Gemme d'arti italiane - Anno I/L'apertura di una nuova osteria
Questo testo è completo. |
◄ | L'incontro di Giacobbe ed Esaù | Napoleone a Bologna di Francia | ► |
L'APERTURA D'UNA NUOVA OSTERIA
L’APERTURA DI UNA NUOVA OSTERIA
QUADRO AD OLIO DI EUGENIO BOSA
per commissione del Signor Hirschell di Trieste
Adesso che si raccolgono per le vie i figliuoli del mendico onde crescerli a quella operosità che è scala a domestiche e cittadine virtù, ora che nelle umili canzoni del popolo si rinviene quel profumo di poesia e d’affetto che manca alle gioje annojate del ricco, ora in fine che la scienza sociale, Fata onnipotente che colla magica verga tutto il mondo tramuta, tenta far migliore la sorte di chi soffre negli ergastoli e stenta il pane nelle officine, io confido che saranno meglio rispettate quelle tele le quali mirano a dipingere le allegrezze e i dolori del popolo minuto; nè più le sentirò rabbassate col nome di minor pittura. — Se v’ha mezzo con cui l’arte possa giovare alla società, adesso che la società non ha più come un tempo bisogno dell’arte, egli è quello di rappresentare le azioni contemporanee che agitano tutti gli spiriti, tengono occupate tutte le menti. Io credo che gli uomini si fermerebbero di più dinanzi ad un quadro o ne partirebbero più commossi se, invece di porgerci Coriolano o Francesca da Rimini, esso figurasse con terribile evidenza le sofferenze del prigioniero recluso solo in una cella come nelle prigioni di Filadelfìa, ovvero mostrasse le miserie ed i necessarii delitti di chi uscito appena di carcere, è maledetto, rejetto, perseguitato da quella società stessa di cui la legge lo credette ancor degno. Pittura di genere, sì, finchè volete, sarà codesta, o estetici, che lodaste per anni e secoli le Aurore e le Veneri dell’Albani e dei Carracci! pittura di genere, ma di quel genere che fa battere più presto il cuore e pensare seriamente alle sciagure de’nostri fratelli. Ditemi, o lodatori, delle Veneri e delle Aurore, perchè la Francia e la Germania abbiano mandato un pianto di sì viva commozione, guardando alle due tele famose di Scheffer e di Kaulbach, le donne Suliotte che si precipitano dall’alto degli scogli, e la Casa de’Pazzi? Oh! non per altro, se non perchè ambidue mostrarono piaghe che laceravano la società presente e svelavano colpe contemporanee.
Nè con questo intendo che s’abbia da abbandonare o da spregiare la pittura religiosa, o quella che presenta i grandi fatti de’trascorsi secoli. Mi guardi il cielo da tanta bestemmia; chè l’una e l’altra valgono ad alzar lo spirito verso nobili imprendimenti e confortatrici virtù; solo vorrei che si tenesse in molta stima anche quell’arte che può parlare più direttamente a noi uomini del secolo decimonono, metterci innanzi i nostri vizii e farcene vergognare, od indicarci quelle intime ed occulte virtù che gioverebbe mettere in luce. Oh sì, amiamola quest’arte, la quale di sì vantaggiosi frutti può farsi feconda, ed amiamola tanto più quando essa sia trattata da artisti che, pari ad Eugenio Bosa, sappiano congiungere la morale colla materiale verità.
Egli nato ed educato fra le originali maraviglie dell’unica Venezia, fin da fanciulletto ammirando gli ilari costumi e le allegre festività della patria. tutto adoperò il molto ingegno suo a diventarne col pennello l’interprete. S’addentrò nelle vie, ne’tugurii, nelle taverne; sorprese il povero nell’allegrezza, nella rissa, nel pianto; lo vide quando per le callaje col canestro in capo va vendendo il pesce a ritaglio; lo osservò, e quando estatico ascolta le rime sbagliate dell’improvvisatore, e quando plaude clamoroso ai lazzi de’burrattini, microcosmo che forse rivela certe magagne sociali meglio di cento romanzi intimi. Poi s’accostò alla rivendugliola che fa scialo di quattro cenci sudici quasi fossero broccato; entrò nella stanza tapina dell’artigiano quando, venduta la gonnella della moglie, affida quel misero ultimo denaro ad un numero, che, ostinato a non uscire dall’urna, lo lasciò in braccio a nera disperazione. Seguitò il popolo nell’agili barchette alle feste del Lido e di S. Marta, nei freschi notturni, quando prepara contento il desco poveretto dappresso alla sponda famosa ove approdarono le flotte della insigne repubblica. Il valente Bosa, facendo di tante svariate e vivaci scene raccolta, le tradusse sulla tela in tal ordine che quasi presentassero tante pagine della storia popolare dei Veneziani; ed egli poi raggiunse il difficile assunto con tale una verità ed un sapere, che in breve gli guadagnò nome d’uno de’più valenti d’Italia in sì fatti argomenti.
Il quadro sul quale ora dirò alcune parole è anch’esso pagina di questa storia e forse una delle più care e delle meglio condotte.
È in Venezia costume antico che nel primo giorno in cui s’apre un di quei ricetti nei quali il popolo va cosi spesso ad affogare nel vino la ragione e gli affanni, il nuovo Oste dia da bere ad ufo ad ognuno che passa, affinchè vada trombettando per la città l’eccellenza della vernaccia ch’egli spillò dalla botte allora.
Ma quel mezzo solo sarebbe e debole e tardo a procurar pronta fama; e l’Ostiere, che è uomo di attualità e di progresso, ben sa che il più delle volte senza pagare un gridatore pubblico che persuada l’attonito universo esser noi il non plus ultra delle brave persone, l’universo non se ne vuol persuadere. Quindi a guisa di certi cantanti e di certi scrittori, ha anche egli il suo giornalismo assoldato che gli cresce riputazione. Se volete è un giornalismo alla buona che non mette uggie o paure nella repubblica delle lettere, che non va per le stampe, e non fa spendere gli associati; è un giornalismo parlato o meglio gridato, che esce dalla bocca di un buon barcajuolo in tutta confidenza, con una sdrucita camicia indosso e le brache raccenciate, il quale con quanto ha di voce nell’ampio polmome, invita il vicinato a profittar della basa. — E la stentorea sua voce non cade inascoltata nel vano come quella del profeta: da tutte parti piovono gli avventori a due, a quattro, in brigatelle di intere famiglie colle donne lattanti e i bimbi in collo, tutti colla faccia spianata a giocondità, con un certo fare tra il benigno ed il mansueto che accenna al gran pensiero di tanti, anche illustri mortali, goder senza spendere. Giurereste che que’visi sereni troveranno un’ambrosia il vino che verrà lor regalato: domani poi, quando comincieranno a pagarlo, allora li sapranno rimuginar fuori i difetti. Nè più nè meno come in certe accademie vocali ed istrumentali ove, se il padrone v’invita al rinfresco, non bastano mani per applaudire, nè voce per gridare bravo: ma se poi quegli stessi dilettanti facessero pagare un tanto per testa, lo sentireste allora il benigno pubblico se saprebbe martellare quegli sgraziati.
Il Bosa nel dipingerci una tale costumanza, non di-menticò nessuna di quelle circostanze che la possono rendere non solo vera, ma tutta veneta; sicchè al primo vederla tu esclami — Oh eccomi nella pittoresca Città che nel mondo non ha l’uguale. — La scena presenta una di quelle piazze veneziane che si dicono Campi. Non potresti affermare che quello sia sito vero, ma certo ogni linea ti ricorda Venezia e ti offre quel bizzarro accozzamento di antico e di moderno che la fa così singolare. Fra le logore muraglie di antico palazzo del medio evo s’apre una porta, che agli avanzi dell’arco diagonale riconosci per una di quelle che davano ricetto ai potenti delle età in cui Venezia solcava i mari, temuta regina. Il tempo e la negligenza degli uomini ne guastarono la primitiva magnificenza, e quando gli stipiti caddero e la soglia spezzossi, si racconciarono le rovine secondo i miseri mezzi dei nuovi inquilini; e ai marmi magnifici furon surrogati pezzi di tarlato legname, e là dove forse un giorno s’alzavano superbamente dorati gli stemmi di patrizia famiglia, ora leggi Nuova Osteria con quel solito festivo W sottoposto che un turista umanitario piglierebbe per una misteriosa allusione al trionfo della plebe sulle antiche feroci oppressure dei signorotti. Su quella porta è una folta di gente che v’entra e n’esce. E in mezzo ad essa spiccano due personaggi indispensabili a quel teatro; cioè il venditore d’ostriche ed il poeta delle Osterie, che mette di buon umore la popolaglia con sonetti e canzoni estemporanee da dieci anni ripetute, e che egli accompagna coll’aspro strimpellamento dell’ingrata chitarra. Povera poesia! ella accarezzata un dì dalle Corti, coronata in Campidoglio, salutata educatrice delle nazioni; vedetela là col cappello pesto dal tempo e dalla pioggia, lacera, affamata, ricovrarsi fra l’orgie briache della taverna a reggersi d’accatto e a domandare, spesso indarno, un tozzo che essa vede gettato ai cani della contrada! Ma almeno in quel colmo di miseria e di avvilimento essa non ha lo sconforto di udir la nazione comandarle imperiosa il silenzio, perché il suo regno è finito; ella non sente lo stridore delle vie ferrate soffocar la voce inspirata e lamentevole de’suoi carmi, e cinquanta economisti dirle che essa non ha più fra gli uomini sede acconcia, perchè non intende le statistiche speculazioni, il sistema penitenziario e i rimedii pel pauperismo. Povera poesia! essa almeno ascoltata adesso nelle Osterie da una plebaglia festosa, trova nella sudicia tana il suo Olimpo e il suo bosco Parrasio, e anche essa in questo giorno d’universale gazzarra, col bicchiere in mano riderà forse del matto secolo lottante fra un positivo che uccide lo spirito, ed uno spiritualismo che annoja la vita e schiaccia il buon senso.
Subito fuor della porta siede dinanzi a scassinata tavola una ben tarchiata e rotonda copia d’amanti. L’uomo pare intento a persuadere la sua compagna affìnchè essa gusti di quel liquore: egli non è di coloro che sospirano e languono mesi ed anni per guadagnare le grazie d’una bella: è filosofo, sa che la vita è breve, e che guai a chi perde tempo nel goderne le gioje.
All’altra parte della tela, e proprio sulla sponda d’un Rivo il banditore con una boccia in mano invita a gran voce il vicinato, perchè corra ad assaggiare di quel prezioso vino.
Ma la sua è missione ben più seria che quella di gridare contro la tratta dei negri; egli cederà alla fatica, la sua voce s’affiocchirà; quindi è che gli sta vicino un garzoncello di forse quattordici anni per far le sue veci, quando egli avrà bisogno di riprender fiato. Già il portentoso invito ha prodotto l’effetto che si bramava, e nel lontano vedonsi uomini e donne affacciarsi alle finestre e alle porte, e disporsi a visitare l’ospitale bettola. — Ma è nel centro del quadro che bisogna fermarsi per ammirar l’ingegno del Bosa a cogliere con verità i tipi e le abitudini del popolo veneziano. Colà è un gruppo di veri amatori, i quali, al paro dell’accademia del Cimento, provando e riprovando, si dispongono a dare un profondo giudizio sul vino che fu loro dispensato.
A destra un vecchio pescatore, coperto del suo pittoresco capotto, tiene un bicchiere in mano che par voler porgere ad una donniciuola che gli sta vicino; una di quelle che discendono in diritta linea dalle Putte onorate dell’immortale Goldoni. A canto d’essa altra donna, bella di quella bianca bellezza veneziana che manda all’occhio sì voluttuose impressioni. — Ella, sposa da poco tempo, ha portato seco il suo bimbo in fasce e vorrebbe che anch’egli gustasse di quella ambrosia ad ufo; ma il bimbo, più assennato della mamma, se ne mostra schivo. Dietro gli ora indicati sta un uomo, così in sui cinquanta che par allora aversi staccato il bicchier dalla bocca; e comprime le labbra come di chi vuol raccertarsi se il vino sia buono davvero. Colui, tuttochè forse famoso frequentatore d’ogni taverna, tuttochè formidabile giudice d’ogni cantina, non osa però precipitare un giudizio; non è come certi amatori di libri o di quadri che si contentano d’uno sfuggevole colpo d’occhio per sentenziare; no, egli è della scuola de’coscienziosi, e gli bisogna tempo e pazienza a decidere.
A sinistra di questa gente e proprio sul dinanzi del quadro una vecchia Gabrina sta raggricchiata sui sedili d’un ponte, malconci dall’età quanto l’antica ospite che essi accolgono. E sapete perché il bravo Bosa ha posta la buona donna acquattata in quell’angolo così lontana dagli altri? Perchè egli, che di continuo scruta nello spirito dell’uomo, ben sa che nell’anima dei vecchi cova spesso quell’egoismo che più non cura nè a gioje, nè a lagrime dei fratelli. Anche ad essa toccò la sua porzione di vino, e forse più abbondante che agli altri, perchè più degli altri perseverante abitatrice di que’radotti della scioperataggine: ma ella o timida di dover con altri dividerlo, od avida di gustare senza disturbi i diletti della gola, gli unici che i sensi godano in sì tarda età, s’è raccolta in quel cantuccio colla speranza che nessuno gieli turbi. Si ingannò, che due cani più astuti degli uomini, accortisi ch’ella inzuppava nel vino un bel pezzo di pane, le tenner dietro; ed uno a cui in altri tempi la nostra vecchia avea elargito forse qualche bocconcello, s’è creduto in diritto proprio d’assestare il suo grugno sulle ginocchia di lei, mentre l’altro, un bel cane inglese, straniero a quella liberalità, si contenta di starla ad osservare un po’ da lontano, non senza però destare gravi sospetti nel primo che lo sogguarda con occhio ringhioso. — Poche volte mi avvenne di vedere nei dipinti del Bosa figura più vera e più viva di questa vecchia accattona. Egli seppe indovinare con rara accortezza il movimento raccolto di chi vuol porre in sicuro qualche cosa di caro; e nella faccia igrognata effigiò stupendamente quel dispetto stizzoso di chi teme vedersi tolto un piacere cui da lungo tempo ago-gnava. Ma non qui solo è da cercarsi la verità e la vita del quadro che abbiamo sott’occhio. Questi tanto raccomandati ma sì rari pregi dell’artista, che spiccano sempre nei dipinti del Bosa, compariscono in questo ancora meglio che in altri suoi. Per tutto v’è quello spontaneo, quel naturale che attesta la ingegnosa ed incessante osservazione del vero. Son veri quei movimenti, vere quelle teste; sicchè diresti che sulle piazze, sui crocicchii, nelle callaje, t’abbattesti mille volte in quei volti, sentisti accapigliarsi per non so che frottola quelle donnette; quei pescivendoli ti straziaron l’orecchio col lor ritornello, la varda co’ vive, a diese al grosso le sardele.
Ed arrestandoci poi sui soli pregi tecnici, anche in questo come in tutti gli altri dipinti dell’egregio artista brilla per molta armonia il chiaroscuro, le ombre mostrano quella trasparenza che s’acquista soltanto coll’uso di sapienti velature, i meccanismi del suo pennello son variati a seconda della diversa natura delle materie che egli rappresenta. Sola cosa forse desiderabile sarebbe un colorito più succoso e più caldo.
P. SELVATICO.