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72 | giacomo leopardi |
e trovandonela nuda affatto, s’attrista, e per forza di natura, che nessuna sapienza può vincere, quasi non ha coraggio d’amare quel virtuoso in cui niente è bello fuorché l’anima.
Dunque, non crede più di dover morire fra breve, ciò che ha creduto per lunghissimo tempo: momento altamente poetico, che nell’erudito e nel letterato si è impedantito con quel suo Appressamento della morte. Ha innanzi a sé un avvenire, e se lo foggia e lo descrive con mano sicura.
Sembra un medico spietato, che faccia la diagnosi non di sé, ma di qualcun altro, risoluto a dirgli tutta la verità e a cavargli tutte le illusioni.
Pure, questo qualcun altro era lui stesso, ed è uno strazio quella tranquillità del suo dire. Per pietà di lui vorremmo quasi che comprendesse e sentisse meno. Ma confessa egli medesimo che l’acutezza dell’intendere e del sentire è gran parte della sua infelicità.
Questa ed altre misere circostanze ha posto la fortuna intorno alla mia vita, dandomi una cotale apertura d’intelletto perch’io le vedessi chiaramente e m’accorgessi di quello che sono, e di cuore perch’egli conoscesse che a lui non si conviene l’allegria, e, quasi vestendosi a lutto, si togliesse la malinconia per compagna eterna e inseparabile.
Assistiamo al martirio di una grande intelligenza e di un gran cuore; le quali forze naturali, se gli aguzzano il dolore della tortura, hanno pure la virtú di tenerlo alto sopra di quella. È il martirio di un Titano che non geme e non si lamenta, anzi nell’abisso del suo dolore alza la fronte ed ha l’occhio chiaro e tranquillo, come non vedesse e non sentisse, lui che pur così profondamente e vede e sente: suprema forma della forza morale.
Io so dunque e vedo che la mia vita non può essere altro che infelice: tuttavia non mi spavento, e così potesse ella esser utile a qualche cosa, come io procurerò di sostenerla senza viltà. Ho passato anni così acerbi, che peggio non par che mi possa sopravvenire: