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Che non ha sera, vi starà. Posava
Sul vertice un feretro2), ed una spada,
Unico fregio, risplendea su quello.
V’era un lauro vicino e fulminato
Dalla fiamma del ciel, sicché diviso
N’era il gran ceppo che pur or mandava
Vigorose ed altere al ciel le braccia.
E benché fulminato ancor vivea;
Verdeggiavano ancor gl’infranti rami
Di mirabile fronda, e la bufera,
Cui parea dal destino abbandonato,
Non isterpava le cupe radici,
Che l’Eterno vi fisse acciò rimanga
Ne’ secoli futuri un monumento
Di severa giustizia. Un regio scettro,
Un diadema spezzato ed una vesta
Di candido armellino, illustri insegne
Di tirannia, giaceano al suol confuse,
E là disperse dalla man del fato
Come a deriso dell’estinto. Io vidi
Scolorata la porpora, bruttati
Quei simboli pomposi e folgoranti
D’una grandezza che cessò. Ti debbo
Questo loco nomar? (la mia fedele
Scorta proruppe). «I simboli spiegarti
Miserabile fregio a questo avello?»
«Taci, taci!» risposi; ed un ignoto
Sentimento d’angoscia al cor mi scese.
«Dunque io premo la gleba ove riposo
L’ossa tue ritrovar? le tue superbe
Ossa che tutta sbigottîr la terra
Mentre le governava il tuo pensiero?