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x. 1818 - le due canzoni | 77 |
in argomento con un contrasto commovente tra ciò che sopravvive e ciò che è morto di quella grande Italia:
. . . . . vedo le mura e gli archi E le colonne e i simulacri e l’erme Torri degli avi nostri, Ma la gloria non vedo, Non vedo il lauro e il ferro ond’eran cinti I nostri padri antichi. |
Non c’è una seria elaborazione sua del contenuto, il quale rimane una generalità; animato da un sentimento sincero sì, ma vago, venuto piú da un calor giovanile e letterario che da una coscienza politica, com’è in Berchet.
Non è dunque maraviglia che la forma sia tradizionale e letteraria, con la solita statua allegorica dell’Italia e le solite dissimulazioni e sorprese e scene convenzionali, come è nelle canzoni di questo genere. Chi non conoscesse la data, potrebbe crederla scritta nel 1815, in quel fervore anti-francese e antinapoleonico della Santa Alleanza.
Ma dopo tre strofe il soggetto sembra esaurito, ed il poeta dimentica l’Italia, e con felice passaggio introduce Simonide che celebra la morte de’ Trecento alle Termopili; sicché questa fu chiamata la canzone di Simonide. Ci si vede l’erudito, l’autore dell’Inno a Nettuno.
Ma dove nell’Inno non si rivela ancora il poeta, qui tuona e folgora, come direbbe Giordani.
Certo, non c’è qui Simonide, e non ci è sapore di greco; anzi il rumore, l’impeto e lo splendere, non senza qualche artificio, è cosa tutta moderna. Ma questo appunto certifica che il giovane comincia ad acquistare la sua libertà di concepire e di formare. E chi guarda bene addentro tra questi lampi e tuoni, ci troverà certi movimenti di tenerezza e di malinconia che comunicano alla canzone una impronta particolare. La stanza incomincia con molto fracasso, ma finisce rilassandosi: il ruggito