I Marmi/Parte terza/Discorsi utili fatti ai Marmi di Fiorenza/Lo Spedato e il Viandante, academici Peregrini

Lo Spedato e il Viandante, academici Peregrini

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Lo Spedato e il Viandante, academici Peregrini
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Lo Spedato e il Viandante, academici Peregrini.

Spedato. Bellissimo fu quel discorso filosofico che io udí’ iersera; oh bello!; ma pochi uditori si ritrovano oggi che si dilettino d’altro che di baie; qualche novelletta da passar tempo, qualche bella tiratella di ciancie o di favole è la chiave del gioco.

Viandante. Veramente che l’è cosí; io son ancóra di cotesta opinione, che se uno scrive o ragiona, e sempre ragioni, di cose alte, dotte, profonde, stupende e mirabili, che le gente poco poco se ne curano; ma come tu entri in fanfalucole, «frate, bene sta», disse il Boccaccio.

Spedato. L’altra sera egli fu raccontato un caso d’un che tolse due mogli, una giovane e l’altra vecchia.

Viandante. A quel tempo s’usava pigliarne due, forse?

Spedato. Si, che ci mancano i tristi oggi! Ora costui si trovava piú tosto nel tempo da cominciare a lasciar star le donne che a goderle e di giá aveva il capo mezzo canuto; la giovane, che avrebbe voluto piú tosto gioventú che vecchiezza a torno, aveva in odio quei capelli d’ariento, e, cosí, cominciò a cavargnene fuori, ora della barba e ora del capo, tanto che a poco a poco la non ve ne lasciò nessuno.

Viandante. Oh che stolto marito a lasciarsi uccellare di sí fatta sorte!

Spedato. Oh che stolta femina a credersi di ringiovenirlo! Tutti due, brevemente, avevano poco sale in zucca. L’altra moglie, ch’era di tempo, stette a veder questa stoltizia, e poi vidde con effetto che, per batter troppo il chiodo, volendo con la giovane far del gagliardo, il suo marito a suo dispetto (diseccandosi l’umore per altra via) veniva canuto a furia; e per farlo conoscer pazzo a fatto, vedendogli pochi peli rimasti in capo, la gli disse un giorno: — Caro marito, come stavi tu bene a questi giorni senza un pel canuto al mondo; da poi che [p. 136 modifica] ti sono rinasciuti, apparisce molto brutto il tuo capo: però sia contento, avendo aconsentito a quella altra donna, che ancóra io ne abbia la parte mia di questo contento di trarti via quei che vi sono rinati. —

Viandante. Oh che femina maliziosa!; perché era vecchia.

Spedato. Il buon moccicone stette saldo al martorio, onde ella gli cavò tanti capelli che pareva la piú pazza cosa del mondo. Vedete quando uno si pela che figura da cemboli ei pare! Onde si levò quella canzone in lingua francese:

     Qui se veult me tire en mariage
il fault chercher la femme sage;
     de la folle ne tenir conte,
qui ne fait que dommage et honte.

Si lamenteranno poi tali scimoniti che son mal maritati, quando son menati sí fattamente per il naso; niente di manco, possono schermirsi da sí fatti errori.

Viandante. E’ mi paion parenti della Disgrazia; e’ sono sfortunati.

Spedato. Non dir cosí, ché la Fortuna non ti senta, di grazia; ché, per la mia fede, la ti farebbe conoscere che avresti il torto: e sopra questa cosa ascolta questa favola.

Viandante. Di’, via, ché queste sono a punto cose da dire ai Marmi.

Spedato. Sedendo un bellissimo giovane inamorato sopra l’orlo d’un pozzo, e’ adormentossi dolendosi della Fortuna, che gli era si contraria ai suoi amori; onde, dormendo, venne la Fortuna e lo destò dicendogli: — Fratello, se qualche uno ti avesse dato una spinta e fattoti cadere nel pozzo, che avresti detto poi: «l’è stata la mia fortuna cattiva»? Perché ordinariamente, fratel caro, voi da voi medesimi vi mettete ne’ pericoli estremi e, per iscusarvi poi delle vostre stoltizie che voi fate, accusate la Fortuna, la qual non s’impaccia in conto alcuno de’ fatti vostri. —

Viandante. Coteste novellette l’ho vedute in un libretto francese. [p. 137 modifica]

Spedato. Le sono in questo che tu vedi: e ci sono le vite antiche de’ poeti provenzali, quelli che furon da Dante tanto lodati e dal Petrarca; e ci sono ancóra le rime loro amorose.

Viandante. Chi t’ha accomodato di sí fatto libro?

Spedato. Egli era del reverendissimo Bembo, ed è stato donato al reverendissimo monsignor Lodovico Beccatello, legato del papa a Vinegia.

Viandante. Quel mirabile intelletto? Io ho udito dire della nobiltá del suo animo cose stupende e maravigliose.

Spedato. Tu non n’hai udite tante che egli non ne sia piú: prima, egli è cortese e virtuoso; poi, aiuta tutti i letterati e’ begli ingegni che gli vengano inanzi; e, quel che vale e tiene, è ch’egli ha pochi suoi pari che sieno uomini da bene come lui, specchiati nella sua corte e ne’ costumi di tutti.

Viandante. So ben che egli ha due uditori, dottori mirabili, messer Francesco e messer Rocco1.

Spedato. Tutta la famiglia, brevemente, è la creanza della gentilezza.

Viandante. Messer Gasparo e don Giovanni, che ne dite?

Spedato. Dico quel che ho detto e dirò mille volte, che loro e tutta la sua corte mostrino quanto sia il merito dell’eccellenza e della nobiltá dell’animo del lor signore.

Viandante. Che farai di cotesto libro?

Spedato. Stamperassi súbito.

Viandante. Oh, e’ ci sono i versi e francesi e italiani?

Spedato. Questo fia bel sentire: ascolta, di grazia, questa prima vita.

Viandante. Questi altri scritti da parte che sono?

Spedato. Son miei, perché ho provato a far una vita alla moderna.

Viandante. Come, cosí alla moderna? [p. 138 modifica]

Spedato. Perché queste son fatte all’antica: qual vuoi tu che io ti legga prima, l’antica loro o la moderna mia?

Viandante. Qual vi piace: pure, fia meglio udire prima l’antica.

La vita d’Analdo Daniello.

Spedato.«Arnaldo Daniello si fu di quella contrada donde fu Arnaldo di Marveill, del vescovado di Peiregors, d’un castello che ha nome Ribairac; e fu gentiluomo e apparò ben lettere e fecesi giocolari e prese una maniera di trovare in care rime; il perché sue canzoni non sono leggiere ad intendere né ad apprendere. E amò una alta donna di Guascogna, moglie di Gulielmo di Bouvila; ma non fu creduto che la donna mai gli facesse piacere in dritto d’amore: lá onde egli disse: ‛Io sono Arnaldo che amasso l’aura, e caccio la lepre col bue e nuoto contra vento tempestoso’. E qui sono delle sue canzoni sí come voi udirete».

Viandante. Volete voi altro? che le mi piacciono in cotesta semplicitá e non le vorrei altrimenti; pure, avrò caro d’udir la vostra composizione.

Spedato. Egli è forza che io la cavi da questo poco e non posso dirvi altro.

Viandante. Dite, via, basta veder quel che voi fate da moderno a paragone dell’antico, come dir tradotta, sfioreggiata, ampliata, distesa; o una parafrasi, n’è vero?

Spedato. Tu me la tiri troppo alta la cosa: ascolta quello che ella è; tu la sentirai e poi mi dirai il tuo giudizio, s’io la debbo far cosí. «E’ non è dubbio che i cieli in ogni etá hanno sempre prodotti ingegni mirabili e per tutte le parti del mondo del continuo ne nasce, ora in una cosa e ora in un’altra, eccellentissimi. Questo aviene perché gli ordini celesti del continuo operano. Noi sapiamo che la mente angelica ha, dall’onnipotente e massimo fattore, l’essere, il vivere e l’intendere; cosí l’anima razionale, che da essa mente è prodotta, ha lo intendere, il muovere e ’l fingere. Per che l’anima razionale intende sé e [p. 139 modifica] le altre cose incorporee, muove le corporee e l’altre incorporee; muove le corporee che sono eterne, quali sono i cerchi celesti, fabrica e finge le corporee corrottibili mediante il moto de’ corpi eterni; per che, movendo loro, dipinge nella materia inferiore quelle forme delle cose quali ha in sé concette e dalle quali forme, raggi dell’intelligibile sole, è illuminata; e cosí come lei dalla angelica mente le riceve, cosí ancóra alla materia le communica. Per tal modo, adunque, ciò che essa in sé contiene, diffende, producendo ogni altra natura particolare, che dopo lei si trova. E perché da essa, cioè dall’anima razionale, è prodotta l’anima sensitiva e motiva del corpo....»

Viandante. Ma, se tu mi fai di cotesti discorsi a tutte le vite....

Spedato. Lasciami finire.

Viandante. Io veggo una grande scrittura e comprendo che tu vuoi mostrare che cotesto poeta aveva un dono mirabile dal cielo, e da quello intelligente: ma lascia per ora i discorsi e vieni alla vita.

Spedato. Tu mozzi il piú bello.

Viandante. Un’altra volta con piú comoditá: di’, via, la vita, passa inanzi.

Spedato. Non la voglio altrimenti lèggere, s’io non la leggo per ordine.

Viandante. Leggi le rime nell’una e l’altra lingua.

Spedato. Son contento; ma avertisci che i versi non sono misurati; basta che tu odi il suggetto e attendi piú al senso che alle parole.

1
     Lo ferm voler qu’el cor m’intra
no m pot ges becx escoissendre ni ongla
de lantengier sitot de maldir s’arma;
e pos non l’aus batr’ab ram ni ab verga,
si vals a frau lai on non aurai oncle
iautirai ioi en vergier o dins cambra.

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2
     Can mi sove de la cambra
on a mon dan sai que nuills om non intra,
ans mi son tug plus que fruire ni oncle,
non ai membre nom fremisca ni ongla,
plus que no fai l’enfans denan la verga,
tal paor ai queill sia trop de m’arma.

3
     Del cors li fos, non de l’arma,
em consentis a selat dins sa cambra
que plus me nafra’l cor que colp de verga;
car lo siens sers lai on ill es non intra,
de lei serai aisi com carns e ongla,
e non creirai caiticx d’amie ni d’oncle.

Arnaldo Daniello.

1
     Il fermo voler che nel cuore m’entra,
non mi può becco scoscendere né unghia
d’amico sogliardo, tutto che de mal dir s’armi;
e poi che non l’oso batter con ramo né con verga,
almeno di nascoso, lá ove non avrò zio,
prenderò gioia in giardino o dentro a camera.
2
     Quando mi soviene della camera,
ove a mio danno so che nessun uom non entra,
anzi mi son tutti piú che fratelli o zio,
non ho membro che non mi tremi né unghia,
piú che non fa il fanciullo dinanzi alla verga,
tal paura ho che vi sia troppo di mia alma.
3
     Col corpo vi fossi, e non con l’alma,
e mi consentisse celatamente dentro a su’ camera
che piú mi ferisce il cuore che colpo di verga;
però che il suo servo lá ove ella è non entra,
di lei sarò cosí come carne e unghia,
e non ubidirò a gastigo d’amico né di zio.

Viandante. Non dir piú; ecco il Pazzo e il Savio, academici nostri: so che sono accoppiati per una volta. Ascoltiamo il loro ragionamento.

  1. Francesco Martello da Reggio, prima uditore a Venezia, poi vicario generale a Ferrara e da ultimo vescovo nella patria sua, e Rocco Cataneo, come trovo nei Monumenti di varia letteratura tratti dai manoscritti di monsignor Lodovico Beccadelli, arcivescovo di Ragusa, tomo I, parte I, in Bologna, nell’Istituto dello scienze, MDCCXCVII, in 4». Onde molto, anche alla lettera, trasse G. Fantuzzi, Notizie degli scrittori bolognesi, II, Bologna, 1782 [Ed.].