Guerino detto il Meschino/Capitolo V
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CAPITOLO V.
Il combattimento nella Bastia di cinquanta contro cinquanta
assicura la pace ai Greci, a’ quali sono da’ Turchi restituite le terre tolte.
«O uomo, qualunque tu ti sia, io sono stato eletto dal nostro signor imperatore e dal Consiglio a rispondere alle proposizioni di pace, per cui Astiladoro ti ha mandato. Però alla prima domanda dell’omaggio rispondo in nome di tutti, che avendo mille uccelli marini, noi non vi daremmo una penna. Al fatto della pace, noi ce ne curiamo poco; imperocchè in corto tempo non tanto da Costantinopoli, ma da tutta la Romania e Grecia vi caccieremo. Al fatto poi de’ prigioni, noi siamo contenti darvi questi tre pel nostro Alessandro, e più ancora se ne avessimo a cambiare, non già per paura, ma perchè il figliuolo dell’imperatore di Costantinopoli quest’onore si merita, un Cristiano valendo assai più che mille Saraceni». Sentite queste parole dette con animo franco e sicuro, fu accettato e fermato il cambio. L’ambasciatore poi soggiunse: «Il mio signore Astiladoro non vuol più mettere la sua guerra corpo a corpo, ma se volete far battaglia cinquanta contro cinquanta egli sarà contento. Meglio è arrischiare la vita di cinquanta combattenti che di un intiero esercito. E per questo la parte che acquisterà vittoria, debba esser ad un tempo vincitrice della guerra». A questa domanda il consiglio parve in sospeso, che cosa avesse a rispondere; ma il Meschino, accorto come era e geloso dell’amore di tutta la Grecia, disse ad Albajetro con grande ardire: «Senz’altro, accetto la battaglia di cinquanta contro cinquanta». Il consiglio fu sciolto, ed il re ambasciatore tornato al campo, e fatta la sua ambasciata insieme ad alcuni ambasciatori venuti dalla parte dell’imperatore, fu subito deciso il cambio. Ed il cambio dei Turchi con Alessandro fu fatto alla porta della città in presenza di tutta la corte e di gran moltitudine di popolo. «O Cristiani, togliete Alessandro, voi che siete in tanta necessità, che avete cambiato un fanciullo per tre baroni siffatti»: disse alcuno degli ambasciatori turchi nel mentre che questo cambio si faceva. A cui il Meschino, che presente era: «Siete voi che avete venduto un Cristiano per tre cani; chè più vale Alessandro che tutta insieme la Turchia, obbrobrio delle nazioni». Queste parole fecero tutto il campo mormorare.
Albajetro non aveva dette nel campo le parole, che il Meschino disse nel consiglio, per non ispaventar le genti; ma solo fe’ sapere a tutti, come egli aveva veduto il Meschino, e come questi era un bel cavaliere e pieno di molto ardire. Nel giorno stesso fermossi la tregua per un mese per essere in tempo di trovare ognuno cinquanta cavalieri, i quali, compiuta la tregua, dovessero combattere per la liberazione della sua parte. Nella tregua fu fatto, che niun Turco potesse entrar nella città con arme, e non più che cinquanta; all’incontro dei Greci, i quali potevano andare nello steccato del campo nemico con arme e senza.
L’imperatore mandò per tutta la Grecia per soccorso, e vennero molti cavalieri e baroni, fra’ quali venne Costantino duca dell’Arcipelago, Archilao di Scio ed Amazzone signor di Negroponte suo fratello. E vennero in tutto circa sei mila, onde fu dai Cristiani considerata la signoria che i Greci ancora tenevano. E qui si potè inoltre veder anticamente la poca potenza di Alessandro, ovvero la pratica de’ Lacedemoni, o la somma rabbia e virtù di Agamennone e suoi seguaci. Quella battaglia fu un sorprendente testimonio del molto eroismo e delle gran sagacità che i Greci potevano avere sul campo della guerra. Ma ora è in tanta necessità la Grecia, che ad una poca potenza di Turchi non poteva riparare. Voglia Iddio, che il simile non avvenga alla mia città la quale veggio per i suoi impedimenti della giustizia a prossima ed irreparabile rovina, se Dio non muta negli intrinseci corpi la ingiustizia e le rie ingiurie!1
L’imperatore fece grandissimo onore ai signori Greci a lui venuti in soccorso e per il salvamento della patria. Essendo poi compita la tregua, egli li raunò tutti innanzi a lui, e disse loro come la battaglia era formata, e come erano assegnati cinquanta per parte da combattere. Poscia li pregò lagrimando per la difensione di tutta la Grecia, loro dicendo: «Se questa città è sottoposta ai Turchi, tutta la Grecia sarà sottoposta, e le nostre donne e figliuoli vituperosamente meneranno ne’ loro paesi. A Dio piaccia, che non sia! Per questa ragione si dovrebbe trovare ogni uomo per la difensione della sua patria e della sua religione». Per queste parole tutti i signori Greci si levarono in piedi, proferendosi ognuno a questa battaglia, pronti a sacrificare fortuna e vita per la cadente Grecia. Ricordarono allora la virtù de’ loro padri, e rossi in volto dalla vergogna di dover soggiacere al Barbaro, di dover prostituire libertà e patria alle oppressioni del Mussulmano, secretamente fremettero di rabbia, e giurarono in presenza dell’imperatore questo giuro tremendo: «Iddio ascolta le nostre parole: o morte a tutti noi, o sia salva la patria!»
Tutti furono scritti per la battaglia, fra’ quali fu principale Costantino. L’imperatore elesse a loro capitano e duca il Meschino, rammentando, presenti tutti, la valentigia per lui fatta alla morte dei due figliuoli di Astiladoro. Cavossi l’anello secreto, e al cospetto di ciascuno, diede a lui il sigillo2 e libertà di tutta la città, e di far tutto quello che più gli piacesse. Della qual cosa tutti si maravigliarono assai.
La seguente mattina, dopo udita la messa l’imperatore ed il Meschino, si ridussero nella chiesa maggiore duecento de’ più prodi cavalieri della Grecia, a’ quali disse Alessandro che era con loro. «Ora vedrete chi sarà con buon animo!» Ed il Meschino, fatto loro duca, così prese a dire a lor signori:
«O nobilissimi signori e principi, non per mia bontà e virtù sono io fatto vostro capitano in questa impresa, per la quale si dee liberare tutta la Grecia dalle mani di questi Saraceni, ma per l’alta degnazione del nostro signor imperatore, che fece di me il suo fedelissimo servo. Voi per la vostra virtù vi siete proferti in questa battaglia, nella quale sono da considerare tre cose che vi voglio ricordare, acciocchè nessuno possa dire di non averne avuto avviso. La prima è, che tutti que’ cinquanta che combatteranno, deggiono far conto di morire nella battaglia, e d’uccidere chi vuoi uccider noi, per franchezza di tutta la Grecia, e perchè tali siffatti baroni non abbiano sopra di noi e de’ nostri figliuoli signoria. La seconda parte è, che vincendo noi, non dobbiamo aspettare alcun premio o merito se non da Dio. Saranno i nostri figliuoli che ne avranno assai meriti e ne riporteranno il frutto. La terza infine è, che bisogna fare come fa il lupo, il cane e la volpe, che in fino che essi hanno punto di vita, s’ingegnano di mordere colui che li uccide. Così converrà far noi, uccidendo quelli che noi vorranno uccidere, e lasciare a’ nostri figliuoli la vittoria. Abbiate a mente quello che fecero i vostri padri. Abbiate a mente Achille che uccise Ettore; e tutti gli antichi Greci, i quali già combatterono per voi, e per cui voi ora combattete. Ma perchè alcuno di voi non si perda d’animo in mezzo al pericolo, ognuno abbia licenza di pensare su questo fatto da qui a domani, e chi non vorrà deliberare ad essere in questa battaglia con meco, verrà licenziato». Dette queste parole, ogni uomo si partì dal tempio, rivolgendo ciascuno diversi pensieri nell’animo, chi ardente della guerra, e chi all’incontro dubbiando per timore di perdere i minori beni, quali essi stimano la patria e la libertà a confronto delle ricchezze e della vita.
L’altra mattina, poich’ebbero udito messa, si ridussero ancora in quel proprio luogo del dì avanti, dove il Meschino avendo fatto leggere la scritta, nella quale erano i nomi di coloro che erano presenti, non vi trovò più altro che cento. Gli altri cento avevano creduto meglio sacrificare qualunque altra cosa più sacra al proprio loro bene, e così se n’erano andati. Il Meschino replicò le medesime parole dell’altra mattina, e quindi partirono. Partiti, tornarono la terza mattina alla chiesa, e non vi si trovarono più di quaranta. Il Meschino ancora sopra questi, che erano soli quaranta, parlò le medesime parole. Tanto egli era desideroso di depurare il suo campo d’ogni gente vile e da poco, la quale coll’esempio e coi detti avesse potuto nuocere alla virtù degli altri! Allora Costantino dell’Arcipelago si levò e disse: «Nobilissimo capitano, io sono venuto per morire per la liberazione di tutta Grecia, perciò voglio esser il secondo appresso la vostra persona, e con Amazzone ed Archilao di Scio». Il Meschino allora ordinò ad Alessandro, che il duca dell’Arcipelago dovesse di quei quaranta cavarne dieci, e degli altri poi se ne facesse scrittura. Così ne furono cavati dieci, e degli altri ne fu fatta scrittura, i quali tra tutti furono cinquanta. Il primo fu il Meschino, Alessandro il secondo, con ventitrè tutti di Costantinopoli; sicchè la metà di quelli che dovevano andare alla battaglia, erano quei della città. Con il franco Costantino, il quale conduceva l’altra metà, furono otto ben armati, fra cui Archilao ed Amazzone fratelli, sei della città di Adrianopoli e due di Patrasso. Questi cinquanta unitisi insieme, baciaronsi la bocca, e promisero di morire l’uno appresso l’altro, e di mai non volgere le spalle ai nemici. Poscia L’Imperatore baciò molte volte il Meschino. andarono tutti dall’imperatore, il quale ordinò di mandare al re Astiladoro due ambasciatori, che furono Costantino ed Archilao.
Avuto il salvacondotto, gli ambasciatori andarono nel campo nemico, e giunti dinanzi al re Astiladoro, fecero la loro ambasciata mostrando più arroganza che paura. Dichiararono al re la causa della loro venuta, facendo questa proposta:
«L’imperatore di Costantinopoli vi manda a ricordare la promessa battaglia, per la quale sono in ordine i combattitori che hanno da combattere; però manda per sapere quale sia il luogo e il quando della battaglia; imperocchè a noi pare mille anni dal combattere». Fu fermato dopo un tale discorso, che si avesse a combattere da qui a tre dì, e che si facesse una bastia in campo, la quale fosse quadra per un verso cinquanta passi, e cento per l’altro verso, e che avesse due entrate, una verso la città, e l’altra verso il campo3. E fermarono gli ambasciatori, che il re Astiladoro co’ cinquanta combattitori, e l’imperatore co’ suoi cinquanta fosse a lato alla porta in luogo sicuro. Così furono i patti, ed erano gli ambasciatori nell’atto di montare a cavallo e tornarsene alla città, quando sentirono un Saraceno gridare a loro con voce di scherno. «Cristiani matti, diceva egli, ora non sapete voi che in quella battaglia saranno tredici figliuoli del re Astiladoro?» A cui Costantino rispose ridendo: «Tu hai poco senno; il tuo parlare assai lo manifesta. Perciocchè dèi saper che tra noi cinquanta ed un cavaliere nostro capitano, vi ha un patto, che nessuno di noi uccida alcuno dei figliuoli del vostro re, perchè ha giurato di ucciderli tutti egli stesso colle sue proprie mani». Queste parole fecero molto impaurire la parte de’ Turchi.
Costantino partissi con Archilao, e tornò nella città apportando la notizia come di qui a tre dì si combattesse e si dovesse fare una bastia in campo. Da ogni parte furono subito trovati uomini che fecero la bastia per l’imperatore e per gli altri, sicchè in due giorni fu fatta con gran fossi e steccati e due entrate e ponti levatoi. E sopra quei ponti levatoi solo uno per volta poteva entrare. A questo modo si arrivò alla vigilia della battaglia.
Ora dirò come entrarono nella Bastia i cinquanta Cristiani da una banda, e cinquanta Turchi dall’altra. — La mattina seguente adunque che si doveva entrare nella bastia, il Meschino con tutta la compagnia e l’imperatore, andati alla chiesa di Santa Sofia, udirono messa, e tutti confessi si comunicarono, e baciaronsi la bocca. Tutto il popolo stava a vedere piangendo. Tutta la gente, grandi e piccoli, uomini e donne ginocchioni per le chiese, per le case e per le vie, piangevano tutti, pregando Dio che desse vittoria al loro capitano. Essi poi quando furono per uscir dalla chiesa, Alessandro parlò, e disse: «Signori Greci, in fino ad ora io non ho detto nulla, non debbo però star più a lungo dal manifestare pubblicamente a tutti la mia riconoscenza. Poichè la vostra presenza mi conforta tanto, che, pensando che noi combattiamo per la ragione, non mi pare che la vittoria ci possa mancare. E Dio, e la ragione, e vostre franche persone dimostrano chiaramente la vittoria esser nostra». Alessandro finì in queste parole, per cui si levò un gran grido per tutta la moltitudine. In questo mentre l’imperatore piangendo abbracciò il Meschino, e dissegli: «Figliuolo mio, questa vittoria ha messo Dio nelle tue mani». Baciollo poi nella fronte, e usciti di chiesa, e montati a cavallo, vennero al palazzo sulla piazza.
Allora venne un messo di Astiladoro, dicendo: «Il mio signore è in campo, e manda a vedere se venite a combattere o no»: a cui fu risposto che subito sarebbero in campo. Entrati in palazzo, dove era gran quantità di confezione e molto vino, ne mangiarono e bevettero ognuno molto bene. Dopo si allacciarono gli elmi in testa, e montarono a cavallo insieme coll’imperatore, il quale confortò molto il Meschino, e ricordogli del ben fare, pregando ancora gli altri tutti che fossero obbedienti a lui. A questo modo inebbriati di gloria e di entusiasmo patrio, allegramente colle lancie in mano e gli scudi al collo, coll’imperatore e molti compagni vennero i baroni alla porta della città, nel mentre che tutti facevano processione con gran chieresie, pregando Dio per i combattenti.
Venuti fuori, l’imperatore e Astiladoro si abboccarono con sicuro ordine per una parte e per l’altra, ed i patti si formarono in questa forma. L’imperatore, se la sua brigata perdesse, giurò di partirsi con una sola galea carica di ciò che più gli piacesse di tòrre, insieme a tutta la famiglia; e dar poi la sua città di Costantinopoli e tutte le altre terre sotto il suo regno ad Astiladoro. A sicurtà della promessa furono dati cento ostaggi. Ed il re Astiladoro giurò che, se la sua brigata perdesse, renderebbe tutte le terre che teneva de’ Cristiani in Romania, si partirebbe con tutta l’oste, e mai al suo tempo, nè al tempo de’ suoi figliuoli non sarebbe guerra contra Greci cristiani. E per ciò dettegli cento ostaggi nella città. Furono poscia elette tre persone che stessero a veder la battaglia, e fu fatto loro pena la testa se parlassero a nessuno de’ combattenti dopo il sanguinoso guanto gettato, ed i quali dovessero poi giudicare chi vincesse la battaglia. Il Meschino quando vide l’elezione di questi sei marescialli di campo, disse: «Questo è di soperchio, perocchè sarà facile il vedere chi perde, e sarà tanto manifesto, che non vi avrà bisogno di giudice». Poi l’una parte e l’altra si ritirò, ed il sacerdote benedisse i Cristiani.
Il primo che entrò dentro dalla bastia fu il Meschino, il secondo Alessandro, Costantino il terzo, il quarto Archilao, il quinto Amazzone, e così di grado in grado, perchè non potevano entrar se non uno per volta, e quando entrava un Cristiano, entrava ancora un Saraceno. Quando furono tutti dentro, fu comandato per i soprastanti, che un Turco dovesse serrare la porta verso i Cristiani, ed un Cristiano quella verso i Saraceni, ognuno portando seco le diverse chiavi. Finalmente fu comandato che ognuno stesse attento quando fosse gettato il guanto sanguinoso, dove la mortale sanguinosa guerra era per cominciare con gran mortalità dall’una e dall’altra parte.
Il segno del sanguinoso guanto4 dato, l’una parte e l’altra si mosse con grande ardire, mettendo un feroce strido5. Il primo scontro fu il Meschino e Torindo. Torindo tutto lo passò il Meschino, onde fu egli il primo morto. Alessandro scontrò Manacor figliuolo del re Astiladoro, ed ambidue caddero da cavallo, rotte le lancie. Presto si levarono colle spade in mano l’uno contro l’altro accanitamente. Costantino si scontrò con Falisar, e si ruppero addosso le lancie, e per gli urti dei cavalli andarono a terra entrambi. I due valenti baroni levatisi su prestamente si assalirono molto ferocemente adoperando le spade. Archilao si abbattè con Tanfiro, e fracassatesi le lancie addosso, rimasero ambidue feriti. Amazzone, fratello di Archilao, si scontrò con Damonte altro figliuolo di Astiladoro, e ambidue passatisi colle lancie, ad un’ora caddero morti. Dicesi dagli autori che, dalla parte de’ Greci, in questo primo scontro morirono venticinque, e de’ Turchi non più di quindici. Quando il Meschino si volse, e vide tanti Cristiani morti, adirato se n’andò incontra a Fieramonte, anch’esso prole valorosa d’Astiladoro, partigli la faccia per mezzo, e morto lo abbattè da cavallo.
Era nel campo un picciolo monte, lungi dalla bastia un tratto di balestra, nel quale chi stava sopra, poteva dentro la bastia vedere. Da quel luogo quando Astiladoro vide al primo tratto tanti Cristiani morti, ebbe grande allegrezza, ed all’incontro l’imperatore di Costantinopoli gran dolore, cosicchè questi piangendo discese le mura, e andò a ritirarsi nel palazzo mettendo la battaglia per perduta, massime dopo che vide Costantino ed Alessandro abbattuti. Ma la fortuna, che fa voltar carta, e dà il giuoco vinto e perduto a cui le piace, e principalmente nelle battaglie che sono dubbiose; però finchè l’avversario ha in sè alcuna cosa ancora di proprietà non lo tenete a vile. Egli può fare in un momento ciò che altri non avrà potuto in mille anni. Tutta la terra era in Agli alberi del sole. grande desolazione, temendosi che non fosse vicino il perdere la patria e la libertà. I cavalieri cristiani presero grande ardire e forza, ma appena videro il prode giovanetto partir la testa a Fieramonte, e gridar agli altri della sua brigata: «Noi siamo vincitori!» che quattro altri figliuoli del re Astiladoro, Dragone, Brunoro, Tibio e Mursante rovinarono addosso di lui con molta ferocia e rabbia, credendosi potergli dar morte. Quanto mai sia stato terribile questo scontro di quattro contra uno, vorrei poterlo scrivere! Il Meschino ferì al primo tratto Mursante di una punta, che il passò fin di dietro tanto che morto cadde a terra. Gli altri tre dettero tre gran colpi al Meschino, e questi fu quasi per cadere, ma Archilao colla punta della spada percosse Dragone nella gola sì forte che lo passò dall’altro lato. Dragone cadde a terra, e l’anima partissi da lui col sangue che uscia gorgogliando dall’ampia ferita. Tibio dette ad Archilao nella faccia sì forte e terribil colpo, che lo lasciò fortemente ferito, gettatolo da cavallo. Ma il Meschino dette a Tibio sul collo per modo, che gli tagliò la testa dalle spalle. Volle poi andar addosso a Brunoro, ma un cavaliere greco andò verso il cavallo sotto Brunoro; per ciò impedito egli nol potè uccidere. Il Meschino allora voltò in quella parte dove combatteva Alessandro con Manacor. Certi Greci che scorsero in questa parte, tolsero a molti Turchi la vita, e per questo i Turchi furono la maggior parte morti. In questo punto il Meschino vide che Manacor abbracciò Alessandro, e lo avrebbe morto, se egli non fosse stato accorto a buttarsi subito da cavallo, onde presa la spada con una mano tra l’elsa ed il pomolo e l’altro mezzo del taglio, dette a Manacor della punta nel fianco e l’uccise. Alessandro levossi ritto sano e salvo. In questo Archilao, così ferito com’era, soccorse Costantino, che era alle mani con Falisar, e combattendo ambidue animosamente lo uccisero. Mentre che uccidevano Falisar, Tanfirio ferì Costantino di una lancia nel fianco, sì che ogni uomo credette che egli morisse. Fatto Tanfirio quel colpo, uccide due altri cavalieri greci, ed avrebbe egli per sua possanza riacquistato il campo contra i Greci, se il Meschino valoroso non fosse rimontato a cavallo colla spada in mano, facendo man bassa sopra i Turchi. I Turchi erano in tutto rimasti cinque e non più, e de’ Greci diciannove ma tutti feriti. Non v’era più che il franco Meschino, il quale sostenesse i terribili assalti degli avversari. Andò addosso a Tanfirio, e dettegli a due mani in su la spalla manca, e partillo fino alla forcella del petto. Poi gridò a Greci, de’ quali chi era a piè e chi a cavallo involti nel sangue, per animarli a combattere, e tutti si volsero sopra quei quattro Turchi che eran rimasti vivi, tutti quattro figliuoli del re Astiladoro, i quali avevano nome Brunoro, Anfitras, Aramonte e Atriziam. Il Meschino li assalì tutti ad un’ora per dare loro la morte. Essi all’incontro vedendo perduta ogni speranza, si gettarono da cavallo, e si resero per prigioni stando ginocchioni. Per questo il Meschino ebbe di loro pietà, ed avendo comandato a Brunoro che andasse per le chiavi, egli se n’andò tosto verso la città. Chi potrebbe dire quanto fosse cangiato l’animo dell’imperatore, il quale, avendo avuto novelle di vittoria, montò sopra le mura allegrissimo.
Quando il Meschino uscì della bastia, i Greci furono in tutto diciannove, de’ quali poi ne morirono cinque per le ferite. De’ Turchi scamparono solo quattro, e quelli furono menati prigioni dentro nella città, nella quale era gran pianto per i morti, e grande allegrezza per i vivi, i quali avevano avuto vittoria, la qual vittoria fu cagione che i Turchi dovettero far la pace co’ Greci, e loro restituire le terre che Astiladoro teneva pe’ suoi figliuoli, come si vedrà ora.
Poichè il Meschino entrò in Costantinopoli vincitore, l’imperatore convitò la chieresia della città, e venne loro incontro con grande onore ricevendoli6. Il Meschino come fu dentro, mandò un trombetta al re Astiladoro significando che la vittoria era dell’imperatore di Costantinopoli, e come quattro figliuoli di lui, cioè Brunoro, Anfitras, Aramonte e Atriziam erano rimasti vivi, ed erano suoi prigioni. Di quest’ambasciata tutto il campo fu pieno di dolore, e tanta fu la rabbia dei Turchi, che avrebbero morto lo stesso messo, se non fosse pei prigioni. Il re Astiladoro senza frapporre indugio mandò un ambasciatore nella città per riavere i quattro figliuoli, onde fu trattato che i figliuoli d’Astiladoro si ricomprassero per una gran quantità di tesoro, e che tutte le terre tolte a’ Greci fossero restituite per la vittoria ricevuta. Così in pochi giorni l’imperatore tolse la signoria di molte città, le quali furono Bosnia, Epalonia, Niconia ed Adrianopoli, e molte altre castella e città, prendendo anche la città di Concordia.
Greci e Turchi vennero a giurar la pace appresso la porta della città, in luogo sicuro per ogni parte. Giurò prima il re Astiladoro, giurato il re Astiladoro, giurò poi l’imperatore, e furono giurati i patti come si conteneva ne’ capitoli de’ Cinquanta combattitori.
Furono restituiti gli ostaggi da ogni parte, e quando furono renduti, e Brunoro figliuolo di Astiladoro era per partirsi, disse egli ad alta voce: «O maledetta fortuna, come hai potuto soffrire che uno schiavo rivenduto abbia vinto il sangue trojano, nemmeno sapendosi di cui sia figliuolo, nè la sua generazione!». Il Meschino l’udì, fremette, e fattosi avanti, disse: «O Brunoro, figliuolo di re turco, tu hai dette queste parole per farmi dispetto; ma io ti giuro per quel Dio che fece il cielo e la terra che non mi arresterò mai finchè troverò il mio lignaggio; e giuro, se mio padre sarà gentiluomo, giuro, che tu per queste parole avrai a morire per le mie mani». Allora Alessandro, il quale tutto che ferito, era venuto ad ascoltare i patti della pace, sentito così parlare il Meschino, il pregò che egli non dicesse cotali parole. «Tante volte una millanteria fuori di luogo costa caro assai» e’ dicevagli. Il Meschino si voltò ad Alessandro e parlò in alto: «O Alessandro, amico e signor mio, tu mostri aver grande paura de’ Turchi, ed io ti dico che tutto il mondo non basterebbe all’animo mio per rappacciarmi con essi. E sappi che io non sarò in niuna parte del mondo tanto lontana, dove che senta che Turchi fanno guerra a Costantinopoli, io non sia presto in cammino per venire contra loro».
Dette queste parole, ognuno si partì, e tornarono ne’ loro paesi. Per tutta la Grecia ed in Costantinopoli si fece gran festa della vittoria, e furon fatte le esequie a’ morti difensori della patria. N’ebbe poi grande onore Alessandro, ma molto più ne fu reso al Meschino, il quale aveva fatta salva la Grecia dall’oppressione dei Barbari.
- ↑ Quanto cose non ci si presentano ivi a considerare! La poca potenza di Alessandro il Grande, ma la gran virtù che i Greci dimostrarono in ogni difficile evento, per cui salirono a tanto incivilimento, e quindi il misero stato a cui la Grecia era ridotta per le continue invasioni dei Musulmani. Ma ciò soprattutto che dovrà fare sull’animo nostro più forte sensazione, è l’essere quivi ricordati i mali antichi dell’Italia, e che cominciarono allora appunto che il nostro autore si fe’ a scrivere quest’istoria. Mi pare che colle suddette parole sia sciolta bastantemente la questione, se questo romanzo sia o no d’italiana origine.
Chi non vede quivi l’Italiano che scrive e che piange i destini della sua patria, lacerata da quelle intestine discordie che generarono tra poco tempo la setta scellerata di Guelfi e Ghibellini? Sentite come il fioritissimo Dino Compagni esclamava nel bel principio della sua Storia ai cittadini di Firenze «Piangano i suoi cittadini sopra loro e sopra i loro figliuoli, i quali per loro superbia e per loro malizia e per gara d’ufficii hanno così nobile città disfatta, e vituperate le leggi, e barattati gli onori in picciol tempo, i quali i loro antichi con molta fatica e con lunghissimo tempo hanno acquistato; e aspettino la giustizia di Dio, la quale per molti segni promette loro male, siccome a colpevoli. Dopo molti antichi mali per le discordie de’ suoi cittadini ricevuti, una ne fu generata nella detta città (Firenze) la quale divise tutti i suoi cittadini», e qui accenna i Guelfi ed i Ghibellini onde tanti mali alla cara Firenze, che l’anima sdegnosa dell’Alighieri fu costretta a disfogarsi in questi versi:«La gente nuova e i subiti guadagni
Orgoglio e dismisura han generata,
Firenze, in te, sì che tu già ten piagni!» - ↑ Dei sigilli dopo la declinazione del romano imperio, e de’ secoli barbarici trattò diffusamente Muratori nella Dissertazione 35 delle sue antichità italiane. Essi erano di cera, di piombo e d’oro. Di sigilli di cera quasi sempre si servirono Carlomagno e suoi successori. Notissima cosa è, che ne’ sigilli degli antichi re ed Augusti quasi sempre si mira scolpita la loro effigie coll’iscrizione esprimente il loro nome. Fu questo in uso ne’ vecchi secoli anche presso le persone nobili, che cogli anelli imprimevano la loro immagine o qualche simbolo. Simili anelli erano d’oro talvolta, ed in uso sin presso i Goti ed i Romani. Alcuni di questi anelli, fatti a guisa di tavolette, si usavano anche per le sottoscrizioni. Ciò praticavano anche i re, che non sapevano scrivere, inducendo inchiostro sopra le lettere o scavate, o di rilievo sulla lamina. Veggonsi i monogrammi degli Augusti e dei re continuati da’ tempi di Carlomagno per qualche secolo da’ suoi successori, e contenevano essi in compendio il nome loro. Ho dette queste cose per mostrare che l’anello consegnato dall’imperatore a questo cavaliere doveva essere anche il sigillo; conciossiachè fino dai tempi dei Romani i sigilli fossero di varie sorta; altri in gemme ed anelli, altri in lamine o tabelle con lettere pronunciate od incavate.
- ↑ Bastie nome derivato dal francese Batir e più anticamente Bastir (fabbricare). Secondo il Du-Cange e Menaggio sono propriamente steccati, e per steccati qui si deggiono intendere, come anche fu inteso dal vocabolario della Crusca. Giulio Ferrario all’incontro nella sua Dissertazione sulle armadure dei Paladini dice che le bastie non furono altro che una sorta di castello, rocca o fortezza, formata sul piano con travi e tavole ben congegnate, per lo più intorno ad una torre che si cingeva di fossa, co’ suoi bastioni di terra e baloardi. Il Porcellio vuole, che i Lombardi chiamassero bastie i castelli fabbricati di bitume e di assi. Alle bastie dovevano avvicinarsi i Battifolli, od essere di poco differenti, come consta da Giovanni Villani, scrivendo egli, che fu fabbricata dai Lombardi Alessandria quasi per una Bastita e Baltifolle incontro alla città di Pavia.
- ↑ Il segno d’incominciare una zuffa era gettar a terra un guanto, detto il guanto sanguinoso della battaglia.
- ↑ Allorchè davasi il segno della battaglia, l’esercito mandava altissime strida per far terrore a’ nemici, o per animarsi reciprocamente alla zuffa, e ciò chiamavasi il Grido di guerra; e Paolo Diacono lo diceva Bellicum clamorem. Nell’anno 1268 prima di dar principio al terribil fatto d’arme fra Carlo I re di Sicilia e il re Corradino, cohortibus ad bella dispositis, tubæ vicissim sonitum dant terribilem, concrepant cymbala, cælum decangit clamoribus, tomitruis. E i Saraceni gridano secondo il costume, segue a dire lo storico Faba Malaspina, et quasi cadentes hostes contererent, vocibus clamare continuo invalescunt.
- ↑ Chieresia, chiericia, clero, nota il vocabolario della Crusca. In una delle più recenti edizioni in vece di raunò la chieresia, sta scritto convocò il consiglio. È giusta l’una e l’altra lezione, ma nel vocabolo chieresia vedesi inoltre di chi fosser composti a quei tempi i consigli dei re e dei principi, di chierici cioè: che essi erano i soli che attendessero allo studio, donde poi il vocabolo chierico venne ad essere sinonimo di dotto e uomo saputo. Da Carlomagno in poi, massime nel X ed XI secolo crebbe talmente la potenza dei preti, che essi divennero baroni del regno, sì che destarono colla loro potenza quell’invidia nei laici, d’onde nacquero le continue e scellerate tragedie dello stesso XI secolo, e di cui Arrigo IV di Germania e Gregorio VII papa furono gl’infelici protagonisti.