Guerino detto il Meschino/Capitolo VI

Capitolo VI

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Capitolo V Capitolo VII
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CAPITOLO VI.


Elisena si adopera invano a placare l’animo offeso del Meschino, il quale malgrado le promesse dell’imperatore e di tutta la corte, lascia Costantinopoli per cercare de’ suoi genitori.


CC
hi potrà ora dire l’animo della bella Elisena che aveva veduto tanta virtù in quel giovane guerriero? Ella si era innamorata tanto del Meschino, che disse apertamente alla madre il suo amore, e cercava con essa ogni modo che glielo desse per marito. La madre molto per ciò s’ingegnava, ma niente le valeva perchè il Meschino aveva da ciò levato l’animo. Molte altre cose egli andava rivolgendo nella mente.

Poichè furon passati alcuni giorni, cominciò l’imperatore a tener corte magna, perchè le altre feste cominciavano a mancare. Il secondo dì della festa tutte le donne della città insieme a’ signori forestieri ballarono alla Greca, e fecero molti giuochi e sollazzi, essendo presenti la maggior parte dei baroni col Meschino. Questi all’incontro per tutti i giuochi che si facessero, non si rallegrava, che anzi mostrava sempre gran corruccio nell’animo. E per questo tutta la festa, nella quale ognuno aveva l’occhio al Meschino, [p. 54 modifica]stava non lieta. Egli era occupato da nuovo pensiero, che in tale fortuna se gli apparecchiava molto doloroso e crudele. Pensava le parole che gli aveva dette Elisena, presenti tante nobilissime donne, e quello che avevagli detto anche Brunoro in presenza di tanti baroni, e spesso gittava gran sospiri. Alcuni gentiluomini andarono per questo alla camera di Alessandro, e dissero a lui come il Meschino nulla si rallegrava, anzi tanto pareva esser pieno di pensieri, che tutta la festa conturbava. Alessandro, che ciò intese, ebbe dolore, e, con tutto ch’ei giacesse ferito, venne in sala dove erano tutti i baroni, i quali furon pronti a fargli onore. Salutati gli altri cortesemente, e veduto il Meschino, n’andò a lui. Il Meschino gli s’inchinò riverente, ed Alessandro, poichè l’ebbe un po’ guardato, cominciò a dirgli queste parole: «Caro fratello, qual è la cagione che tanto ti tiene occupato? Deh! perchè non dài sollazzo a tutti i baroni e cavalieri, i quali guardando te e non vedendoti allegro, non si possono anch’essi rallegrare». A cui il Meschino rispose: «Mio Alessandro, per qual cagione vuoi tu che io mi possa mai rallegrare, considerando qui non esser alcuno di sì vile condizione, che non sappia dove ritrovar la sua patria, se non solamente io, il quale sono inviluppato in un fortunoso mare che non ha porto nè spiaggia?... Oh! quanto ha più ragione di allegrarsi il marinaio, il quale si trova nella fortuna in mezzo al mare, ma colla speranza di ritornare al porto, dove se arriva, spera di riposarsi egli e la sua roba con più placida e quieta vita! Ma io sono in un grandissimo mare, e la mia nave non sa a qual porto si debba approdare. Che mi val buon vento? Che mi val bonaccia? Che mi vale onor del mondo, chè sempre l’animo mio sta per arrivare allo scoglio? Molto mi sarebbe più cara la morte che la vita, se avessi a durare in questo stato. Per questa ragione mi voglio subito partire di qui per andare alla ventura cercando la mia generazione; e mai non finirò di cercare, finchè non troverò il padre mio. Solo in Dio ho speranza, e chi mi facesse signor di tutto il mondo, pure non mi torrebbe il dolore; chè solo Dio potrà darmi consolazione». E mentre che diceva queste parole, molti sospiri e lagrime gittò.

Alessandro udendo quelle parole, per le quali intese lui volersi partire, a levarlo da questa opinione, rispose: «O nobilissimo [p. 55 modifica]Meschino, vincitore nelle battaglie, per qual cagione ti sgomenti? Credi tu che Alessandro, figliuolo dell’imperatore d’Oriente, si dimentichi la tua franca persona, e l’onorata vittoria da te e per te solo ricevuta? Non crederlo giammai; chè anzi voglio francamente che il mio regno a te più, che a me ubbidisca, e certo ti so dire, che il padre mio non ama più me, ch’egli faccia te. Quindi per Dio ti prego che tu da noi non ti parta».

In questo mezzo, perchè il ballo era cominciato maggiore che prima, giunsero in sala l’imperatrice ed Elisena. Avendo costei alquanto ballato con due damigelle per mano, giunta al Meschino, gli s’inginocchiò davanti richiedendo che ballasse egli pure. Il Meschino la guardò con viso turbato, e quindi ritorse gli occhi altrove con tanto disdegno, che Elisena non osò ripetergli nulla. Alessandro, che aveva veduto l’atto poco cortese del Meschino, fece cenno ad Elisena che di là si togliesse, onde ripresa di dolore tornossene a sedere a lato al fratello, nè per tutto quel dì volle più ballare. Fu per ciò turbata la festa.

Povera Elisena, che mai facesti tu a disprezzare il Meschino, solo perchè non conoscevi il suo legnaggio? Se non fosse egli mai stato di nobile stirpe, tuttavia lo dovevi stimare ed amare, perchè valoroso e di grande animo. Pertanto insegnino i padri alle loro figliuole a parlare onesto; chè per avventura Elisena perdette il più franco marito che in quel tempo fosse nel mondo sufficiente a farle portar la corona di molti reami.

La sera stessa di quel di Alessandro menò seco il Meschino a cena, e nel suo proprio appartamento, temendo che egli non si partisse furtivamente. Poi lo pregò tutta la notte che volesse fermarsi, promettendo dopo la morte del padre di divider per metà il reame, e che inoltre l’amerebbe sempre più che se fosse suo proprio fratello. Queste e mille altre cose disse e fece, cercando di persuaderlo a restare. Ma il Meschino non volle mai saper di null’altro, se non che aveva fermo di partire, e rispose ad Alessandro: «Carissimo fratello, se l’animo mio fosse dato alla cupidità di signoria, crede la tua mente che io avessi pensiero di mio padre? — Certo no. — Ma dimmi, Alessandro: la signoria di questo reame come mi potrebbe ella dare mio padre, il quale voglio cercare per essere certo di qual sangue io sia nato? Per questo sto [p. 56 modifica]pensoso non sapendo che sia di lui. Più d’ogni cosa tu dèi pensare avermi onorato e francato di soggezione: perciò io amo più la tua persona che me medesimo. Come adunque torre a te l’imperio nato di gentil sangue, ed io al contrario non so pur chi mi sia?» Dopo queste e simili altre parole conobbe Alessandro che il suo parlare era vano, onde egli pregò il Meschino che facessegli una grazia. «Ogni cosa a me possibile ti farò», rispose il Meschino. Alessandro lo pregò di non partirsi sino a tanto che egli fosse guarito, perchè bramava di andare con lui. Allora il Meschino gli diè questa risposta: «Con me non verrà se non Dio, e le mie armi ed il mio cavallo; ma ben ti prometto aspettare che tu guarisca». Alessandro se ne rallegrò assai, per lo che si promisero ambidue di tener secreta ogni cosa detta fra loro.

Non mi fermerò a narrare i modi diversi con cui l’imperatore e l’imperatrice cercavano di dare al Meschino Elisena per moglie, ciò che loro non venne mai fatto per l’odio grande che egli le portava. Altra cosa di più gran rilievo mi tocca ora a dire, la maniera cioè che adoperò onde prender commiato dalla corte, e come facesse mandare per astrologi che gli sapessero render conto della sua generazione. Secondo l’avuta promessa, poichè fu guarito Alessandro, il Meschino gli domandò licenza d’andarsene, dicendo: «Signor mio, Alessandro, datemi licenza che io vada al mio viaggio». Alessandro l’abbracciò e dissegli: «Caro fratello e dolce amico mio, perchè mi vuoi tu abbandonare? Voglio che ti sia in piacere di far meco parentado, e che ti piaccia di torre Elisena mia sorella per tua legittima sposa, acciocchè quanto per amistà non si è potuto fare, si faccia per parentado». A cui il Meschino — Quanto dici non può essere, imperocchè già amai Elisena tanto, che ogni cosa della mente mi usciva; ma ella mi ha tanto offeso, che l’amore è convertito in odio. Perciocchè ha stranamente parlato contra di me, le quali parole non convenivano a lei, non essendo ancor d’anni matura, nè anco per superbia di marito baldanzosa. E se ella in così giovanili anni ebbe la sua lingua sfrenata, come pensiamo noi che farà quando sarà appoggiata a gran marito? Epperciò, Alessandro, se davvero mi ami, non me ne ragionare più oltre, ma di buon amore, come fratello, mi tieni». Alessandro, che vide sì ferma risoluzione in lui di non volere più saper [p. T8 modifica]Uccisione del Gigante Macus. [p. 57 modifica]cosa alcuna sul conto di sua sorella, gli disse cortesemente: «Non piaccia a Dio che una fragil cosa, come una femmina, mi tolga l’amore di un fratello ed amico come sei tu, e ti assicuro che non mai più te ne parlerò, nè altri per mio nome. Ora, ti prego, che ambidue noi andiamo innanzi al padre mio, poichè a lui voglio che tu domandi licenza». Il Meschino non si rifiutò, e così andarono entrambi dall’imperatore.

Venuti a lui, il Meschino lo pregò della licenza, mentre Alessandro lacrimando si fe’ a scongiurare il padre che nol lasciasse partire, checchè si dovesse fare. Per il che l’imperatore disse molte parole onde farlo restare, aggiungendo ancora: «Io ti aveva eletto mio secondo figliuolo». Ogni lusinga riuscì vana, e rispose francamente: «O sacro imperatore, non vi ricorda di quanto disse Brunoro quando si giurava la pace, e quello che io gli promisi? Per la qual cosa io debbo cercare dal levante al ponente, austro e tramontana la mia schiatta, e saper chi fu o chi è il padre mio. — Nessuna di tali cose tu mi hai ancora significato, rispose l’imperatore; so che io non posso tenerti dal partire, essendo tu libero appena fatto cavaliero1; pure, dimmi, o figliuolo: se io ritrovassi tuo padre, ti partiresti tu? — Certo no, soggiunse tosto il Meschino». Allora l’imperatore mandò per Epidonio, e domandollo come l’aveva avuto, e se egli sapeva cosa alcuna della sua schiatta. Epidonio rispose di no, e gli raccontò come l’aveva avuto, e tutto ciò che di lui aveva egli potuto sapere.

«Essendo io andato, disse Epidonio, ad una fiera nell’Arcipelago con molti mercadanti, mi capitò una galea di corsari, i quali vendettero questo fanciullo alla nostra compagnia. Io do[p. 58 modifica]mandai loro come l’avevano avuto, ed uno fra essi rispose aver preso nel passare il mare Adriatico una picciola nave che conteneva una donna antica ed una balia che dava il latte ad un fanciullo e quindi un famiglio. Il famiglio uccisero e la vecchia buttarono in mare. Noi non cercammo più innanzi, e per tutta la compagnia lo comprammo. Nel partir poi della compagnia lo contarono a me con altra mercanzia». Il Meschino udendo a che modo nelle mani di Epidonio era venuto, cominciò gran pianto, e l’imperatore lo confortò con questo dire: «Rallegrati che a questi segnali tu non sei di vile lignaggio, e la tua franchezza me l’ha ben dimostrato. Indugia ancora alquanti giorni ch’io ti prometto secondo il mio potere di ritrovare chi furono questi corsari, e sapremo da loro quello che si potrà. — Che non sia vano il potere d’un re della terra!» rispose il Meschino. Dopo si ritirarono.

L’imperatore mandò per molti negromanti, che per incantagione trovassero la sua schiatta. Mandò per tutti i porti di Romania, d’Italia, di Schiavonia, d’Albania, di Candia e di tutto l’Oceano, cercando di que’ corsari che in quel tempo avevano navigato, e molti ne trovò, ma non quelli che avevano predata la nave di Guerino. Furono fatte mille incantazioni pe’ detti negromanti, nè si potè trovare e sapere niente di sicuro, salvo uno incantator d’Egitto, che costrinse uno spirito, il quale spirito non sapendogli anche dir nulla sul conto della generazione del Meschino, l’incantatore lo scongiurò in questo modo: «Dimmi almeno per qual via lo potrò io sapere?» Rispose lo spirito ad alta voce: «Vada agli Alberi del Sole, là saprà della sua generazione, e troverà suo padre. Agli Alberi del Sole andò Alessandro Magno, il quale seppe da loro dove egli doveva morire2. [p. 59 modifica]Però gran fatica gli sarà andarvi, sosterrà grandi travagli, e campando sarà assai». Ciò udito il Meschino, che presente era all’incantagione, si rallegrò assai, e domandò in qual parte erano gli Alberi del Sole. L’incantatore rispose: «Al fine della terra verso levante, dove si leva il sole e la luna».

Il Meschino prese in quel momento commiato dall’imperatore, e non potendolo muovere nè egli nè Alessandro a restare, gli donò una crocetta d’oro con una catenella, e misegliela al collo. In quella era del sangue di Cristo, e del latte della Madonna, e del legno della Croce di Cristo3; e dissegli l’imperatore: «Figliuolo, finchè avrai questa crocetta addosso, niun fantasma ti potrà mai nuocere, ma guarda di non peccar mai con essa carnalmente; guardati di mortal peccato più che tu puoi». Volle [p. 60 modifica]ancora l’imperatore che gli promettesse, ritrovando il padre, di ritornare a lui. Il Meschino lo giurò e promise in presenza di tutta la Baronia. L’imperatore l’abbracciò, baciollo, e benedisselo. Volevagli anche dar compagnia, che il Meschino non volle, fuorchè cento danari d’oro, che egli accettò e portò con lui. Finalmente armato a cavallo uscì da Costantinopoli verso lo stretto dell’Ellesponto.

Fu a pochi palese la sua partenza, perchè il re Astiladoro che infestava gran parte della Grecia, non ne avesse notizia. Alessandro gli fece compagnia per fino al braccio di San Giorgio, dove fatta apparecchiare una galea, misevi dentro il suo cavallo e le sue armi, ed ordinò che lo portassero in Armenia, ovvero in Trabisonda, ovvero in Colchi, perchè i Turchi non lo prendessero. Abbracciatisi quindi ambidue con cuore molto tenero, il Meschino pregò Alessandro che facesse dire officii e orazioni a Dio per lui, e separatisi, piangendo l’un l’altro dirottamente, il Meschino entrò nella galea e fece vela andando al mar Maggiore verso la Tana.




  1. La cavalleria viveva da sè e della sua propria vita. Superiore ad ogni diversità di nazioni e ad ogni potenza governativa, era libera ed indipendente. La religione sola poteva disputare la cavalleria all’amore: Dio e mia dama era il grido e la divisa del cavaliere del medio evo. Fu solo più tardi e quando la cavalleria non esisteva più che in apparenza, che vi aggiunsero il Mio Re; perocchè tra le sue principali prerogative una ne aveva che la rendeva un corpo formidabile, cioè la libertà da qualunque vassallaggio. Tuttavia chi riceveva la cavalleria contraeva una specie di obbligo di fedeltà verso chi gli conferiva un tal onore. È vero che per lo più non si prestava questo giuramento di fedeltà; ma era una delle consuetudini cavalleresche, che il creato cavaliere non doveva giammai impugnar l’armi contro chi l’aveva decorato di questa dignità.
  2. Qui viene a proposito il dire come l’antichità ricca di sì grandi uomini, non conti fra sè de’ personaggi cavallereschi, quali furono Riccardo Cuor di Leone, e più tardi Francesco I e Carlo XII. L’antichità non sentì quell’esaltazione cavalleresca che portò tanti uomini illustri di natali e di potenza in cerca di brillanti avventure. I grandi uomini dell’antichità combattono per obbedire alle sante leggi della patria, per dominare ed opprimere i propri concittadini, o per conquistar il mondo; ma non si legge che abbiano versata una stilla di sangue pel solo amore della gloria, e per far onore ad una donna. Pure v’ha un’eccezione; questa eccezione è Alessandro il Grande. L’autore del Guerino ha con molto senno introdotto nella sua storia cavalleresca questo paragone d’Alessandro, il quale quantunque guidato nelle sue conquiste da grandi fini di politica, rileva tuttavia un tale slancio d’idee, un tale trasporto d’immaginazione, che lo spinge sempre più avanti, sempre più lontano verso l’Oriente, là dove è quasi follia l’andare, e dove non vi hanno più conquiste a fare. Perchè egli non si arrestava a Babilonia, vero centro dell’impero d’oriente, di quell’impero che egli voleva stabilire? No; bisogna correre alle Indie, bisogna correre, come parlano di lui le tradizioni di Java, fin là dove nasce il Sole, e, se la sua armata non l’avesse arrestato, sarebbe marciato fin nell’America! In quest’impetuosità fuori d’ogni riflessione, ma sublime, vi ha molto del cavalleresco, e la cavalleria non fallò a riconoscere Alessandro per uno de’ suoi, e considerarlo come il più vasto centro di uno dei cicli della poesia cavalleresca.
  3. La cavalleria nacque sotto l’influenza del cristianesimo. Ogni virtù che il cristianesimo abbia santificato, era raccomandata scrupolosamente agl’iniziati alla cavalleria; ciò che parrà più diffusamente, parlando de’ cavalieri erranti o paladini. E quando la Chiesa cominciò ad infondere in essa il suo spirito, la cavalleria divenne come un ordine ministrato da’ vescovi, porgendo a’ cavalieri il collare, come a’ chierici, e quindi invitandoli di fare di tanto in tanto delle offerte all’altare:

              Car moult est bien l’offrande assise
                   Qui en la table Dieu est mise,
                   Car elle port gran vertu.

    Ma questa religione in quante strane superstizioni sia quindi degenerata, lo conoscerà facilmente chi avverta fin dall’infanzia aver avuto i cavalieri un’educazione superficiale in fatto di religione, e loro non essere più spesso raccomandate che le pratiche esterne. L’idea ch’essi s’erano formata del cristianesimo, era tutta materiale, d'onde ne venne quella strana confusione d’idee religiose e d’immagini d’amore, di paradiso e d’inferno, di diavoli e di spiriti maligni.
    Saint-Pelage, per farci conoscere il sentimento religioso di que’ cavalieri, riporta il fatto del prode Stefano Vignoles, detto La-Hire. Andava questi col conte di Dunois per liberare dall’assedio Montargis nel 1427. Appena vicino al campo degli Inglesi che assediavano la città, trovò un cappellano cui egli pregò a voler dargli prontamente l’assoluzione; ma il cappellano gli rispose di confessare prima i suoi peccati. La-Hire replicò di non aver tempo, perchè bisognava subito scacciar il nemico. A tali parole il cappellano gli trinciò alle corte l’assoluzione. Allora La-Hire fece la sua orazione a Dio dicendo colle mani giunte: «Dio, io ti prego di fare in oggi per La-Hire quello che tu vorresti che La-Hire facesse per te, s’egli fosse Dio e se tu fossi La-Hire». Egli credeva fare un’ottima preghiera. Ma questo esempio è nulla rispetto alle tristi conseguenze dello spirito religioso dei nostri avventurieri, che andavano a sterminare in nome di Dio non solo gli Africani e gli Asiatici, ma i Cristiani ancora che dissentivano in qualche punto di loro dottrina, e per cui molti col bordone in mano e colla croce sul petto andavano peregrinando a Palestina in cerca d’indulgenze pei loro passati e novelli amoreggiamenti. Che poi se si osservino i loro amori? Religione ed amore erano cose così frammiste insieme, che Guglielmo di Cabestano esclamava: «Oh! cara amica! Oh! la più amabile delle donne! posso io sperare d’ottenere da voi qualche premio di amore dopo che dì e notte io supplico ginocchione la Vergine Maria d’inspirarvi qualche tenero sentimento per me?»
    Forse qualche troppo severo aristarco non vedrà troppo bene che siasi cercato di riprodurre il Guerino con tutte le sue meschinità, com’e’ dicono. Rispondesi a’ cotali, che come Dante, Tasso, Ariosto ed anche Petrarca, il Guerino sarà sempre l’immagine d’un tempo che fu realmente, d’un tempo che solo può darci la ragione della successiva progressione nella società come nelle intelligenze. Non è volere il mondo retrogrado il mostrare che si fanno lo vie inenarrabili per cui la provvidenza governa i secoli!