Fra la favola e il romanzo/Beneficio fatto non va perduto/I
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Il ritorno da Montenero (pag. 18).
I.
— Ohè, Beppe: c’è egli ancora di molta roba a caricare in codesto baroccino? E’ c’è posto appena per una gabbiolina da grilli, sai.
— Chetati, Gianni, che siam belli e sbrigati. A te; poni a modino codesta guantiera che la non si sciupi, e tira innanzi.
— Tira! Ohè. I’ non son mica un ciuco io: ho di buone gambe e di buone spalle; ma in quanto a orecchi e’ gli stanno al su’ posto.
— Eh come la s’arrabbia! Neppur s’i’ gli avessi detto corna. Via, via.
— E dove s’ha egli andare?
— Dal Gerli fuori di Porta a mare, lungo l’Ardenza, casino a sinistra, dopo il Pancaldi.
— Ohimè! più in là sta Lucca!....
— Oh! come tu se’ fatto ito! E’ par proprio che tu sii stato in Maremma. —
Tra queste ed altre parole due facchini davan moto ad un baroccino collocato dinanzi la bottega del Contessini, famoso pasticciere di Livorno sull’entrata della via Vittorio Emanuele, una volta via Larga. Su di esso avean caricato ceste con pasticcini, confetti, bottiglie di liquori, e di vini scelti con alcuni oggetti destinati all’uso de’ rinfreschi. Percorsa la via del porto, la piazza d’armi, uscirono la Porta a mare e per la strada dell’Ardenza, si diressero a casa Gerli.
Dopo una mezz’ora di cammino Beppe e Gianni sostarono dinanzi ad un elegante cancello pel quale penetravasi in una villetta ricinta di fitta siepe e verdeggiante per ogni sorta di variati alberi. Sotto di essi e praticelli, e aiuole, e cespuglietti eran tutti vestiti di variopinti fiori delle specie più rare. In mezzo al piccolo parco un casino quadrato, bianco, di semplice e pura architettura con un ingresso adorno di breve scala e di un portichetto ergevasi isolato, ma protetto dal sole e dagli sguardi importuni con numerose piante. Era proprio un’abitazione destinata alla pace ed alla quiete. Ma in quel giorno quiete non ve n’era punto, chè anzi parecchi famigli maschi e femmine si affacendavano e dentro e fuori la casa a mettere in assetto la mobilia, a deporre le più belle masserizie, a decorare ogni angolo di verdura e di fiori. Ed allorachè i facchini s’arrestarono col baroccino dinanzi al portico, un vecchio domestico prese a rimprocciarli della tardanza. Tutto adunque aveva aria di movimento insolito e di festa.
— E’ un è i’ tocco ancora, rispose Gianni al vecchio Tommaso, e per giungere a puntino abbiam corso in modo da sfiatarsi. Ohè! Gran festa a casa Gerli! La dica, che si fa le nozze?
— Meno ciarle, Gianni; giù questa roba, e con garbo.
— I’ non vi piglio nulla io! L’era una curiosità la mia.
— Già non può farsi un po’ di festa, che s’ha a dire il come, e il quando — riprese Tommaso mentre dava mano a tor la cesta dal baroccino. — Ebbene, giacchè s’ha a dar conto anche a lor signori: sicuro, c’è festa oggi; nientemeno che il padrone compie cinquant’anni, e le signorine vogliono che si faccia una festa, una festona; e quando il signor Maurizio torna dal banco, che è che non è, senza che or sappia nulla, ha a trovare la casa meglio che in dì di nozze. Vi sarà gente a desinare, e questa sera musica e ballo coi sorbetti.
— Benedette le buone figliuole, disse Beppe, e’ ci sarà un terzino di Chianti anche per noi! —
In luogo del Chianti, il vecchio domestico donò ai facchini qualche moneta di mancia, e li rimandava contenti: ma siccome era parolajo assai, non senza avere prima detto loro la lista degli invitati, quella delle vivande, e quasi quasi la spesa.
E Gianni a ghignare col compagno mentre diceva: — Bravo signor Maso: ella ha più parole d’un leggio. Un’altra volta la ci sgridi più forte che noi si ciarla troppo. —
Questo vecchio Tommaso, era il più brav’uomo del mondo; operoso, affezionato, fedele; e il difetto della troppa lingua svaniva al confronto delle sue buone qualità. Stava in casa Gerli da oltre vent’anni, da quando il padrone s’era fatto sposo. Avea quasi veduto nascere le due figliuole di lui e bamboleggiato con esse, allorchè erano rimaste orfanelle per la morte della madre.
Maurizio Gerli, figlio di modesto negoziante di Livorno, fin da giovinetto erasi dato al commercio, nel quale era divenuto perspicace e trafficatore in modo, che in breve tempo avea migliorato di molto la propria condizione e procacciatosi fama di segnalato galantuomo e di abile commerciante. Accumulata qualche fortuna, tolse in moglie la figlia di un vecchio amico di suo padre, la quale egli avea conosciuta fin da fanciulletta, e che in quattro anni lo rese padre avventuroso di due vezzose bambine. Vivea invero felice, e le sue faccende prosperavano; quando la moglie presa da subitaneo malore, in pochi giorni spirò la vita nelle braccia di lui. Non è a dirsi come egli ne fosse afflitto, ed in quale desolazione vivesse per alquanti mesi! Poi, le cure che le due fanciullette esigevano; il conforto che provava nel vederle crescere fresche, vivaci ed amorose; la necessità di attendere ai suoi traffici, e soprattutto il tempo, ch’è la più efficace panacea a siffatti dolori, mano mano lo resero meno sconsolato, sebbene rimpiangesse sempre la sua buona compagna. Egli perciò si rinchiuse tutto ne’ suoi negozi e nella sua famiglia: lasciò la casa che teneva in Livorno, serbando solo un locale pel banco, e prese a pigione quella che or abitava fuori di porta a mare, che in progresso di tempo fece sua proprietà, riducendola una delizia della quale aveva fatto il suo paradisino, come egli diceva, e gli angeli n’erano le sue figliuole. Le quali potevano dirsi due perle accoppiate, tanto somigliavansi, sebbene l’una maggiore dell’altra di circa due anni. Esse toccavano la ventina; alte, snelle e ben proporzionate nella persona; occhi e capelli neri; carnagione brunetta; voce insinuante; sorriso facile e dolcissimo. Ciò per il fisico. Per il morale poi nulla lasciavano a desiderare. Esse avrebbero tenuto con onore il posto di eccellenti massaie, tanto per filo e per segno conoscevano tutto ciò che spetta al governo della casa; e ad un tempo avrebbero potuto figurare ambedue nelle sale della migliore società, tanta era la squisitezza dei loro modi, la nobiltà del loro contegno, e le doti intellettuali di cui andavano fornite. Sapevan di storia, di grammatica, di geografia, in somma di lettere quanto è necessario ad una donna che non debba far la parte di saccente. Ambedue di lettavansi di musica, sapevano eseguire qualunque ricamo, e coltivavano la pittura con amore e finezza. Sofia ch’era la maggiore, dipingeva la figura, ed Emilia il paesaggio, e l’una per solito compiva quel che mancava ai lavori dell’altra. Sofia popolava di graziosi gruppetti le valli, ed i boschi dipinti da Emilia, mentre questa decorava i fondi delle figure della sorella con iscenette bene accomodate ai soggetti con cespugli, fiori ed alberi. E ciascuna delle due era tutta orgogliosa di mostrare il lavoro fatto dall’altra nel proprio quadro, e quando ad esse venivano elargite lodi e finezze, a vicenda sostenevano che tutto il pregio stava nelle parti dipinte dalla sorella. L’una non disvoleva mai quel che l’altra bramava, e vivevano con tanta armonia quanta se avessero un’anima sola. Convien dire però che il merito di una educazione siffatta era, è vero, del padre, che da per sè stesso avea voluto farsi e precettore e guida delle proprie figlie: ma in gran parte contribuito aveavi Caterina, antica cameriera di casa; la quale può dirsi ch’era stata la tutrice delle amabili fanciulle fin dal momento in cui perdettero la madre. Natura privilegiata, cuor d’oro, svegliata ed attiva da tener piede al vecchio Tommaso, che avea le braccia e le gambe svelte quanta la lingua.
Ed infatti la brava donna in quel giorno anch’essa andava, veniva dalla casa al giardino, e dal giardino alla casa, provvedendo alle differenti bisogne. Quando sotto il portichetto apparvero le due fanciulle, che ad una voce ripeterono:
— Caterina, Maso, dell’edera, ancora qualche tralcetto di edera e due ramicelli di gelsomino, chè non possiam compiere la corona.
E Caterina e Maso a chi più affrettarsi per con tentare le loro signorine; le quali indossavano due eleganti e semplici vestiti di mussolina bianca, stampati a fiorellini campestri e stretti alla vita da una fascia con ricca legatura a code color granato. Per solo ornamento tenevano in mezzo del petto una fresca rosa con cui gareggiavano le vivaci tinte del loro volto. Ottenuto e l’edera e i gelsomini, vispe e liete corsero difilate nel gabinetto del padre, e le intrecciarono ad altri fiori posti attorno ad un quadro.
Ecco perchè tante cure a quel quadro.
Allorachè le due fanciulle ebbero deliberato di festeggiare in modo inusitato il cinquantesimo anniversario della nascita del loro buon padre, si trovarono imbarazzate sulla scelta di un lavoro, opera delle loro mani, da presentarsi in quel giorno al genitore. E mentre incerte discutevano se dare la preferenza ad un ricamo o ad un dipinto, chiamarono a consiglio e Maso e Caterina per averne il loro avviso. Il dipinto prevalse, perchè in esso meglio sarebbesi scorto l’opera di ciascuna ma il difficile stava nel sapere scegliere un soggetto che non fosse come tutti gli altri soggetti. Dinne uno, accennane un altro, infine la Caterina esclamò:
— Ma le guardino, signorine; se si facesse qui il prospetto della casa con qualche frascherella di giardino, con noi ed il padrone là nel mezzo, tutta la famiglia cioè, e’ credono che si potrebbe far qualche cosa di meglio per indicare l’affetto che noi tutti nutriamo pel loro babbo e nostro buon padrone?
— Oh che buona, oh che bella idea! — esclamò Emilia battendo festosa sulle spalle di Caterina, che stava tutta raggiante, con le mani sui fianchi, aspettando l’approvazione universale.
— Buona idea; sì è vero, buona idea questa di Caterina, ma... — disse Sofia.
— Ebbene?
— Ma.... dimmi Emilia, non ti sembra....
— Che cosa, mia buona sorella? Non ti garba forse?
— Sì; ma non ti sembra, riprese Sofia fissando la sorella negli occhi con espressione di tristezza, che il quadro sarebbe incompiuto e che mancherebbe....
Emilia aveva indovinato il pensiero della sorella, e mentre le gettava le braccia al collo, compì essa la frase dicendo: — e che mancherebbe la mamma! —
Vi fu un istante di silenzio; poi soggiunse: — sì, hai ragione Sofia, senza la mamma quel quadro sarebbe sempre di grande tristezza pel povero babbo. —
Caterina era rimasta sconfortata nel veder sfumare la sua luminosa idea: ma siccome intendeva quanto fosse sensata l’osservazione delle fanciulle, tuttora con le mani sui fianchi: — è vero, esclamò, ma che si fa dunque? —
Ciascuno pensava al soggetto, quando Maso saltò su dicendo:
— E se si facesse un quadro con la Mamma? Un quadro con quella cara padroncina che mi veggo sempre dinanzi, là, come è dipinta nella miniatura che il signor Maurizio le fece fare pochi dì dopo le sue nozze?
— Sì, sì, bravo Maso, bravo Maso; oh sì un quadro con la Mamma.. — risposero le fanciulle.
— Ma come la ritrarremo noi, soggiunse Sofia, noi non abbiam conosciuto la buona mamma, ed in qual modo la rappresenteremo?
— Facciamo in grande la copia del suo ritratto...
— No, una copia no,.... eppoi non potremmo lavorarci ambedue; ed il quadro dev’essere opera sì mia come tua.
— Che cosa ne dici, vecchio Maso?
— Vecchio, sì, vecchio, signorine; e perchè son vecchio le guardino quale bella ispirazione mi viene.
— Parla, parla.
— Tre sole volte in vita ho io veduta il signor Maurizio appieno contento, e preso da una specie di parossismo di gioia, cosa insolita in lui; il giorno delle sue nozze, ed i giorni in che nacquero le signorie loro.
— Sicuro, ne posso far fede io — disse Caterina togliendosi finalmente le mani dai fianchi.
— Dunque! domandarono le due sorelle ad una voce.
— Dunque ricordiamo al babbo uno di que’ giorni.
— Sì, sì quello della nascita di Sofia — esclamò Emilia.
— Sì, quello della nascita di Emilia — disse Sofia.
— No, signorine, me lo perdonino: ma nè l’una nè l’altro. Io darei la preferenza al primo soggetto, le nozze del babbo.
— E come farem noi, buon Maso?
— Ecco qui, signorine. Esse sanno che quando il signor Maurizio si fece sposo con la mamma, quell’anima santa abitava col suo padre, come ora noi qui, in un poderetto sulla collina di Montenero, quasi su in alto. Quando eran promessi, talune volte il signor Maurizio e la signorina Berenice verso il tramonto salivano fino al paesello di Montenero, ed entravano nel santuario, e dinanzi alla Madonna oravano perchè essa proteggesse la loro unione. Quando fu giunto il dì delle nozze, si era sullo spirar dell’ottobre, ambedue i giovani pregarono i loro parenti di lasciarli maritare all’altare della Vergine; e così fu fatto. Ed una bella mattina, mentre il sole splendeva in tutta la sua magnificenza, e la natura all’intorno era un incanto, si videro uscire dalla chiesa i due sposi, l’uno al braccio dell’altro, lieti che non è a dire, e accompagnati dai parenti, da pochi amici, e da noi due che si gongolava dalla gioia al vedere tanto contenti i nostri padroncini.
— Oh se l’avessero vista la mamma, prese a dire Caterina, l’era in verità una fragola di giardino, fresca e rossa da dir: — cogli. — Portava un bell’abito di lustrino celeste, fatto da queste mani, che glie l’avevano aggiustato proprio a pennello, e s’era posta sul capo un bel manto di blondina bianca col quale pareva una regina.
— Le si figurino, signorine, la interruppe Maso, i contadini e le casigliane di lì attorno, tutte conoscevan la mamma, che, quando passava su pe’ sentieri del monte andando a diporto, a chi volgeva un risolino, a chi inviava un saluto, e a chi dirigeva una buona frase; accarezzava i loro bimbi, e se sapeva che alcuno fosse malato o in istrettezze, accorreva subito con qualche soldino in tasca, e li confortava con dolci parole. Che angelo, benedetta! Quando dunque seppero ch’ella s’era fatta sposa, molte fanciulle si trovarono sul suo passaggio all’uscire di chiesa e le offersero mazzetti di fiori, de’ quali sparsero anche il suo cammino ripetendo: — Dio la benedica, Dio la benedica! —
Le due sorelle erano commosse e non poterono pronunciare parola; e Maso proseguì:
— Ecco dunque, signorine, quel che io, al loro posto, ritrarrei, certo che al babbo non potrebbero offrire più caro ricordo. Mettiamo la scena presso il piazzale del santuario. La signorina Emilia dipingerà la chiesa, gli alberi, il cielo sereno; e la signorina Sofia porrà nel mezzo la mamma ed il babbo, più indietro i nonni, noi, e da lato le fanciulle del contado con le cestelline di fiori... I due ritratti in miniatura, che rimontano proprio a quell’epoca, terranno luogo di originale per le somiglianze.
— La mamma vuol essere col vestito celeste ed il manto di blonda sul capo, interruppe Caterina; ed io le descriverò, signorina, la moda d’allora che l’era differente di molto da quella d’oggidì.
— E poi, soggiungeva Maso, pel giorno della festa si coprirà il dipinto con una specie di siparietto su cui sarà scritto a caratteri belli e netti — Il ritorno da Montenero il babbo toglierà quella tendina, e crederà d’essere ancora a quel giorno beato....
— Sì, ma la mamma non vi è più... — rispose Sofia.
— È vero, purtroppo; ma guardandosi a fianco vedrà l’imagine di lei nelle sue care figliuole, e sarà sempre più riconsolato di quella fatal perdita. —
Fu ancora per alquanto discusso il disegno del vecchio Tommaso, che non fece economia di parole, ed infine fu ammesso dalle due sorelle, che con grande amore si diedero a far prove e bozzetti, ai quali lavoravano mentre il padre era assente. Caterina e Tommaso di frequente stavano ad esse dattorno per dare il loro parere, e sulla somiglianza, e sui vestiti, e sugli incidenti della scena. Quando l’ebbero in pronto, le due sorelle lo mostrarono alla loro maestra, una valente pittrice svizzera che trattava a meraviglia e la figura ed il paesaggio, ed essa ben poche mende trovò a quel lavoro che la rendeva orgogliosa dell’abilità delle sue scolare.
Questo era dunque il quadretto attorno del quale le fanciulle stavano ora adoperandosi per adornarlo di fiori e di verdura.