Frammenti (Saffo - Bustelli)/Vita di Saffo/XI

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Saffo - Frammenti (Antichità)
Traduzione dal greco di Giuseppe Bustelli (1863)
Vita di Saffo - X Vita di Saffo - XII

[p. 48 modifica]La lirica greca salse appunto a grand’eccellenza nell’età saffica. Prima Archiloco, più presso Tirteo, precedettero la Nostra: subito l’ebbe seguitata Anacreonte. Quel Pindaro, che la posterità riverisce principe dei lirici antichi, porterebbe forse gran pericolo della maggioranza, qualvolta per improvviso miracolo ripigliassero voce e suono le perdute o sepolte melodie della Mitilenese. Quantunque alcun verso d’amore uscisse dal mordace Alceo,

Alceo conobbi, a dir d’amor sì scorto
(Petrarca, Trionfo d'Amore, IV, 16);


riman vero che la Mitilenese, trattandone ex professo e più largamente e più divinamente, alzasse prima l’insegna della poesia d’amore; [p. 49 modifica]cui poscia illustrò di nuove glorie Anacreonte,

Anacreonte, che rimesse
Avea sue Muse sol d’Amore in porto
(Petrarca, Ivi, 17-18):

se non che l’una sentì e cantò la passione, l’altro il piacere. «Rispetto alla lingua greca, Saffo concorse ad ampliarla e insieme fermarla. La frase omerica somiglia panno ondeggiante di larghe pieghe: Saffo la rassettò; la strinse: non però levandole grazia; ma solo conforme il ritmo lirico ricercava; il quale ella variò, dettando inni, odi, elegie; e mescolò l’eletta elocuzione co’ lenocinii della pronunzia e del dialetto eolico. Lei tutti gli antichi salutarono pari quasi ad Omero, maggiore quasi di Pindaro (Deschanel).» E il nostro Petrarca (Ivi, 25-27):

Una giovene greca a paro a paro
Coi nobili poeti gia cantando,
Ed avea un suo stil leggiadro e raro.

Costei, d’anima ardentissima, certo amò più che femminilmente; e di quel foco scaldò le pagine; e quel foco, ridotto per ingiuria del tempo a favilluzze ne’ molti frammenti rimastici, gitta per anche luce e calore. Di quelle infocate poesie ci desta vivissima l’imagine Plutarco nell’Amatorio, paragonando [p. 50 modifica]Saffo a quel Caco figliuolo di Vulcano, che vomitava fuoco e fiamme dalla bocca; e: αὕτη δ᾽ ἀληθῶς (soggiunge) μεμιγμένα πυρὶ φθέγγεται. Leggendo i frammentuoli preziosi, tu sei tratto a ripetere la parola che all’infelice poetessa prestò Ovidio (Eroid., XV, 12):

Me calor Aetnaeo non minor igne coquit.

Nè que’ rimasugli ti riescono scarsissimi ad indagare e quasi ritessere, per divinazione di cuore, la storia di cotesta singolare anima. L’Ode II nell’antica poesia, non invecchiata mai, dei Greci e de’ Latini regna come unica signora, chi la risguardi come la più viva e spirante manifestazione della passione e dell’amore antico. Tanto stupendamente vera e visibilmente parlante, che innamoratosi Antioco (figliuol di Seleuco Re di Siria) della matrigna Stratonica, ed ammalatone, occultando la passione; il medico Erasistrato, scorti nel giovine, all’apparir dell’amata, i segni di violento amore, come Saffo li divisa, ne scoperse e potette sanare la celata infermità (Plutarco, Vita di Demetrio): di che venne famoso tra i medici. E d’amore impetuoso, profondo, quasi direi da moderno romantico, segna Saffo un’orma lucida, incancellabile nel Framm. LXX; col quale puoi mettere a riscontro i [p. 51 modifica]Framm. XXX, XXXV, LI, LXXXVII, non dissimili, che l’altro commentano. Io mi vo figurando che, se noi moderni possedessimo tutte le liriche di Saffo, molto ne potremmo apprendere sul magistero di contemperare, e quasi contessere, l’arte antica e il moderno sentire; per la cui disunione oggidì moltiplica tanto brulicame di pedanti e frenetici. — La luna, pomposa del candore, il pomiero agitato dal vento, la stella della sera, le dipinture campestri, gli orti delle Ninfe (Demetrio Falereo, Dell’Elocuz., 132); i nappi e i sacrifizii; gl’inni e la bestemmia; le preghiere d’amore infocato e le invettive di gelosia furente; l’affetto grecamente dilicato e l’ironia finamente socratica (Massimo Tirio, Dissert. XXIV); l’amore accolto e il rifiutato; il convegno fallito e la solitudine; le amiche e le nimiche; le discepole sconoscenti e la bamboletta consolatrice; l’invidia battagliera dei presenti e (contrapposto remoto, ma certo e fortemente presentito) la deificazione de’ posteri; e Venere ed Amore che scendono dal cielo; e i doni destinati a placare Afrodite; — tali e altre somiglianti le figure che, variamente raggruppate, ora coll’amplesso beato delle Grazie, ora col cipiglio tetro dell’Eumenidi, [p. 52 modifica]atteggiarono o agitarono la poesia saffica. Suada, la Dea della persuasione, che, giusta Saffo, era prole di Venere (Scoliaste di Esiodo, Opere e giorni, 73), la cospergeva di gajezza perpetua. Vi spesseggiavano gli encomii ai fiori; alla rosa nomatamente. «Saffo la rosa ama, e corona quella sempre di alcuno encomio, le belle tra le vergini a quella agguagliando (Filostrato, Lett. LXXIII).» Negli Epitalamii, soavità di paragoni freschi e floridi come le bellezze eterne di natura onde la poetessa li toglieva in prestito. Quivi s’introducevano, come nell’Epitalamio catulliano (Vesper adest; imitazione dei saffici, che s’abbella pur del Framm. LXV), due cori, l’uno di fanciulle, di giovani l’altro; che graziosamente contendevano, quelle accusando, questi scagionando, Espero. È pitturetta davvero dilicatissima, se veramente della Nostra, il Framm. XLIII. Studii qui chi vuol sapere scernere le grazie greche dalle smancerie d’Arcadia. Non ci sfuggano certi riscontri fra questi brani e la Bibbia. Il Framm. LIX, conforme facetamente chiosa il Deschanel, ci riporta a quel de’ Salmi (XXIII), nella Domenica delle Palme: «Attollite portas, Principes, vestras, et [p. 53 modifica]elevamini, portae aeternales, et introibit Rex Gloriae.» I Framm. XXXII e LIX gli diresti virgulti spiccati dai verzieri del Cantico dei Cantici.

Serena o tempestosa, la poesia prendeva qualità dall’animo della cantatrice. Alla quale sentenze amare, scredenti nel bene, traeva di bocca il dolore (Framm. X); e, a breve intervallo forse, giocondissimi versi la voluttà:

Amo la voluttà,
Sin che del sole il fulgido
Volto mirare e il bel m’incontrerà
(Framm. XL).
L’infinita mi pare
Volta del ciel toccare
(Framm. IX; donde il «Sublimi feriam sidera vertice» d’Orazio).

Dolore estremo ed estremo piacere sono men fieri avversarii, da meno spazio divisi, che non paja di primo tratto. Non badate a lei che vanta mitezza d’animo (Framm. XXVII): che non rimpiattasse in cuore, come pugnale nel fodero, segreti rancori, lo avete a credere alla nobile infelice: ma quel petto, con tale animo, non posava placido, se non quanto, per la serenità dell’aria, l’oceano; che, traendo il vento, s’apre in cento abissi, aggira [p. 54 modifica]cento vortici spaventevoli. Come ascendeva coll’altera fantasia verso l’altezza massima del bello, fors’ancora agognava una perfetta beatitudine: forse la nauseava il bene, quando se gli appiccasse una menoma particella di male:

Nè miel, nè pecchia io voglio
(Framm. XCII).

Ma, sventurata e bruttina com’era, baldanzeggiava con femmine ch’erano, o si tenevano, più belle, più vezzeggiate, più amoreggiate; ed esaltava sè medesima, come renduta felice dalle Muse; e presagiva a coloro, dopo morte, quella obblivione che non avrebbe potuto seppellir lei (Aristide, Opere, Vol. III; e Saffo, Framm. XVII). Quando l’agghiacciava il presente, la rianimava l’avvenire, guardato a gran fidanza. Il presente sempre occupa, talor schiaccia, i piccoli: all’avvenire mirano i grandi. I suoi volumi ella ebbe in conto d’amici, di consorti nella sventura fedelissimi: (qui per solito s’allega Porfirione, Sopra Orazio, Serm., II, 1, 30; ma, considerato il passo, io temetti che Porfirione fosse stato frainteso dai filologi). Deplorando le calamità proprie, raccoglieva tutte le potenze dell’affetto sulla fiorente e vezzosa bamboletta, [p. 55 modifica]unica consolatrice; e colla melodia del verso ne chetava il pianto (Framm. XXVI). Avrà cercate, ancora cavate, dolcezze dall’amore: ma Amore, che per Socrate era sofista, per Saffo era dolce-amaro, datore di molesti doni, ciurmadore (γλυκύπικρον ἀλγεσίδωρον μυθοπλόκον; Massimo Tirio, Dissert. XXIV). E come le vittime venivano inghirlandate innanzi che sagrificate, la Musa di Mitilene piacevasi, al paro d’Alceo, di coronarsi d’aneto e d’appio (Polluce, VI, 19, 107; Scoliaste di Teocrito, VII, 63); e quelle corone allegre assai delle volte, contrastando, avranno doppiato mestizia alla poesia mesta!