adunque, tal generazione di precetti niente fa utile. Oltre a questo, se noi diamo li precetti a ciascuno da per sé, questa è opera incomprensibile; imperò che altri precetti doviamo noi dare all’usuraio, altri al lavoratore de’ terreni, altri al mercante, altri a colui che séguita le amicizie de’ signori, altri a colui che ama i suoi equali e altri a colui che ama li piú bassi di sé. Nel matrimonio comanda come alcuno debba vivere con la sua moglie, come con la ricca, come con quella che egli ha tolta senza dote: non credi tu che egli sia alcuna differenza fra la sterile e quella che fa figliuoli? fra quella che è di piú tempo e quella che ha manco anni? fra la madre e [p. 121 modifica] la matrigna? Non possian noi abbracciar tutte le spezie, ma tutte richiedono da per sé le sue proprietá: non di meno le leggi di filosofia son brevi e comprendono ogni cosa.

Simone. Questa è una gran vena di dire; voi mi parete un filosofo moralissimo.

Agnolo. Aggiungi ora a questo che li precetti dell’uomo savio debbono esser finiti e certi; se alcuni non se ne posson finire, sono fuora della sapienzia. La sapienzia cognosce li termini delle cose: adonque questa parte precettiva si deve rimuovere, perché quello che promette a pochi non può dare a tutti; ma la sapienzia li contien tutti. Fra la publica pazzia e questa la qual si tratta da’ medici non è alcuna differenzia, salvo che questa è molestata dalla infermitá, quella dalle false opinioni, una ha prese le cagioni del furore dalla infermitá, l’altra è infermitá di animo. Se alcuno dará precetti ad un uomo pazzo come debba egli parlare, come caminare, come andare in publico, come in privato, sará piú pazzo che colui il quale ammonisce; perché si deve curare la collera negra e rimuovere la cagione della pazzia. Questo medesimo si deve fare in quest’altra pazzia dell’animo: essa si deve scuotere; altramente, saranno buttate invano le parole delli maestri che amoniscono. Queste cose sono state dette da Aristone, al quale risponderemo particolarmente in tutte. Prima, contra quello che lui dice: «Se alcuna cosa si oppone all’occhio e impedisce la vista, si deve rimuovere». Confesso che costui non ha bisogno de’ precetti per vedere, ma di rimedio, per il qual si purghi la vista e fugga quella cosa che li ritarda la vista, imperò che vediamo naturalmente che ad una cosa si rende il suo uso, quando gli si rimuoveno li impedimenti che li resistevano; ma la natura non ci insegna quello che si debbia fare circa ciascuno officio; oltre di questo, colui che è curato della infirmitá degli occhi, súbito che ha ricevuto il vedere, non può renderlo ad altri: la malizia è liberata. Non bisogna confortar l’occhio né certamente consegliarlo per intendere la proprietá de’ colori; imperò che, senza che alcuno l’amonisca, discernerá il bianco dal negro: per contrario, l’animo ha bisogno di molti precetti, per vedere [p. 122 modifica] quello che li bisogni fare nella vita; benché ancóra il medico non solamente curi, ma ancóra ammonisca gli occhi infermi, e dice allo infermo: — Non ti bisogna súbito commettere la inferma vista alla maggior luce; prima, dalle tenebre procedi all’ombra, poi ardisci alquanto piú e a poco a poco avezza la vista a patire la chiara luce; non studiare dopo il cibo; non comandare con gli occhi pieni di ira e gonfiati; fuggi il fiato del vento e la forza del freddo che ti vengono in contra — e molte altre cose simili, le quali non giovano manco che si faccino le medicine: la medicina aggiunge il conseglio agli rimedii. «Lo errore — dice egli — è cagione del peccare; li precetti non ci toglieno questo; non vincono le opinioni false del male e del bene». Concedoti che li precetti non sono da se stessi efficaci a rimuovere la mala persuasione dall’animo; non di meno, essendo aggiunti all’altre cose, giovano: prima, rinuovano la memoria, poi quelle cose che tutte insiemi piú confusamente si vedevano, essendo divise in parti, si considerano piú diligentemente: o vero, a questo modo, bisogna che tu dichi che le consolazioni e le esercitazioni sono soverchie; ma le non sono soverchie; adonque, né certamente le ammonizioni. «È cosa pazza — dice egli — dar precetti ad alcuno che faccia si come sano, essendo egli infermo e dovendosegli restituire la sanitá, senza la qual son vani li precetti». Ma che dirai tu che li sani e li infermi hanno alcune cose comune fra loro, delle quale debbono essere amoniti, sí come di non pigliare con troppo desiderio li cibi nocivi, che non si affatichino troppo? Il povero e il ricco hanno alcuni precetti comuni. «Sana — dice egli — la avarizia e niente arai per il che tu debbi ammonire o il povero o il ricco; e cosí il desiderio dell’uno e dell’altro si raffrenerá». Ma che dirai tu, che altro è non desiderar denari e altro è saperli usare? La misura de’ quali li avari non sanno e ancóra li non avari non sanno l’uso. «Togli via gli errori — dice egli — e gli precetti saranno soverchi». Questo è falso: pensa che sia rilassata la avarizia, pensa che sia ristretta la lussuria e messo il freno alla temeritá e dato il stimolo alla pigrizia e, poi che saranno rimossi li vizii, se deve imparare [p. 123 modifica] quello che si debbia fare e come si debbia fare. «Nessuna utilitá faranno — dice egli — le ammonizioni alli gravissimi vizii, perché né certamente la medicina vince le infermitá insanabile». È vero; ma ad alcuni si dá la medicina per rimedio, ad alcun’altri per alleggerimento: né certamente tutta la forza di essa filosofia, benché tutta in questo metta le sue forze, trarrá fuori degli animi la giá indurata e antica pèste: ma non per questo mi proverrai che ella non sani alcuna cosa perché non le sana tutte. «Che giova — dice egli — mostrare le cose chiare e manifeste?» Giova assai: perché alcuna volta sappián le cose, ma non vi attendiamo: la ammonizione non insegna, ma ci fa advertenti e destaci e ritien la memoria e non la lascia ricadere: noi passiamo oltre molte cose che ci son poste inanzi agli occhi; lo ammonire è una certa generazion di confortare; spesse volte l’animo finge di non vedere ancóra le cose manifeste; devesi, adonque, rimembrare a quello la notizia delle cose notissime. In questa parte è da raccontare la sentenzia di Calvo contra Vatinio, la qual dice: «Voi sapete che è stato fatto l’ámbito, ciò è corrotto il popolo per danari, e tutti sanno che voi sapete questo; tu sai che santamente le amicizie si debbono esercitare, ma tu no ’l fai; tu sai che è scelerato quell’uomo il qual richiede castitá nella sua moglie e lui è corruttore di quelle di altri; tu sai che sí come la tua moglie non ha da fare con li altrui mariti cosí tu non hai da fare con l’altrui moglie, ma tu no ’l fai: e però ti conviene ridurti a memoria molte cose, e non bisogna che quelle stiano nascose, ma che siano in pronto e palese». Qualunque cose sono salutifere, spesso si debbon ritrattare, non perché solamente ci siano note, ma perché ci siano ancóra apparecchiate; aggiungi ora a questo che le cose aperte si debbon fare piú aperte. «Se le cose che tu insegni — dice egli — sono dubie, ti converrá agiungervi le prove: adonque, le prove e non li precetti gioveranno». Ma che dirai tu, che la autoritá de colui che amonisce gioverá ancóra senza prove sí come la risposta d’un dottor di legge vale, ancóra che non la provi con ragione? Oltra di questo, le cose che si insegnano hanno da se stesse assai efficacia, se o vero sono ridutte in versi o [p. 124 modifica] con una elegante prosa sono ridutte in sentenzia: sí come quelle sentenzie catoniane: «Compra non quello che ti bisogna, ma quello che ti è necessario; Quello che non ti bisogna è ancóra caro per una minima moneta»; sí come son quelle che per divino oracolo son risposte, o simili a queste: «Rispiarma il tempo; Conosci te stesso». Dimmi: dimanderai tu la ragione, se alcuno ti dirá questi versi?

Delle ingiurie il rimedio è lo scordarsi;
     Aiuta la fortuna l’uomo ardito;
     Resiste il pigro spesso a se medesmo.

Queste, o simil cose, non richieggono avocato, perché toccano le proprie passioni, ed esercitando la natura la sua forza, giovano. Gli animi portano li principii di tutte le cose oneste; quelle cose che per l’amonizione si destano, non altrimenti che una favilla di fuoco, aiutata dal vento, dimostran il suo splendore: la virtú, quando è tocca, si dirizza o è sospinta. Sono, oltre a questo, certe cose nell’animo, ma poco pronte, le quali cominciano a esser in espedizione quando che le son dette, alcune altre ghiacciono sparse in diversi luoghi, le quali la non esercitata mente non può ridurre insieme.

Simone. Io ne disgrazio un de’ nostri lettori dello studio: oh, voi sapete sí belle cose?

Agnolo. Adagio: adunque, si debbono ridurre insieme e giungere, acciò che siano piú forte e inalzino piú l’animo; o vero, se i precetti non aiutano ad alcuna cosa, ogni dottrina si debbe rimuovere. — Dobbiamo esser contenti di essa natura. — Coloro che dicano questo non veggano che altro è l’ingegno dell’uomo desto e aveduto, altro quello dell’uomo tardo e pigro.

Cecco. Veramente che uno è piú ingegnoso che un altro.

Agnolo. La forza dell’ingegno si nutrica e cresce per i precetti e alle naturali aggiunge nuove persuasioni e quelle che sono state guaste emenda. «Se alcuno — dice egli — non ha diritti, per dir cosí, decreti, a che gli gioveranno le amonizioni, essendo alli vizii ubligato?» A questo certamente, acciò che si liberi; imperò che la natural bontá non è spenta in lui, [p. 125 modifica] ma si bene oscurata e oppressa: cosí ancóra fa pruova di rilevarsi e si sforza contro alle cose cattive; ma, trovando soccorso ed essendo aiutata dalli precetti, si fa forte, pur che quella continua pèste non l’abbia tinta e amazzata; imperò che né certamente la disciplina della filosofia, con tutto il suo sforzo aiutandola, la potrá restituire, conciosia che non è altra differenza fra li precetti e le leggi di filosofia se non che quelli son generali e quelle sono speziali.

Simone. L’una e l’altra amaestra.

Agnolo. Ma una in tutto e l’altra particularmente. «Se alcuno — dice egli — ha le leggi diritte e oneste, costui sará amonito di superchio». Non è vero; perché costui ancóra è dotto a far quello che debbe, ma a questo a bastanza non riguarda; come dire: noi siamo non solamente impediti dalle passioni che non facciamo cose laudabili, ma dalla ignoranza di trovar quello che ciascuna cosa richiede; abbiamo alcuna volta l’animo ben composto, ma pigro e inesercitato a trovar la via delli suoi ofizii, la qual gli mostra l’amonizione. «Caccia via — dice egli — le false opinioni de’ beni e de’ mali e rimetti le vere in luogo di quelle, e l’amonizione non avrá nulla che fare». Senza dubbio con questa ragione si ordina l’animo; ma non solamente con questa; perché, benché sia stato con argumenti raccolto qual siano i beni e quali i mali, non di meno i precetti hanno ancóra le lor parti, e la prudenza e la giustizia delli ufizii si fanno, li ofizii per i precetti si dispongono. Oltre di questo, il giudizio de’ beni e de’ mali si conferma per la essecuzione delli ofizii alla quale li precetti menano; perciò che l’uno e l’altro fra di loro si consentono né quelli possono precedere che questi non seguitino; se questi seguitano il suo ordine, apparisce che quelli precedeno. «Sono infiniti e’ precetti» — dice egli. — Questo è falso, dirò io; perché delle cose grandi e necessarie non sono infiniti, ma hanno poca differenzia, la qual richieggono i tempi, i luoghi e le persone; ma a questi ancóra si danno i general precetti. «Nessuno — dice egli — con i comandamenti cura la pazzia; adunque né certamente la malizia». Queste son cose dissimili, imperò che, se tu togli la [p. 126 modifica] pazzia, si rende súbito la sanitá. Se noi avremo escluse le false opinioni, non seguirá egli súbito l’intelligenza delle cose che si debbon fare? E se séguita l’amonizione, fortificherá la retta sentenza de’ beni e de’ mali. Quello ancóra è falso, che gli precetti appresso de’ pazzi non faccino alcuna utilitá, perché, si come soli non giovano, cosí aiutano la curazione; vedetelo: l’amonizione e la gastigazione ha raffrenati i pazzi.

Simone. Di quali dite voi?

Agnolo. Di quei pazzi parlo io, la mente de’ quali è commossa, non tolta in tutto.

Simone. Sta bene.

Agnolo.«Le leggi — dice ancóra — non ci fanno far quello che bisogna». E che altro son le leggi che precetti con minaccie mescolati? Principalmente quelle non persuadono che minacciano; ma questi comandamenti non costringano, ma pregano: oltre di questo, le leggi ci spaventano dal peccato, li precetti ci confortano a ben fare. Aggiungete a questo che le leggi giovino ancóra circa i buon costumi; certamente cosí è, se non solamente comandano, ma ancóra insegnano. In questa cosa non mi accordo io con quel Possidonio altrimenti, perché alle leggi di Platone sono aggiunti principii; perciò che la legge debbe esser breve, acciò che piú agevolmente gli ignoranti l’abbino a memoria, sí come fosse una voce mandata dal cielo, la quale comandi e non disputi. Nessuna cosa mi pare piú fredda e piú rozza che una legge a modo di diceria: dimmi quel che tu vuoi che io faccia; io non imparo, ma ubidisco. Adunque, giovano, perché tu vedrai usar cattivi costumi ad alcune cittá che hanno usate cattive leggi; ma non giovano apresso di tutti: né ancóra la filosofia; e per questo non è ella giá inutile a formar l’animo.

Cecco. Che cosa terminate voi che sia filosofia?

Agnolo. Che altro è ella se non legge della vita? Ma stimiamo che le leggi non giovino; non séguita per questo che né le amonizioni ancóra giovino; o vero, cosí, niega che le consolazioni giovino: tutte queste son generazioni di amonizioni, per queste si perviene al perfetto stato dell’animo. [p. 127 modifica] Nessuna cosa veste piú gli animi delle cose oneste (e li dubbii e inclinabili alle prave cose rivoca alla ragione) che la conversazione degli buoni uomini; conciosia che a poco a poco discende nell’animo e ottiene forza di comandamenti quello che spesso si ode e spesso si vede. Scontrarsi ancóra nell’uomo savio giova, ed è alcuna cosa nell’uomo grande che ti giova: né facilmente ti dirò come giovi e come io intendo che m’abbia giovato. Alcuni minuti animali, sí come dice Fedone, quando mordono, non si sentono, cosí è sottile e ingannatrice nel pericolo la lor forza; poi l’enfiatura dimostra il morso e in essa tumefazione nessuna ferita aparisce: questo medesimo ti averrá nella conversazione degli uomini savi; tu non conoscerai come e quanto t’abbino giovato.

Simone. A che proposito dite voi cotesto?

Agnolo. Ecco: parimente i buoni precetti ti gioveranno, se sono apresso di te come li buoni esempi. Pittagora dice che divien d’altra sorte l’animo di colui che entra nel tempio, e che da presso vede le imagini delli dei e aspetta la voce di qualche oracolo o risposta: ma chi è colui che niega che siano feriti efficacemente da alcuni precetti ancóra gli ignorantissimi, sí come da queste brevissime voci, le quali hanno assai efficacia: «Il troppo avaro animo non si sazia per alcun guadagno; Aspetta da altri quello che tu farai ad altri»? Quando noi udiamo queste cose con una certa compunzione, né ad alcuno è lecito dubitare né dimandar perché: cosí la veritá ancóra, senza ragione o pruova, guida. Se la riverenza raffrena gli animi o vero i vizii, perché non può questo medesimo l’amonizione? Se la castigazione impone vergogna e rossore, perché no ’l debbe fare l’amonizione ancóra, se usiamo i semplici precetti? Ma quella è piú efficace e piú profondamente penetra, la quale aiuta la ragione, la qual comanda, la qual accresce e insegna perché si debba fare qualunque cosa. E qual frutto aspetta colui che fa e obedisce alli comandamenti? Se per il comandamento e per l’amonizione si faccia frutto, parimente si fa frutto per il comandamento: adunque, e ancóra per l’amonizione. La virtú si divide in due parti: nella [p. 128 modifica] contemplazione del vero e nell’azione. La instituzione dalla contemplazione; la amonizione dell’azione; la diritta azione esercita e dimostra la virtú. Ma se colui che persuade gioverá a colui che esercita la virtú, ancóra colui che amonisce li gioverá: adunque, la diritta azione è necessaria alla virtú e l’amonizione dimostra la diritta azione: ancóra l’amonizione è necessaria. Due cose dénno assai fortezza all’animo: la fede del vero e la fidanza: l’amonizione fa l’una e l’altra; perché si crede a quella e, poi che gli è creduto, lo spirito genera grandi animi ed empiesi di fidanza: adunque, l’amonizione non è soverchia. Marco Agrippa, uomo di grand’animo, il qual solo, di quegli che per le civile battaglie furon fatti alti e potenti, fu in publico felice, soleva dire che era molto ubligato a questa sentenza: «Per la concordia le piccole facultá crescano, per la discordia le grandissime rovinano»: con questa diceva egli essersi fatto e fratello e amico ottimo. Se queste simili sentenze, familiarmente nell’animo ricevute, formano quello, perché questa parte di filosofia, la qual si fa di tal sentenze, non potrá questo medesimo? Una parte della virtú consiste nell’artifizio, l’altra nell’esercitazione: bisogna imparare; e quello che s’è imparato, con l’azione confermarlo. Il che se è cosí, non le cose solamente che si fanno giovano alla sapienza, ma ancóra li precetti, i quali, sí come uno editto, raffrenano e obligano li nostri animi. «La filosofia — dice egli — si divide in queste due cose: in scienza e in abito dell’animo; imperò che colui che ha imparato e comanda quello che si de’ fare e quello che si dee fuggire non è ancóra savio, se prima l’animo non si trasfigura in quelle cose che ha imparate». Questa terza parte da imparare è dall’uno e l’altro, e dalle leggi e dall’abito; adonque, è soverchia ad empire la virtú, alla quale queste doi cose bastino: adonque, a questo modo la consolazione ancóra è soverchia (imperò che ancóra questa procede dall’uno e dall’altro), e la persuasione e la esortazione ed essa argomentazione, perché questa ancóra procede dall’abito dell’animo ordinato e forte. Ma, benché queste venghino dall’abito dell’animo, lo ottimo abito dell’animo procede da queste e da quelle: indi, questa [p. 129 modifica] opera, la qual tu dici, è giá di uomo perfetto e giunto alla somma della umana felicitá. Ma a questo tardi si perviene: in fra tanto si deve dimostrare ancóra all’uomo imperfetto, ma che faccia frutto, la via delle cose che si debbon fare; questa forse senza ammonizioni li mostrará la sapienza, la quale a tanto ha condotto l’animo che non si possa muovere se non in bene. Certamente alli imbecilli ingegni è bisogno che alcuno vadia inanzi: «Questo tu fuggirai; questo farai». Oltra di questo se aspetta il tempo nel quale per se stesso sappia quello che sia meglio da fare, fra questo mezzo errerá, ed errando sará impedito che non possa pervenire a tale che sia contento di se stesso: devesi, adonque, reggere, mentre che incomincia a potere esser retto. I fanciulli per scrittura imparano; tengonsi le dita di quegli e con la altrui mano son menati per le figure delle lettere, poi gli è comandato che imitino lo essempio e secondo quello riformare il scritto: cosí il nostro animo, mentre che si ammaestra, è aiutato da quello che gli è prescritto. Queste sono le cose per le quali si pruova questa parte della filosofia non esser soverchia. Domandasi poi se a far l’uomo savio solamente sia bastevole: a questa questione daren noi il suo giorno; fra tanto, pretermettendo li argomenti, apparisce che noi abbián bisogno di advocato il quale ci ammaestri contra li precetti del popolo. Ogni cosa che noi odiamo ci è pericolosa: ci nuoceno coloro che ci desidran bene e coloro che ci desidran male; imperò che il mal dire di questi ci aggiunge falsi timori e lo amor di quegli ci insegna male, desiderandoci bene; imperò che ci manda alli lontani beni e incerti e instabili, possendo noi trar di casa la felicitá. Non mi è lecito, dirá alcuno, andar per la via deritta, perché mi tirano alla pravitá mio padre, mia madre e li miei servi. Nessuno errará per sé solo, ma sparge la pazzia fra il prossimo e ricevela insiemi; e però in un solo sono i vizii di piú popoli, perché il populo li ha dati quelli. Mentre un uom fa l’altro peggiore, ancóra lui doventa peggiore: ha imparate le cose peggiori e poi le ha insegnate; e quella nequizia essendo fatta maggiore e radunata in uno, si sa qualonque cosa pessima. Sia, adonque, [p. 130 modifica] alcun guardiano, il qual ci turi gli orecchi e cacci via li romori e riprenda coloro che ci lodano. Tu erri certamente, se credi che li vizii naschino con esso noi; elli ci son sopra venuti e sonoci stati aggiunti: adunque, con le spesse ammonizioni, le opinioni che intorno ci risuonano, raffreniamo. A nessun vizio la natura ci fa, per tempo alcuno, amici; ella ci ha generati liberi e integri: niente in vero ella ha posto in palese, che potessi incitar la nostra avarizia; ella ci ha posto sotto li piedi l’oro e lo argento e hacci concesso che lo debián premere e calpestar co’ piedi, e ogni altra cosa per la qual noi siamo oppressi e calpestati; quella ha derizzato il nostro aspetto al cielo, e qualunque cosa la quale o magnifica o maravigliosa avea fatta, ha voluto che si veda da coloro che riguardano in alto: li nascimenti e li occasi delle stelle e il volubil corso del veloce mondo, il quale il giorno ci mostra le cose terrene e la notte le cose celeste; li tardi camini delle stelle se le assomegli al tutto, e velocissimi se tu consideri quanti spazii circondino mai, interlassando la loro velocitá; li defetti del sole e della luna, delli quali l’uno all’altro si oppone, e molte altre cose dipoi degne di amirazione, le quali o vero vengono per il loro ordine o vero perché da súbite cagioni sono mosse, si come li fuochi notturni chiamati baleni e li splendori del cielo li quali si scopreno senza alcun romore o suono, e le colonne e le travi e altre imagine di fiamme. Tutte queste cose la natura ha ordinate sopra di noi. L’oro certamente e l’argento e il ferro, il qual mai per questi fa pace, sí come male fossi in nostre mani lassato, volle nascondere: noi medesimi abián recato a luce quelle cose per le quali l’un con l’altro avessimo a combattere; noi le cagioni de’ nostri pericoli e li instrumenti, minando il peso della terra, caviamo; noi abián dati in man di fortuna li nostri mali, né ci vergognamo che quelle cose siano apresso di noi stimate somme le quale erano nel piú basso luogo della terra. Vói tu sapere quanto sia falso lo splendore che inganna gli occhi tuoi? Nessuna cosa è piú brutta né piú oscura di quelli, fino a tanto che sono ravvolti nel suo fango: e perché non debba egli esser cosí, quando per le tenebre delle [p. 131 modifica] longhissime grotte si cavan fuori? Nessuna cosa è piú difforme di quelli, fino a tanto che non si lavorano e seperansi dalla sua feccia. Finalmente riguarda ad essi artefici, per man delli quali la sterile generazione della terra e difforme si purga; tu vedrai da quanta fuligine siano tinti e circondati: ma questi macchiano piú l’animo che ’l corpo, e maggior bruttezza è nel possessore di quelli che nello artefice. È, adunque, necessario d’essere ammonito e di avere alcuno advocato di buona mente e in tanto romore e strepito di cose false odire finalmente una voce. Qual sará quella voce? Quella certamente la quale ti metta negli orecchi parole salutifere, essendo tu assordito da romori ambiziosi; la qual voce ti dica: non ti bisogna avere invidia a cotestoro li quali grandi e felici dal popolo son chiamati; non ti bisogna scuotere da te l’abito della buona mente e la sanitá, per lusinghe che altrui ti faccia; non ti fará fastidio della tua tranquillitá quel consule vestito di porpora; non ti bisogna giudicar piú beati coloro alli quali li officiali fanno far largo nella via. Se tu vuoi essercitare una signoria a te utile e a nessuno molesta, caccia via da te li vizii. Trovansi molti che mettono fuoco nelle cittá, alcuni altri li quali buttan per terra cose inespugnabili e sicure per molte etá, alcun’altri che fabricano ripari iquali alle ròcche e scrollano con instrumenti bellici le mura fabricate in maravigliosa altezza; sono molti che inanzi a sé cacciano le schiere e gravemente molestano li inimici drieto alle spalle e, giunti fino al mare grande, si spandono alla occision degli uomini, ma ancóra costoro, benché abbian vinto lo inimico, son stati vinti dalla cupiditá. Nessuno resiste loro quando vanno incontro al nemico, ma né anche loro sono restati alla ambizione e alla crudeltá: quando che parea che loro discacciassino altri, erano discacciati. Il furore discacciava il misero Alessandro di saccheggiar le altrui facultá, e mandavale in diversi paesi. Credi tu che fossi sano di mente colui il quale incominciò primamente dalle distruzioni di Grecia, nella quale fo ammaestrato, e tolse ad ogn’uno quello che aveva migliore, comandò che Lacedemoni servisse, che Atene tacessi, non contentandosi della ruina di tante cittá, le quale o vero aveva [p. 132 modifica] vinte Filippo suo padre o vero avea comprate, alcune in diversi luoghi ne edifica e per tutto il mondo porta le arme? Né si ferma in alcun luogo la affaticata crudeltá delli ferocissimi animali, la quale alcuna volta morde piú che la fame non richiede: giá ridusse molti regni in un regno; giá gli greci e gli persii temevono quel medesimo; giá ancóra le nazioni che erano libere dallo imperio di Dario ricevenno il giogo; costui medesimo passò oltre il mare oceano e oltre al sole, e sdegnossi rivocare adrieto la sua vittoria da le colonne di Ercole e li segnali di Bacco, e volle far violenza ad essa natura; lui non vuole andare, ma non può fermarsi, non altrimenti che si facci un peso, quando è buttato all’in giú, al quale il fermarsi è fine di andare. Né ancóra a Gneo Pompeio o la propria virtú o la deritta ragione persuadeva a dover far guerra alle strane nazioni, ma un sfrenato amore della falsa grandezza: ora in Spagna contra le sertoriane armi, ora a raccôrre li pirati o ver corsali e a pacificare il mare andava: queste cagioni trovava egli per far maggiore la sua potenzia. Qual cosa condusse quello in Africa? quale in settentrione? qual contra Mitridate e li armenii e tutti li cantoni di Asia? Certamente la infinita cupiditá di crescere, parendo a se medesimo poco grande. Qual cosa fe’ andare Iulio Cesare parimente nella sua ruina e della republica? La gloria e l’ambizione e il voler senza misura esser sopra gli altri: egli non potette sopportare che uno fossi inanzi a lui, conciosia che la republica doi sopra di sé ne sopportassi. Che credi tu che Gaio Mario, una volta consule (imperò che un solo consulato ricevette, gli altri rapí per forza), quando superò li tedeschi e li cimbri, quando perseguitava Iugurta per li deserti di Affrica, desiderassi tanti pericoli per istinto di virtú? Mario guidava lo essercito e la ambizione guidava Mario. Costoro quando facevan tremare tutto il mondo, tremavan loro, a modo della ventosa tempesta, la quale le cose rapite ne porta via; e per queste cose ne son portati con maggiore impeto, perché non hanno alcuna podestá sopra di se stessi: adonque, avendo nociuto a molti, anche loro senteno quella pestifera forza con la quale han nociuto. Non credere che alcuno si facci [p. 133 modifica] felice per la altrui infelicitá: tutti questi esempii li quali ci son posti inanzi a gli occhi e gli orecchi, dovem noi rifiutare ed evacuare il nostro petto il quale è pieno di falso parlare; devesi indurre nel luogo occupato la virtú, la quale svella da noi le bugie che contra la veritá piacciono, la quale ci seperi dal popolo, al qual noi troppo crediamo, e ci restituisca alle sincere opinioni. E questa è la sapienzia degli uomini: convertir sé alla natura e ritornare in quel stato donde il comune errore ti aveva cacciato. È gran parte della sanitá aver lasciati coloro che ti confortano alla pazzia, e da questa compagnia aver discacciate le cose che comunemente nuocono. E a ciò che tu sappia questo esser vero, riguarda che ciascuno altrimenti vive al popolo e altramente a sé. La solitudine da se stessa non è maestra della innocenzia né le ville t’insegnano a viver temperatamente; ma quando non v’è testimonio e un che ti riguardi in presenzia, li vizii alquanto si acquetano, il frutto de’ quali è esser mostrati ed esser veduti. Chi si vestirá mai la porpora per non mostrarla ad alcuno? chi ha secretamente la vivanda nascosa nell’oro? chi è colui che, standosi sotto l’ombra di un rustico arbore, a sé solo ha spiegata la pompa del suo lussurioso vivere? Nessuno è delicato solamente per il suo occhio né certamente solo per i pochi suoi familiari, ma spende lo apparecchio delli suoi vizii secondo la quantitá della turba che riguarda. Adunque, colui che si maraviglia, ed è consapevole, è quasi come stimolo di tutte le cose per le quali noi impazziamo. Tu farai che non desidereremo, se pòi fare che non mostriamo: l’ambizione, la pompa e la impotenzia desidrano il popolare spettacolo; tu sanerai queste infirmitá, se le nascondi. Adunque, se noi siamo collocati in mezzo dello strepito delle cittá, abbiamo allato uno amonitore, il quale, contro alli lodatori delli gran patrimonii, lodi colui che di piccola cosa è ricco e secondo l’uso misura le ricchezze contra coloro che inalzano la grazia e la potenzia; lodi egli l’ozio dato alle lettere l’animo delle altrui cose alle sue ritornato; dimostri che coloro li quali per costituzione del vulgo sono beati, tremano e sono attoniti in quella sua invidiosa altezza e hanno assai diversa [p. 134 modifica] opinione di se stessi che non hanno gli altri; perché le cose agli altri in loro paiono alte, son pericolose e cagione di gran ruina, e per questo pèrdono l’animo e tremano ogni volta che pensano nella caduta della loro altezza, per ciò che pensano varii casi che nella maggiore altezza sogliono essere piú labili; e allora temono le cose giá desiderate e quella felicitá, che ad altri gli fa molesti, a loro è molto piú grave; allora lodano il temperato ozio e hanno in odio lo splendore che è in sua potestá, e cercano la fuga, stando ancóra in piede le sue facultá; allora vedrete che per paura si dá opera alla filosofia e della inferma fortuna a’ sani consigli; imperò che son quasi contrarie queste due cose, la buona fortuna e la buona mente. E cosí siamo noi piú savii nelle aversitá; conciosia cosa che la prosperitá ci tira adietro dalla buona via.

Ma con chi parlo io? Voi dormite! O virtú, dove sei tu condotta, che non trovi chi ti voglia e non hai chi ti riceva, né pur due orecchie che ti voglino udir parlare! Sia con Dio: poi che sète adormentati, dormendo vi lascio.