Gemme d'arti italiane - Anno I/Napoleone a Bologna di Francia
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NAPOLEONE
A
BOLOGNA DI FRANCIA
DIPINTO
di Giovanni Servi
per commissione del Sig. Carlo Gaggi, banchiere
Le grandi vittorie che valsero a Napoleone nell’anno 1805 la Corona d’Italia, non gli facevano dimenticare gli apparecchi di guerra per costringere gl’Inglesi ad una pace troppo necessaria ad affermare la sua grandezza; e stimolato da questo pensiero giungeva l’Imperatore nel luglio di quell’anno a Bologna di Francia, dove il consueto entusiasmo che suscitava la sua presenza fu temperato da un atto di acerba e solda-tesca durezza, che noi racconteremo compendiando le parole del Saint-Ililaire.
L’Imperadore palesa un mattino la sua volontà di far in quel giorno la rassegna dell’armata; e prima d’insellare, come avea per costume, ingiunge all’ajutante di campo Savary, di presentarsi all’Ammiraglio Bruix e dirgli di mettere al largo le na-vi, e d’operare in maniera che all’ora del suo ritorno potesse eseguirne la rassegna.
Il Savary, trovato l’Ammiraglio, gli espose il volere imperiale.
«Generale,» disse il Bruix, «mi duole nell’animo, ma la rassegna desiderata da sua maestà non può man-darsi ad effetto.»
«Che dite voi, signor Ammiraglio?» proruppe il Savary, attonito di quel rifiuto; e temendo non aversi abbastanza chiarito, gli ridisse il comando; ma non eb-be dall’Ammiraglio risposta diversa.
E di fatto nessuna nave s’era mossa dal porto, quando l’Imperadore, tornato dalla sua corsa mattutina, chiese all’ajutante se tutto era presto per quella rasse-gna; e l’ajutante gli ripeté, nota per nota, la risposta dell’Ammiraglio.
«Che significa questo?» tuonò la voce di Napoleo-ne, troppo avvezzo a vedersi ciecamente obbedito. «Savary! ritornate all’Ammiraglio, e ditegli di venire alla mia presenza per giustificarsi.» E, licenziate d’un cenno le persone che gli stavano intorno, si cacciò nella tenda.
Scorsero dieci minuti e l’Ammiraglio non arrivava. Crescevano intanto nell’animo dell’imperadore l’agitazione e l’impazienza, e seguito da pochi ufficiali uscì precipitoso dalla tenda. Ma fatti alcuni passi, s’abbatté nel Bruix che a lui ne veniva accompagnato dal Contro-Ammiraglio Magon e dal Savary.
«Signor Ammiraglio,» proruppe con voce scompo-sta, «perché non avete questa mane eseguiti gli ordini miei?»
«Sire,» rispose riverente il Bruix, «perché ne sovra-sta una terribile fortuna, e Vostra Maestà può da sé stessa avvedersene. Io pensai che l’intenzione del mio Sovrano non fosse quella di cimentar senza frutto la preziosa sua vita e quella dei prodi che lo circondano.»
E l’aria soffocata e pesante, il sordo e lontano mormorare del tuono senza fiato di vento avveravano il presagio dell’Ammiraglio.
«Signore!» ripigliò Napoleone, «io v’ho dato un comando, perché non lo avete eseguito?»
«Io non volli pentirmi in tutta la vita, d’aver causata la morte de’ marinaj e dei bravi soldati di Vostra Mae-stà.»
«Le conseguenze di quanto io dispongo s’aspettano a me solo. Non aggiungo che un detto: Obbedite! Ve lo impongo per l’ultima volta.»
«Sire, non obbedirò.»
«Come?» balbettarono le labbra dell’Imperadore tremanti di rabbia, «voi siete... un temerario!»
Così dicendo, collo scudiscio che tuttavia teneva fra mano, si muove minaccioso verso l’Ammiraglio. Que-sti retrocede d’un passo, e messa la mano sull’elsa, impallidito risponde:
«Spero che Vostra Maestà non vorrà disonorarmi, né disonorare sé stessa.»
Quantunque il Bruix fosse gracile e picciolo della persona, pure nell’atto che fece e nel profferire queste parole parve agli occhi dei circostanti mirabilmente ingrandirsi.
L’Imperadore stava immobile, convulso e vibrava sull’Ammiraglio il fulmine de’ suoi sguardi, ma non giunse a scomporre il nobile atteggiamento dell’avversario. Napoleone gettò da sé lo scudiscio ed il Bruix rimise nella positura naturale il suo braccio, aspettando a capo scoperto e con volto tranquillo la chiusa del formidabile dramma.
«Contro-Ammiraglio Magon,» disse freddamente Napoleone, «fate d’eseguir, senz’altro ritardo, la mostra che ordinai questa mane. E voi, signore, uscite in istante da Bologna. Nel termine di ventiquattro ore vi sarà noto il vostro destino.»
L’Imperadore s’allontanò accompagnato dai Generali, e l’illustre Ammiraglio morì l’anno seguente a Parigi non lasciando alla propria famiglia altra eredità che la gloriosa memoria de’ suoi servigi e del suo forte ed alto sentire.
Ciò che l’Ammiraglio avea presagito, sventuratamente successe. Scoppiò la tempesta e disperse le navi sbucate appena dal porto; e per quell’inconsiderato comando rimpianse Napoleone parecchi de’ suoi valorosi, e per poco non rimase egli stesso ingojato dall’onda.
Da questo fatto, che segna una trista pagina negli Annali di Napoleone Bonaparte, fu tolto il soggetto al dipinto di cui presentiamo l’incisione; ma teniamo per fermo che l’egregio artista non lo abbia spontaneamente trascelto fra gli avvenimenti di quella vita portentosa. L’arte, come la poesia, deve più volentieri coprire che rivelare gli errori de’ Grandi, lasciando alla severità della storia questa ingrata e necessaria missione.
Ma la scelta non buona dell’argomento ci viene ricompensata dalla maestrevole esecuzione. L’aspetto concitato e terribile dell’Imperadore, e quel rispettoso, ma fermo e non turbato dell’Ammiraglio, offrono un felice contrasto ed espresso senza sforzo e senza esagerazione.
Così la trepida aspettazione, dei due Generali e della Guardia, che fanno gruppo di fianco, è significata con molto sapere. Nulla nuoce all’effetto delle figure principali; e la veduta della fortezza a sinistra, e quella dell’Armata a destra colla città che si prolunga sulla riva del mare ingombrato da una selva d’antenne, non ne distraggono l’attenzione. La monotonia delle linee, che poteva nascere dalle persone in piedi, fu pure accortamente evitata col porre vicino all’azione due soldati, che si piegano a sollevare un cannone. Aggiungasi un colorire, non troppo vivace, ma giusto ed armonioso, una diligente finitezza di tocco, ed una mirabile correzione nel disegno, e dovrà giudicarsi questo dipinto per uno dei buoni che abbellirono in quest’anno la pubblica mostra.
Al nome di Giovanni Servi corre pronta la lode sul labbro di tutti quelli ch’hanno vero intelletto dell’arte e del bello. Nutrito a’ grandi esemplari ed allo studio della natura, si staccò di buon’ora dalla gretta e servile imitazione, che manifesta per consueto un ingegno mediocre, o tronca le penne a chi potrebbe spiccare un volo più largo e singolare. Le sue numerose pitture, più o meno vicine all’eccellenza, ma sempre lodate per bontà di concetto e di disegno, lo pongono tra i valenti pennelli di quella scuola, alla quale presiede quel glorioso intelletto di Francesco Hayez. I temi che sembra il Servi più carezzare sono gli storici de’ mezzi tempi, ma la sua fantasia s’innalza volentieri anche ai poetici; e ci sovviene di quella tela, esposta or fanno quattro anni, la quale ci ritraeva un affettuoso episodio tolto dal Paradiso e la Peri, poema orientale di Tommaso Moore. La somma difficoltà di riprodurre e clima e costumi così diversi e lontani da’ nostri, non solamente venne dal Servi trionfata, ma la punta del suo pennello ha saputo indurvi non so che di vaporoso e di nuovo, che rispondeva perfettamente al genere dell’orientale poesia. Nei subbietti del nostro tempo, malagevoli anch’essi per l’attillatura e soverchia semplicità delle vesti, che non porgano all’arte quel largheggiar di pieghe di cui tanto si ajuta l’effetto pittorico, il Servi non è meno felice; ed oltre al quadro di cui sopra parlammo, i visitatori delle Sale di Brera ricordano tuttavia con diletto lo sbarco di Napoleone a Cannes fuggito dall’isola d’Elba, e quel selvaggio entusiasmo de’ suoi vecchi compagni di gloria.
Se la popolarità dell’argomento, come dicono gli estetici, raddoppia l’attenzione dei risguardanti, nessun altro ne tiene la storia più popolare di questo. Quantunque l’apparizione dell’uomo straordinario sia vicinissima a noi, pure le cose incredibili ch’egli operò serbano quasi un’impronta di favoloso e d’eroico, ed aprono una fonte ai tentativi dell’arte; perché nulla di più poetico di quell’alta intelligenza che pose in atto e diede sostanza a fantasmi, i quali non furono mai creati da umana immaginazione. E la pittura, per essere grandemente effettiva, basterà che metta innanzi con istorica verità le sembianze di Napoleone, perché la mente di chi le mira corra alle grandi vicende che agitarono la fine del secolo decimottavo ed il principio del nono; quand’egli incalzato dalla tremenda necessità di giungere colla spada e colla vittoria alla signoria della terra, scosse gli antichi troni d’Europa senza che nulla potesse arrestarlo, né la lega di tutte 1e monarchie, né l’Inghilterra, esaurente contro di lui la sua ricchezza e l’odio suo, né le passioni scatenate su tutta la superficie del globo.
Ma se l’arte della pittura colla semplice espressione del fatto può destare in chi mira tutti questi pensieri, quella del poeta debbe soccombere a fronte d’una realtà, superiore a qualunque poesia. Imperocché, se togliamo Alessandro Manzoni, che nel canto più sublime del nostro secolo, si è levato all’altezza dell’argomento, né Giorgio Byron, né Alfonso La-Martine, né Victor Hugo, senza parlar de’ minori, seppero evitarne lo scoglio.
Pure è tale e tanta la maraviglia, la quale dalla presente passerà nelle future generazioni, che l’animo riscaldato dalla poesia, non atterrito né dal subbietto, né dalla caduta de’ molti che lo trattarono, vorrà provarvi le sue potenze. E prima ancora che il tempo getti sopra quell’uomo il suo velo misterioso, l’esimio poeta alemanno, Giuseppe Cristiano di Zedlitz, ha forse
combattuta la nostra opinione in un canto che pubblicò nell’anno 1828 a Vienna col nome di Corone funebri. E ne piace tradurre ai nostri lettori quei versi che volge il poeta alla tomba di Napoleone, nella speranza elle fac-ciano essi dimenticare il fastidio delle nostre parole.
Il Genio dei sepolcri conduce il poeta sulla tomba di Napoleone ravvolgendolo del suo manto.
... E circonfuso
Nel manto dello spirto ancor m’intesi,
E sospinto di novo ad indefesso
Rapidissimo volo. Il continente1)
Già spariami dagli occhi ed ogni suono
Di viva creatura era già muto.
Ma i silenzi rompea di quella fiera
Solitudine il solo ed uniforme
Fragor dell’onde che selvagge e vaste
Or s’apriano allo sguardo in un abisso
Spaventoso, infinito, ora sorgendo
Prendeano di nembose alpi l’aspetto,
E n’uscia di tal vista uno sgomento
Simile a quel terror che ne propaga
L’eternità. Né meta aver parea
Quell’arcano viaggio. Il lume al bujo
Succedea di continuo, ed or l’aurora
Corruscavami innanzi e dietro a quella,
Per sentier di zaffiri e di piropi,
L’aureo cocchio del sol che temperato
Dal vapor mattutino il mar vestìa
D’una fiamma sanguigna, e noi d’un fiume
Abbagliante di raggi, ed or vedea
Rabbujarsi il convesso e torreggiando
Nube a nube affoltarsi, e sulla faccia
Dell’universo declinar la notte,
E sentìa
lo stormir degl’ippogrifi
Aggiogati al suo carro e l’agitarsi
Delle orribili penne e delle giubbe.
Poi la luna e le stelle uscir dall’ombre,
E danzanti nel voto argentei lumi,
E piovere da quelli una dolcezza
Di quïeto splendor sui tenebrosi
Campi che trasvolando io percorrea.
Ed ecco biancheggiarmi, in nebulosa
Lontananza confuso, un breve punto
Che sorgea da’ mairosi irradiati
Dal fioco lampo della luna «Oh giunti
Siam noi?» Richiesi la spiral mia guida.
E quella: «In poco d’ora. Andiam! mi segui!»
E lieve lieve ripiegar sentìa
Per l’inospite lido il portentoso
Manto che ne traea per tanto cielo
Come un plaustro dì nembi. E fuor dell’acque
Una rupe solinga ergea la cresta,
E null’altro che mare, interminato
Mare, in cerchio diffuso, a tergo , a fronte
M’affaticava le pupille; un lido,
Una costa virente al desolato
Emisperio di flutti invan chiedea.
Ruinata dal cielo in quel profondo
Parvemi la scogliera, e congiurate
Tutte l’onde marine, ad ingojarla,
Inferocite le batteano i fianchi;
Ed ella si ridea dell’indefesso
Romoroso travaglio, e non curante
L’eterna rabbia consumar lasciava;
Perché Dio la vi pose, e fino al giorno
Che non ha sera, vi starà. Posava
Sul vertice un feretro2), ed una spada,
Unico fregio, risplendea su quello.
V’era un lauro vicino e fulminato
Dalla fiamma del ciel, sicché diviso
N’era il gran ceppo che pur or mandava
Vigorose ed altere al ciel le braccia.
E benché fulminato ancor vivea;
Verdeggiavano ancor gl’infranti rami
Di mirabile fronda, e la bufera,
Cui parea dal destino abbandonato,
Non isterpava le cupe radici,
Che l’Eterno vi fisse acciò rimanga
Ne’ secoli futuri un monumento
Di severa giustizia. Un regio scettro,
Un diadema spezzato ed una vesta
Di candido armellino, illustri insegne
Di tirannia, giaceano al suol confuse,
E là disperse dalla man del fato
Come a deriso dell’estinto. Io vidi
Scolorata la porpora, bruttati
Quei simboli pomposi e folgoranti
D’una grandezza che cessò. Ti debbo
Questo loco nomar? (la mia fedele
Scorta proruppe). «I simboli spiegarti
Miserabile fregio a questo avello?»
«Taci, taci!» risposi; ed un ignoto
Sentimento d’angoscia al cor mi scese.
«Dunque io premo la gleba ove riposo
L’ossa tue ritrovar? le tue superbe
Ossa che tutta sbigottîr la terra
Mentre le governava il tuo pensiero?
Dunque un povero lume a te non resta
Dell’immenso splendor che ti diffuse?
Il tuo trono è sovverso, in brani è l’ostro
Che sì tenace t’avvolgea, distrutte
Le tue cento corone, e fin l’alloro
Dal fulmine sfrondato. Il tuo cruento
Ferro soltanto sull’avel riposa,
Sul avel che dai turbini percosso
Preme un orrido scoglio in mezzo all’onde.
Derelitto qui giaci ed incompianto…
Dunque alcun non t’amò? ... L’addio prendevi
Dalla vita mortal sulle tremende
Soglie dell’immortale, e nelle fronti
Che ti stavano intorno invan cercavi
Qualche nota sembianza... ed ahi! Nessuno
Della turba infedele a cui gittasti
Le corone e gli scettri allor t’apparve!
Nessuno al raggio del cadente sole
S’accostò degli antichi astri seguaci!
Il tuo spirto affannoso in un lamento
Passò l’arcana soglia, ed un’amara
Lagrima gli occhi nel signor ti chiuse.
Straniere mani composero in croce
Sul tuo petto le tue... ma chi la prece
Sulla tua spoglia mormorò? Nessuno
Ti fu pio d’una lagrima? Nessuno
Confortò d’un sospiro il grande estinto?»
«Ma nol piangi tu stesso?» (I1 mio severo
Condottier m’interruppe) e non sussurri
Cari detti di pace e di perdono?
L’uom che seguo fu posto alla bestemmia
Dell’indignata umanità, che tuona
Fino a questo dell’orbe angolo estremo
L’orrendo grido della sua vendetta,
Questi al pianto ti muove? e fai preghiere
Quando un eco di rabbia si solleva
Dalle quattro del mondo avverse plaghe?
Se ti vinse il baglior della sua vita,
Pensa, o debole core, al suo tramonto!
«Piango (così risposi a quell’acerbo)
Piango su questo avel, perché m’irrita
La spregiata, vulgare, abbietta ciurma.
Finché visse quel forte incoronato
Della sua gloria, si piegar costoro,
Come vermi fangosi, entro la polve;
Né per ciò che l’opima India rinserra
Avrebbero bisbiglia una sommessa
Paroletta di biasmo; ed or che sparve
La meteora fatal dall’orizzonte,
Sorgono dalla melma, e sull’antico
Fulminato Titano inverecondi
Gettano a prova la vergogna... i vili
Che fastosi recar le sue catene!
Odïarlo, o malnati, era concesso,
Ma la codarda irrision non giunge
All’altezza sublime ove s’assise3);
Un turbine egli fu che dall’eterno
Trono discese a ripurgar la terra,
E fe’ chiaro ai mortali onde venia.
Dunque al suol le ginocchia, o sciagurati,
Che baciaste tremando i suoi vestigi
Quand’ei della divina ira ministro
Sovra il capo vi stette. Egli non cadde
Per umana virtù, ma quella possa
Che dalla polve l’innalzò, di nuovo
Nella polve lo stese, e voi potete
Voi millantarvi della gran caduta?
Io che strinsi l’acciar nella battaglia
Contro il forte felice, al forte in ceppi
Non insultai». Del lauro, in questo dire,
Svelsi un picciolo ramo e lo mi chiusi
Per ricordo nel seno. Oh m’ allontana,
M’allontana di qui! fuggiam da queste
Lagrimevoli spiagge! (al mio custode
Così gridai) Qual altra umana sorte
Sarà degna di pianto, ove nol sia
Questo prosteso dalla man divina.
Perché cieco di gloria, inebbriato
Della sua vasta ambizion si rise
Dell’umana natura? Oh via! fuggiamo
Solleciti di qui, dalle reliquie
Della stella consunta.
1) Questa voce non antica, ma necessaria, venne usata dal Monti nella Palingenesi Politica.
2) Sovvenne al poeta, nel dettar questi versi, la celebre pittura di Orazio Vernet.
3) Allude il poeta alle sconce caricature che uscirono in quel tempo.
Cav. Andrea Maffei