Georgiche/Prefazione
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PREFAZIONE.
È antico detto e notissimo, che tra le Opere di Virgilio le Georgiche sono la più perfetta. Eppur fra i tanti lettori di questo divin poeta appena è chi conosca, o almen rilegga e ricordi con ammirazione e trasporto fuorchè l’Eneide. Questa apparente contraddizione di giudicio e di fatto sarà ben facile a conciliarsi da chi solo rifletta, che la maggior parte degli uomini, che avida presta orecchio al racconto di un’avventura, comunemente o si ricusa, o si annoia a una lezion di precetti. Sarà quindi verissimo, che l’immortale Cantore delle vicende di Enea destinasse a quest’ultima sua fatica una maggior limatura, onde emendar qualche piccola inesattezza, o per inavvertenza sfuggitagli, o a bello studio negletta, e riserbata a correggersi a tempo ed animo più tranquillo; e che invece le sue Georgiche ed ordite e tessute con tutto il comodo e l’agio, e nel più bel fiore dell’età sua virile, quando il giudicio è già fermo, e l’immaginazione ancor fervida, abbian potuto ottener dall'artefice l'ultima mano, e quell'estremo grado di perfezione, che in lor si vanta ed ammira: sarà ciò, dico, verissimo, ma il maestoso quadro e patetico dell'arsa Troia, ma gli amori infelici dell'abbandonata Didone, e la pittura de' giuochi per l'esequie d'Anchise, e il sì famoso viaggio agli Elisi, e Pallante ed Evandro, Niso ed Eurialo, Lauso, Mesenzio e Camilla, e tanti altri oggetti ed immagini luminose, che ad ogni tratto s'incontrano in quel poema, destano sempre ed in tutti di lor natura una sì forte impressione, che l'animo appassionato e la sedotta immaginazion del lettore o non vede, o sorpassa que' pretesi difetti che risaltano appena al freddo esame del critico commentatore; dove all'opposto, è pur forza di confessarlo, tutto il prestigio ed il fascino di uno stile inimitabile e maraviglioso, tutte le grazie poetiche sparse e profuse con artificio sì giudicioso, e gli episodii bellissimi, e sì opportunamente introdotti non bastano nelle Georgiche a interessar di un soggetto, che in generale a dir poco, sia pregiudicio, o ragione, è indifferente a chi legge. Insomma e la materia, e il lavor di quest’Opera, a differenza dell’altra, a due classi esclusivamente appartengono di amatori e di giudici troppo tra loro e di gusto, e d’idee disparati ed opposti. Gli agricoltori che le istruzioni amerebbero della lor professione, son troppo rozzi e stranieri al linguaggio poetico per gustarne e comprendere le bellezze; e chi ha gusto e intelligenza per queste non curasi d’ordinario d’imparare ne’ versi il mestiere d’agricoltore. Ed ecco in poche parole la ragione unica e chiara, per cui son le Georgiche e lodate da tanti, e lette da così pochi.
Ma se tale è la sorte del perfettissimo originale, qual mai lusinga potrà poi rimanere alla mia traduzione? Io sono così convinto e spregiudicato su questo punto, che per impulso di buona fede sarei quasi tentato a sconsigliarne io stesso al pubblico la lettura, eccettuandone que’ pochissimi che hanno un trasporto deciso alla poesia, e quelli più pochi ancora, che sono in grado di scernere e valutare l’artificio, ed il maneggio, e le diverse ed intrinseche proprietà dello stile. Non che io presuma, che il mio possa granfatto sorprendere o dilettare, ma perchè raramente, se non v’è in ciò qualche merito, io non oso promettere altro compenso.
Che se pur dopo ciò fossevi alcuno che o supponendomi troppo modesto, o mosso appunto, e colpito da questa singolar novità d’un autore che mette egli il primo in discredito la sua fatica, entrasse quindi in maggiore curiosità di esaminarla egli stesso, e chiarirsene colla esperienza, il faccia pure in buon’ora, se così vuole, ch’io se non altro avvertendolo mi sarò messo a riparo de’ suoi lamenti: di questo solo io lo prego, che avendo egli il coraggio di cimentarsi a suo rischio, abbia ancor la pazienza di ascoltar prima poche e brevissime riflessioni ch’io reputo per lui non meno, che per me necessarie, e senza le quali ei rischierebbe leggendo di essere un po’ troppo presto, e forse più ch’io nol merito, della mia opinione.
La differenza di stile, che passa tra i due poemi l’epico dell’Eneide, e il didascalico delle Georgiche, è quella appunto che passa tra i due lavori di un magnifico arazzo tessuto a grandi figure, e di una veste leggiadra a varii fior minutissimi ricamata. Le rispettive bellezze, e caratteristiche proprietà di amendue sono così diverse, come diversi gli oggetti che rappresentano, ed il punto di vista, da cui si debbono riguardare. La maestà e la forza, doti proprie dell’uno, disdirebbero all’altro non suscettibile, che di vezzi e di grazie, ed una troppo dilicata ed esatta minutezza di parti, che diverrebbe inutile, o difettosa in un soggetto che non dee contemplarsi che ad una certa distanza, è indispensabile in quello che è destinato ad esaminarsi più da vicino. Una elocuzion nobile e dignitosa, un’armonia sonora, una fastosa eloquenza, movimento e calor di passioni, caratteri ben rilevati e in contrasto, luminose sentenze, e magnifiche descrizioni son gli ornamenti dell’epica poesia; la didascalica invece gli esige di minor pompa, ma di più fino artificio: una scrupolosa ed esatta proprietà di termini, o tecnici, o generali, una elegante semplicità di frasi, un uso frequente sì, ma leggero di metafore, e tropi, ed immagini idoleggiate, gradazione di tinte, precisione, chiarezza e nitor d’espressioni, e singolarmente una certa soavità di numero, sempre grato all’orecchio, ma non monotono, e che quasi stromento si contempri ed accordi quant’è possibile, alla minuta e multiplice diversità dei pensieri. Bisognerebbe un lungo trattato per dare un’idea chiara ed estesa di questo stile difficilissimo: a me sol basta d’averlo qui accennato per mettere in diffidenza il comun dei lettori sul genere di piacere, che posson essi aspettarsi, e pretendere da questo libro, onde a torto non cerchino la muscolatura d’un Ercole in una Flora.
Lasciando dunque da parte tutto ciò che riguarda l’original di Virgilio, che non ha certo bisogno nè di apologia, nè di elogio, a due soli articoli mi ristringo, che direttamente appartengono alla traduzione, e sono la fedeltà al testo, e la precision dello stile. Di questi stessi, egli è vero, dovrebbe essere inutile il parlar oltre, tanto son essi ripetuti e discussi e nei precetti dei retori, e nelle prefazioni dei traduttori, se i disparati ed erronei giudicii che tuttodì se ne sentono dalle persone anche colte, non dimostrassero ad evidenza, che le idee che se ne formano, non son nè chiare, nè decise abbastanza; e ciò cred’io singolarmente perchè i difetti in questi due punti sono ordinariamente di massima, e per ciò stesso acremente difesi per l’una parte, e incautamente adottati per l’altra, usurpano spesse volte e la maschera e il nome dell’opposta virtù.
Due sorti esistono di fedeltà, l’una alla lettera, l’altra allo spirito dell’autore, e ciò tutti lo sanno; ma non san tutti, o almen mostrano col giudicio e col fatto di non sapere, che la fedeltà letterale è la peggiore di tutte le infedeltà. A convenire dunque nei termini e schivar quindi ogni equivoco, per fedeltà letterale intendo io una fedeltà modellata su la grammatica e il calepino, fedeltà comoda e facilissima ad ogni traduttor non poeta, che fisso e attaccato soltanto alla materiale espressione del testo si fa un vanto e un dovere di conservarne in ogni periodo in un numero delle parole, la costruzione dei membri, l’identità della frase, e i modi quindi senza avvedersene, e la sintassi, e mescolando insieme le eterogenee proprietà di due lingue, forma un confuso impasto di stile disuguale e stentato, che senza metro sarebbe una cattivissima prosa, e col metro diventa una peggior poesia. Questa servil fedeltà, oltre all’essere inutile nelle indifferenti minuzie, vizia intrinsecamente, o impedisce la sola vera e poetica fedeltà dello spirito, che consistendo all’opposto dell’altra nel conservare ai pensieri, alle immagini, ai sentimenti l’originaria loro natura, dee per necessità cambiar sovente, e rifondere, sostituire, o modificar l’espressioni non combinabili nelle due lingue, onde il poema vestito di nuove spoglie non alteri le sue sembianze, e felicemente esprimendosi e con pari eleganza e proprietà nei due diversi linguaggi, quasi non lasci distinguere qual sia l’estranio, o il nativo.
Ora di due traduzioni, diversamente fedeli nei due sensi descritti non è la prima, come ognun vede, che una scolastica interpretazion fidenziana, che basta appena per far intendere Virgilio a chi ignora il latino, ma la seconda riesce una specie d’imitazion creatrice, che fa gustarne e conoscere la poesia: l’una è come la maschera che si cava da un volto morto, di cui non copia o presenta fuorchè le nude forme mutole, esanimi e scolorite; l’altra è, il parlante ritratto di un volto vivo, che nei colori suoi naturali, e nell’animata fisonomia giunge ad esprimerne gli affetti stessi e i pensieri; e mentre quella ricorda appena, questo per così dire raddoppia l’originale.
Supposta dunque la verità delle premesse definizioni, un traduttore che voglia esser esatto, ma non pedante, dovrà per modo d’esempio tra le edizion dell’autore quella trascegliere di più corretta lezione, ma potrà senza scrupolo o pregiudicio del pubblico non citar le varianti, e non mettere una seria importanza sopra di un verbo messo in tempo presente dal Codice laurenziano, e in futuro, o preterito dal palatino.
Consulterà con accurato esame gl’interpreti e commentatori nei passi dubbii e difficili per rilevarne il senso più naturale o più ricevuto; ma potrà dispensarsi dal render conto o far pompa di questa facil fatica, e persuadersi eziandio che un buon verso può reggere senza l’appoggio al margine di citazioni e di glosse, e che tre pagine d’erudizione non bastano a puntellarne un cattivo.
Rispetterà religioso le bellezze e le grazie o luminose, o minute del suo Prototipo, e a suo potere si studierà di renderle con esattezza non defraudandone la versione della più piccola circostanza; ma non adorerà come tali per pregiudicio superstizioso i difetti stessi ed i piccoli néi, inevitabili anche da’ sommi scrittori; nè sarà quindi un’illecita libertà che si prende, ma un dovere che adempie, se cercherà di emendarsi e correggere, dove dilucidando un qualche tratto confuso, e dove ammorbidendo una dura espressione, o sfrondandone una superflua, o ingentilendone una triviale, e sopprimendo altrove, o cambiando o un’inutile ripetizione, o un epiteto insignificante.
Nelle transazioni o passaggi da un paragrafo all’altro, che sono nelle Georgiche alcune volte un po’ più rotti e staccati, di quel che soffra la nostra lingua, non gli sarà disdetto l’aggiungere o una parola, o una piccola piegatura di frase, affin di renderne più naturale e sensibile la connessione: e dove per avventura un qualche verso o particella di descrizione trovisi fuor del suo posto, ed alteri in conseguenza l’ordine o logico, o sentimental delle idee, gli sarà lecito nella versione di traslocarlo, e rimetterlo in serie, onde i pensieri discendano più legati e dedotti e trasfondano in tutta la sua forza e chiarezza la sensazione, o l’immagine nella mente e nell’animo del lettore.1
Insomma egli debbe essere fedele al senso del suo poeta, ma non meno il debb’essere al genere del proprio idioma, sicchè la sua versione nel tempo stesso e rappresenti un’immagine del suo modello, e comparisca come opera di prima mano, riunendo così il doppio merito che si esige nella copia di un quadro, di separamente piacere come pittura, e di rassomigliar confrontata all’originale.
Ma nè la sola grammatica, nè la crusca, o l’aiuto di tutti i possibili commentatori, e degli agrarii trattati di Columella, non insegneranno giammai a tradur Georgiche con una tal fedeltà. Non già ch’io voglia escludere questi soccorsi, li suppongo anzi, e li esigo; ma vuolci inoltre assai più: una profonda cognizion metafisica delle due lingue, e un lungo uso franco e versatile della propria, e perspicacia d’ingegno, e dilicatezza di gusto, e un criterio finissimo, ed una immaginazione bibula e viva, che non già nella frase, ma nella stessa natura, di cui la frase è una copia vegga e contempli gli oggetti che deve rappresentare, e a dirlo in una parola, è d’uopo d’essere decisamente poeta; nè ciò soltanto, ma è d’uopo esserlo in una certa analogia di carattere, e temperamento con quello che vuol tradursi, onde più facilmente uniformarsi nelle maniere, nel giro, nel colorito, e nell’armonia del suo stile, e schivar quindi il pericolo di trasformare la sobria, e nel tempo stesso fluidissima elocuzion di Virgilio nella diffusa di Ovidio, o nella stretta e vibrata di Orazio.
Era, nol niego, assai più facile in altri tempi il cader nel difetto di una vôta e prolissa verbosità, quando fioria la setta dei Boccaccevoli, e dei Puristi di lingua, che a far pompa sovverchia di prette voci, e di un certo giro e leccatura di frasi, aveano l’arte di stirare un pensiero in una lunga pagina di parole. Or questa moda è passata, e par che il gusto presente pieghi all’opposta, e che annoiati i moderni di quello sterile frondeggiamento, e invaghiti di una succosa energia abbiano quindi adottata una maniera di esprimersi molto più rapida e più concisa. Io nè qui certamente voglio difendere i primi, nè condannare i secondi, ma dico solo, che se ogni lunghezza è vizio, non ogni brevità è virtù, e che gl’intemperanti amatori di questa corrono rischio di facilmente confondere la precision dello stile col laconismo; due cose così fra lor distinte, che il prender l’una per l’altra accuserebbe egualmente e negli autori, e nei giudici somma imperizia e difetto di criterio e di gusto. Il laconismo che ha per iscopo di stringere e concentrare il pensiero nella brevità della frase, per renderne dirò così l’esplosione o più energica, o più sublime, ben lontano dall’essere una qualità generale ed intrinseca dello stile, non è che accidentale, e unicamente applicabile a certi casi particolari, come sarebbe nell’espression di un concetto o epigrammatico, o sentenzioso, e riescirebbe in altri o ridicola, o difettosa. La precisione all’opposto è una virtù indispensabile, assoluta e comune, e consiste non già nel render l’idea con men parole possibili, come taluno immagina equivocando, ma sì nel renderla, in tante, nè più, nè meno, quante convengonsi all’indole, e al naturale sviluppo dell’idea medesima: non involge ella dunque la precisione nè brevità, nè lunghezza, non escludendo di sua natura fuorchè la sola superfluità; quindi non sol nel suo genere una lunga frase può, e dev’essere egualmente precisa, che una breve nel suo; ma sarebbe egual vizio l’alterar l’una o l’altra, e barbarie del pari imperdonabile l’ampliare e distendere in un lungo circuito di parole quel sì famoso "fiat lux, & facta est lux" come il restringere a questa secca e concisa espressione "l’alba sorgea" i bellissimi versi di quell’ottava del Tasso
L’allungamento della prima espressione di struggeria la sublime e sensibile idea della istantanea creazion della luce, e l’accorciamento della seconda cancellerebbe alla fantasia la circonstanziata pittura del nascere dell’aurora.
Che se questi principii servon di regola generale ad ogni originale scrittore, che pur è libero nella scelta e dell’argomento, e dello stile, che più gli piace, molto poi meno potrà prescindere un traduttore, a cui non resta verun arbitrio, e che dev’essere e nella materia e nello stile strettamente legato ed uniforme all’autore, correndo seco con passo uguale, e non più rapido, o lento lo stesso arringo.
Quanto però si mostrerebbe digiuno di queste stesse elementari nozioni chi nella traduzione italiana di un poema latino corresse subito a confrontare le pagine, ed esaminare, se i versi son di numero eguali con quei del testo, e per una falsa idea di precisione credesse una tale uguaglianza o un pregio, o un obbligo del traduttore! A disingannarlo e convincere di questo error puerile basti un solo argomento di popolare evidenza.
Il verso esametro dei latini di sei piedi composto, calcolabili in massa a tre dattili, e tre spondei, è già più lungo dell’endecasillabo nostro di quattro sillabe;
- Arma virumque cano, Troiæ qui primus ab oris.
- Canto l'armi pietose e il capitano.
S’aggiunga inoltre la privazion degli articoli, e de’ verbi ausiliari, e la maggior brevità di una gran parte delle parole latine a confronto delle corrispondenti italiane, ed avrem con ciò solo la material differenza di un terzo almeno, e conseguentemente saran tre versi italiani con due latini nella più stretta proporzione e uguaglianza. Chi adunque nelle due lingue esigesse un numero di versi eguale, esigerebbe nell’una una maggior brevità, che nell’altra; e quell’autore che si facesse un vanto di riuscire in questa impresa, imiterebbe quel famoso amanuense, di cui si dice, che rinchiuse trascritta l’intera Iliade in un guscio di noce; e quel che è peggio, storpierebbe Virgilio, e farebbe del suo poema un epitome in luogo d’una versione.2 Non è però da presumere, che la proporzione indicata possa o debba esattamente serbarsi verso per verso: molte ragioni di tratto concorrono ad alterarla, e in un lungo a restringerla, e dilatarla in un altro, onde soltanto nel totale dell’Opera risulti il giusto compenso. E quindi per questo titolo ancora sarebbe ingiusto il volere periodo per periodo, come in un distico si farebbe, confrontare col testo la traduzione: un tal esame, per darne un retto giudicio, è da istituirsi sopra un intero paragrafo, o un certo tratto di versi, o una descrizione compiuta, quella a cagion d’esempio bellissima di una pioggia estiva al v. 322 del libro primo. Leggasi questa, o qual’altra più vuolsi, tutta intera e di seguito nelle due lingue, e potrà in tal modo verificarsi, se nell’una e nell’altra corrisponde e combina adequatamente, e soprattutto se in ambedue sveglia e produce l’impressione medesima, ciò ch’è l’unico scopo, o certamente il primario d’ogni poetica traduzione.
Ed ecco e della fedeltà, e della precisione già detto assai, quanto almen basta a porre in guardia il lettore dai pregiudicii più frequenti e comuni. Resterebbe ora a parlar dello stile in generale, e certo sembra, che il darne una qualche idea sarebbe indispensabile in un poema, che dallo stil riconosce la sua maggiore celebrità, e la di cui traduzione per conseguenza dev’essere giudicata sotto questo confronto singolarmente; ma come questa materia è sì vasta, che il dirne poco non gioverebbe all’intento, e l’esaurirla sarebbe inopportuno e impossibile, così non restami, che un sol consiglio da suggerire per disimpegno. Ove il lettore, ch’io qui sempre ho supposto non letterato di professione, ma di sufficiente gusto e cultura, ove, dico, ei non abbia lumi abbastanza per giudicarne da se, sostituisca il sentimento alla teoria, e abbandonandosi all’impressione che ne risente, faccia suoi giudici o il piacere, o la noia, che per lo più soglion essere inappellabili e giusti. Sarà ben raro difatti che uno stil che sia bello veracemente, e formato su i principii immutabili della ragione e del gusto, non piaccia generalmente e diletti. È assai più facile ad avvenire, e avvien difatti sovente, che le apparenze di un falso bello facciano inganno, e seducano i men periti; ed è ver, che a difendersi da siffatte sorprese non basta il più delle volte il solo e nudo buon senso. Che far dunque in tal caso? Il più sicuro preservativo a mio parere, e il miglior mezzo per ravvisare e distinguere l’unico bello e legittimo dai moltiformi ed equivoci pseudostili, è il segregarne e dividere con riflessione leggendo le individuali ed estrinseche modalità dalle proprietà instrinseche, universali e costituenti. Ogni scrittore ha, non dirò già il suo stile, ma le sue personali differenze di stile che lo distinguon da ogni altro, come ogni volto ha la sua propria e diversa fisonomia: una cert’aria dilicata, o vivace, seria, od amena, maestosa, o gentile, fantastica, o sentimentale, e così via discorrendo, sono altrettanto fisonomie dello stile, ma non son lui, servono è vero a determinare e distinguere o le affezioni, o il carattere, ma di per se non ne formano nè la natura, nè la bellezza fondamentale; e chi però dello stil giudicasse da queste sole farebbe lo stesso sbaglio, che a giudicar di una musica dai soli tempi e dai toni, in ch’ella è scritta. Ma in che dunque consiste questa essenziale bellezza, e a quali note deciderne con sicurezza? Eccone in un breve abbozzo i principali e infallibili contrassegni, senza eccezione applicabili ad ogni stile e prosaico, e poetico, e di qualunque genere ed argomento: che sia prima di tutto chiaro, nitido e puro, ed in tutto il suo giro regolare e uniforme, che giudicioso e parco negli ornamenti n’escluda il lusso soverchio, e l’affettazione; che preciso ed esatto non adotti parola che non sia giusta, necessaria, espressiva e per quanto è possibile l’unica che convenga; che non soffra espressione intralciata, od ambigua, che confonda, od arresti l’intelligenza del senso; che proporzioni e misuri ogni periodo in guisa all’estension del pensiero, che nè lo storpi accorciando, nè dilungando lo snervi, e ne riparta e collochi i diversi membri per modo, che dia riposo all’orecchio colla distribuzion delle pause, e un costante solletico coll’armonia; che progredisca ed avanzi sciolto e spedito senza deviare, o ripetere, e che connesso nella sua tessitura divida e leghi con successiva e natural gradazione un’idea coll’altra, presti a ciascuna o la grazia, o la forza sua propria, distribuisca e adatti a proposito la varia tempra de’ suoi colori, e sappia destro e versatile a tempo e luogo essere or grave, or leggero, ora conciso, or diffuso, ora leggiadro, or robusto, e alternando discendere con eleganza, e sollevarsi con dignità; e finalmente e soprattutto, che libero e disinvolto nel suo lavoro manifesti e conservi una cert’aria di colta sì, ma spontanea naturalezza, e di quella appartenente e difficilissima facilità che non solo risparmia al lettor la fatica, ma non la lascia neppure sospettar nell’autore, e che occultando ad arte la sua secreta magia non cerca no di abbagliare, o sorprendere dapprincipio, ma lentamente e per gradi avvezza per così dire, e guadagna il lettore, e appoco appoco lo interessa e preoccupa, lo riscalda e seduce, onde ei rapito senza avvedersene da un’incognita forza non sa staccarsi dal libro, e anelando a finirlo ne accusa la brevità, e invogliato a rileggerlo vi scopre poscia nuove bellezze non esaminate o isfuggite nell’impaziente rapidità della prima lettura.
Tale è lo stil di Virgilio. E il vostro, con cui l’avete tradotto, chiederà forse taluno, vi rassomiglia egli, o vi si approssima almeno? S’io fossi stato o sì vano, o sì cieco da persuadermene, avrei risparmiata al pubblico questa mia prefazione, diretta come ognun vede ad accennare i difetti che ho procurato sfuggire, non a mettere in vista delle bellezze che oso dir di conoscere, e a cui confesso di non poter arrivare.
Note
- ↑ Non è frequente questo bisogno in Virgilio, e il più notabile esempio è, nel principio del libro secondo, l’apostrofe a Mecenate, che per isbaglio, credo io, di qualche amanuense, tronca e sospende l’esposizione introdotta dalla generazion delle piante, e vi resta in mezzo isolata e fuor di proposito. Io su l’autorità di qualche interprete, e più su quella della ragione l’ho restituita immediatamente dopo l’invocazione di Bacco, dove sembra chiamata naturalmente, e dove, ne son sicuro l’avrà Virgilio medesimo collocata.
- ↑ Un celebre autore francese di molto merito e di profonda intelligenza poetica fa riflettere al pubblico, che la sua traduzione non eccede, che in numero di pochi versi l’original di Virgilio. Questa sua protesta lungi dal contraddire conferma anzi l’asserzion mia. Quel che i francesi chiamano loro verso, equivale a un dipresso in materiale lunghezza all’esametro dei latini. L’autore è dunque su questo punto del pari; ma se riflettasi poi e al genio della sua traduzione, sarà piuttosto a stupire, ch’egli non sia riuscito più breve ancora del testo, che non più lungo di così poco.
Je chante les moissons, & dirai sous quel cigne
Il faut ouvrir la terre, & marier la vigne;
Le soins industrieux, que l’on doit aux troupeaux,
Et l’abeille èconome, & ses sages traveaux.