Firenze vecchia/I. I francesi a Firenze
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I
I Francesi a Firenze
Se il Granduca Pietro Leopoldo, in conseguenza della morte del fratello Giuseppe II, non fosse stato obbligato ad andare a Vienna il 1° marzo 1790, per cingervi la corona imperiale d’Austria, la Toscana avrebbe veduti giorni assai migliori di quelli che essa non vide, per la perdita di un sovrano di mente elevata, di somma abilità e di un’accortezza senza pari.
Pietro Leopoldo, che non pensava di dover succedere al fratello imperatore, aveva rivolte tutte le sue cure e la sua ambizione alla Toscana, che egli sinceramente amava come sua vera patria. Egli aveva in animo di costituirla alla maniera inglese, facendone lo Stato più libero e più innanzi nel progresso, di tutti gli altri d’Italia. Ma con la sua assunzione al trono d’Austria, le buone intenzioni di lui e le liete speranze concepite dai liberali rimasero deluse, sebbene gli effetti della rivoluzione francese andassero a mano a mano facendosi strada anche tra noi. Ed era appunto per questo, che Pietro Leopoldo avrebbe voluto mettersi da sè alla testa del movimento che ogni giorno più si rivelava, per dominarlo e dirigerlo, con mano ferma e con intelletto sereno. Avrebbe voluto trarre vantaggio dai buoni effetti che poteva recare la rivoluzione dell’ottantanove, impedendone i danni e gli eccessi.
Nel partire da Firenze per Vienna, Pietro Leopoldo destinò il trono della Toscana al suo secondogenito Ferdinando, Pietro Leopoldo Granduca di Toscana, poi Imperatore d’Austria. riserbando la corona imperiale per il figliuolo maggiore Francesco.
L’imperatore volle che il figlio Ferdinando, quando avesse raggiunto l’età voluta, salisse al trono della Toscana già ammogliato; perciò chiese per lui la mano d’una delle figlie di Ferdinando IV re delle due Sicilie, e gli fu concesso con giubilo la principessa primogenita Maria Teresa. Nel frattempo il principe ereditario Francesco, rimase vedovo della principessa Elisabetta del Würtemberg, morta di parto dando alla luce una bambina, che poco le sopravvisse. Pietro Leopoldo per distrarre il figliuolo immerso in un profondo dolore, giacchè egli aveva sposata per amore la principessa Elisabetta, come fanno i principi che sanno far prevalere i diritti del cuore, pensò di dargli un’altra sposa; e ricorse anche per questa seconda nuora al re delle due Sicilie, che aveva la fortuna d’aver per moglie quella perla della regina Carolina, che gli regalò la bellezza di diciotto figliuoli, tutti nati in casa! Alla Corte di Napoli parve di toccare il cielo con un dito, per esserle capitata questa seconda fortuna. Ma siccome la primogenita Maria Teresa era già stata destinata al futuro Granduca di Toscana, Pietro Leopoldo Granduca di Toscana, nacque in famiglia un po’ di malumore, tanto più che la seconda, Luisa Amalia che sarebbe toccata al principe ereditario di Germania, era «un po’ difettosa della persona, benché graziosissima come la sorella maggiore;» e questo, dalla astutissima madre, era ritenuto un grave ostacolo per l’alta destinazione a cui veniva indicata la secondogenita. Perciò, profittando essa della bellissima circostanza che a Vienna le sue figliuole non eran conosciute, e che per conseguenza anche i due sposi se ne stavano a lei, ricorse ad uno strattagemma che le riuscì pienamente. La regina fece fare il ritratto delle due figliuole, in miniatura, come usava allora, e li mandò tutt’e due all’imperatore, indirizzando al principe Francesco quello della figliuola maggiore, cioè di Maria Teresa; ed a Ferdinando quello di Luisa Amalia, colei che era piuttosto difettosa. D’altronde, fece a dire la madre, la corona d’imperatrice esige maggiori riguardi: per una granduchessa, anche se aveva preso una brutta piega era più che sufficiente. Alla imperiale Corte di Vienna nessuno avvertì il cambio; e così la fidanzata dell’uno diventò la fidanzata dell’altro, senza che nessuno se ne accorgesse, e senza danno del cuore, poiché ancora i quattro fidanzati non si conoscevano affatto.
Il 18 novembre 1790 si celebrarono a Vienna le nozze dei due principi con le due sorelle della Corte di Napoli; e dopo cinque mesi, cioè alla fine di febbraio del 1791, Pietro Leopoldo accompagnò in Italia il figliuolo con la sposa, facendo con lui solenne ingresso in Firenze il dì 8 aprile, acclamati calorosamente dal popolo, il quale par che sempre non abbia altro da fare che applaudir chi viene; ma forse era più contento di rivedere il monarca filosofo, che aveva destato in tutti tante liete speranze, che di ricevere il figliuolo così giovane destinatogli per sovrano. Quando si riseppe la burletta del cambio delle due spose, fu l’oggetto d’un’infinità di commenti piacevoli nelle conversazioni e nei circoli delle varie Corti d’Europa; e lo stesso Pietro Leopoldo che ne rise di cuore, scrisse alla regina Carolina che essa poteva rallegrarsene poiché tutto era andato a seconda dei suoi desiderii.
Ferdinando III intanto, compiuti i ventun’anno, prese possesso del Granducato con un cerimoniale solennissimo, il giorno di San Giovanni del 1791 «alla vista del pubblico, sotto la Loggia dell’Orcagna,» con apparato mai, più veduto, con l’intervento dell’amplissimo Senato e del Municipio fiorentino. Mentre il popolo acclamante giurava fedeltà al sovrano, questi giurava sul Vangelo di osservare gelosamente i patti costituzionali, mediante i quali tutti i granduchi ricevettero omaggio e giuramento di sudditanza dal popolo toscano, quantunque poi governassero da despoti sempre.
Ferdinando III era un giovane principe buono e leale; ma non aveva né la fibra né la mente del padre. Per governare uno Stato, specialmente in tempi difficili, la sola bontà e la lealtà non bastano: bisogna che il principe sappia non solo quello che ha l’obbligo di fare per il pubblico bene, ma che altresì sappia scegliere con accortezza coloro che debbono coadiuvarlo nel difficile compito. Le doti di Ferdinando III, ammirabili e preziose in un privato cittadino, ma insufficienti e qualche volta fatali per chi deve stare sul trono, lo condussero.... a raggiungere presto, la casa paterna a Vienna.
Mentre gli avvenimenti d’Europa mettevano a soqquadro tutti gli Stati, Ferdinando aveva in animo di mantenere la Toscana neutrale; ma si trovò poi vinta la mano dagli eventi. Per colmo di sventura per lui, ed anche per la Toscana, l’imperatore Pietro Leopoldo il 29 febbraio 1792, a soli quarantacinque anni, morì di colica essendo rimasti inutili tutti i rimedii tentati nei tre giorni della malattìa. Così mancò a Ferdinando, quell’appoggio principalissimo sul quale egli insieme col popolo, contava sicuramente.
I clericali intanto, spaventati dalle simpatie ognor crescenti per la repubblica francese, specialmente nei giovani, profittando della morte dell’imperatore, spargevano ad arte, per intimorire la gente più matura, che i principii rivoluzionari avrebbero rovinato lo Stato, poiché contrari alla religione. Ma queste scuse facevano poca breccia nell’animo dei più. Si ricorse allora al ripiego dei miracoli, cominciando a parlar sul serio di fatti avvenuti ad Arezzo e in Casentino. Nell’estate del 1796 si pensò di fare qualche cosa di simile anche a Firenze: perciò si prese a volo l’occasione che due ramoscelli di gigli selvatici fiorirono spontaneamente, alimentati dall’acqua, in un vaso presso un tabernacolo posto in via del Ciliegio, ora via degli Alfani. Indescrivibile fu la sorpresa dei bigotti, che incitati dai preti cominciarono a sbraitare- e a darsi moto, per far credere che si trattasse d’un inaudito miracolo. La via del Ciliegio si parò subito di setini, e vi si posero lumiere penzoloni, riducendola quasi una chiesa. Baciapile e pinzochere, giorno e notte stavan davanti al tabernacolo, ove era dipinto un quadro su tela rappresentante la Concezione, cantando laudi, e dicendo rosarii senza riposo. Ma siccome il mondo è sempre stato mondo, così anche allora ci fu chi profittò di quello stolto fanatismo, artificialmente eccitato da chi ne aveva interesse. Perciò la via del Ciliegio se fu sempre affollata di donnicciuole e di bigotti, lo fu anche di zerbini e di borsaioli, i quali, nella calca e al barlume, trovavano come sfogare i loro progetti a scapito del buon costume e della proprietà privata.
L’arcivescovo Martini uomo dotto, e repugnante da ogni falsità che reca sempre più danno che utile alla religione vera, incaricò il dottore Attilio Orlandini, direttore dell’Orto botanico, uomo di somma dottrina e scevro da ogni prevenzione, di emettere il suo parere sulla fioritura di quei due gigli.
E l’Orlandini nel 25 agosto 1796, dichiarò, con un parere scritto in lingua latina, che quella rifioritura dei gigli era «un caso affatto naturale e non prodigioso.» Onde, per levar lo scandalo, l’immagine di quella Concezione, alla quale dopo la fioritura dei gigli attribuirono guarigioni e miracoli che poi nessuno potè provare, fu portata in una cappella del Duomo dove a poco a poco fu quasi dimenticata, perchè non serviva più a nessuno scopo come quando era nel tabernacolo di via del Ciliegio e ne rimase soltanto la devozione nelle persone sinceramente credenti le quali anche oggi la venerano, senza le esagerazioni del 1796. Però questi eran tutti imbarazzi che facevano sempre più impensierire il giovane Granduca, il quale, incapace per la mancanza di pratica e della necessaria avvedutezza, non sapeva da che parte voltarsi. Egli cominciò pertanto una politica onesta ma pusillanime, piena di incertezze e di tentennamenti; e quel suo traccheggiare destò le gelosie dell’Inghilterra, che temeva egli parteggiasse invece per la Francia. E la perfida Albione lo mise perciò tra l’uscio e il muro, costringendolo con intimazioni, violenze e minacele a dichiararsi per la Francia o entrar nella Lega Europea contro di lei. Il Granduca resistè a tante prepotenze finché gli fu possibile; ma siccome una flotta inglese s’avvicinava a Livorno con l’intento di impadronirsene, il 28 ottobre 1793 per evitare guai maggiori firmò un trattato col re d’Inghilterra, mediante il quale egli rinunziò alla neutralità, rompendo apertamente le sue relazioni con la Repubblica. Frattanto le continue vittorie dei Francesi, ed il terrore che generavano in Europa le notizie di tanti loro trionfi, fece pentire Ferdinando di non aver mantenuta quella neutralità che s’era imposta. Onde per incarico suo, dal principe don Neri Corsini, come quegli che aveva molta pratica degli affari politici, e godeva in Francia molta stima, furono intavolate trattative col Governo francese per tornare con esso in buon accordo; e condotte queste a buon punto furon poi terminate a Parigi dal conte Cadetti, inviato speciale di Ferdinando, ed in suo nome fu firmato un trattato di pace nel dicembre del 1795. IVIa tutto questo non bastò, perchè il Direttorio ingiungeva a Napoleone di andare contro il Granduca di Toscana che è servo degli inglesi in Livorno. «Ite ed occupate Livorno; non aspettate che vi acconsenta il Granduca, il sappia quando sarete padroni di quel porto.» Questo fu il frutto dell’accordo! Ferdinando III spaventato dalle notizie che da Parigi mandava don Neri Corsini, che aveva sorpreso qualche parola concernente questa faccenda e dallo zelo di Napoleone, di cui comprese il fine, mandò a lui, in Bologna ove si trovava col quartier generale, una Commissione composta del principe Tommaso Corsini, fratello di don Neri, del marchese Manfredini e del poeta Lorenzo Pignotti, affinchè mutasse proposito e prendesse un altro giro lasciando in pace la Toscana. Napoleone accolse come amici e trattò con moltissima cortesia i tre commissari, che gli vennero presentati dal commissario Saliceti, stato scolaro del Pignotti all’Università di Pisa. E quando il Saliceti gli indicò il Pignotti, Napoleone, con semplicità piuttosto rara in lui, gli disse: «Mio fratello Giuseppe è stato vostro scolare a Pisa, e mi ha parlato spesso di voi; ed il generale Cervoni mi ha lette molte delle vostre favole.»
Da questa inaspettata cortesia il Pignotti tutto infatuato gli rispose con la 66 ottava del 2° canto della Gerusalemme liberata, quella che comincia: «Signor, gran cose in picciol tempo hai fatte,» che pareva stata scritta apposta per il generale Buonaparte; e tanto il buon Lorenzo quanto i suoi compagni ne trassero i più lieti prognostici. Il Manfredini fu invitato a pranzo da Napoleone, gli altri due dal Saliceti; e quindi tutt’e tre contenti come pasque per l’accoglienza ricevuta, e per le promesse ottenute, tornarono a Firenze nel tempo stesso che Napoleone si dirigeva col generale Giovacchino Murat per Pistoia all’occupazione di Livorno. Da Pistoia il 26 giugno 1796 Napoleone annunziava direttamente al Granduca la sua decisione, dicendogli, fra le altre cose, che doveva nascondere il nero pensiero di conquista, che il Direttorio era stato costretto a prender quella misura, per i continui reclami che riceveva dai cittadini francesi stabiliti a Livorno, le cui proprietà erano violate dagli inglesi, i quali ogni giorno insultavano «il paviglione della repubblica francese in quel porto.» Perciò il Direttorio aveva deciso che a tutelare i propri interessi a Livorno marciasse una divisione dell’armata posta sotto gli ordini dello stesso Napoleone, Quindi dopo la consueta protesta che sarebbero stati rispettati i sudditi di S. A. R. ed i loro averi, c’era la canzonatura in forma di complimento, di dire cioè, che egli, Napoleone, era incaricato dal Governo francese, d’assicurare il Granduca dal desiderio «di veder continuare l’amicizia» che legava la Toscana a la Francia nella certezza che S. A. «avrebbe anche applaudito alla misura giusta, utile e necessaria» presa dal Direttorio. Il Fossombroni, ministro degli esteri rispose che la Toscana non aveva «nulla da rimproverarsi nella condotta leale sincera ed amichevole» tenuta con la repubblica francese; e che il principe non poteva veder senza sorpresa il partito ordinato dal Direttorio, protestando però che non si sarebbe opposto con la forza! Napoleone forse avrà riso: il fatto sta che il 27 giugno arrivò alla porta di Livorno. Gli inglesi furono a tempo a scappare, portando seco molti bastimenti carichi di mercanzie, dirigendosi in Corsica; e a Napoleone non dispiacque di occupar il 26 giugno 1796 la città senza sparare una fucilata, confiscando le sostanze napoletane, inglesi e russe. Intanto, giacchè era a Livorno, con la scusa di ossequiare il Granduca fece una corsa fino a Firenze, dove arrivò la sera del 30 giugno, scortato da un reggimento di dragoni.
Ferdinando lo accolse con tutti gli onori dovutigli; ma un po’ di tremarella l’aveva, poichè con uomini di quella fatta, non c’era da levarla mai pulita.
La lealtà, la correttezza del Granduca fecero ottima impressione sull’animo del guerriero côrso, che in breve lasciò Firenze, senza però che promettesse di levare i soldati francesi da Livorno, come avrebbe desiderato Ferdinando. Ma siccome poi gli inglesi abbandonarono l’Elba, allora anch’egli nell’aprile del 1797, consentì a ritirar le sue truppe da Livorno.
Ferdinando, vedendo che passavano gli anni e le guerre non finivano, pensò, non foss’altro per mostrare che lui pure poteva avere una specie d’esercito da far fronte a ogni evento, di chiamare «i suoi buoni toscani alle bandiere, aumentando i corpi dei cacciatori volontari,» e gastigando severamente gli agitatori, che da vario tempo eran venuti alla spicciolata in Firenze a far propaganda per la repubblica francese.
Ma questo armare per mettersi in guardia e scacciare i fautori dei francesi, non gli attirò le costoro simpatie, tanto più che Napoleone aveva la fissazione d’impadronirsi della Toscana.
I disegni di Napoleone non potevano esser maggiormente favoriti; poichè all’improvviso sbarcarono a Livorno 6000 napoletani per prendere i francesi alle spalle. Onde sdegnato fortemente il Direttorio col Granduca, e presa a pretesto tale occupazione, inviò in Toscana nel 1799 una divisione per occuparla.
La rottura poi definitiva della pace con la Germania che travolse seco anche la Toscana, essendo il Granduca sospetto alla Francia per esser fratello dell’Imperatore, determinò il governo francese di invaderla addirittura, inviando a tale uopo il generale Gualtier con un forte esercito.
Ferdinando III badava a protestare simpatia alla Francia; ma quegli armeggioni di Parigi, s’eran subito accorti che tra sovrano e ministri facevano a chi aveva più paura dei francesi, e che la loro amicizia non era sincera. Perciò, tenendo fermo l’invio delle truppe, finsero di crederci, e d’esser commossi e riconoscenti alle proteste di Ferdinando III. Intanto questi, per evitare mali maggiori, intimò risolutamente al generale Diego Naselli che con i soldati napoletani occupava Livorno, di sgombrare immediatamente quella città, premendogli meno. d’attirarsi le ire del suocero che quelle del Direttorio. Il generale Naselli vista la mala parata, e temendo anch’egli una guerra coi francesi, fece allestire i bastimenti; e figurando d’andar via per non creare ulteriori imbarazzi al genero del suo re, chiedendo scusa della troppa lunga visita, fatta a Livorno, fu lesto a tornarsene co’ suoi donde era venuto, imbarcandosi a’ primi di gennaio del 1799.
Come un fulmine a ciel sereno però giunse in Firenze il 24 marzo 1799 un proclama «ai popoli della Toscana» emanato da Mantova del generale Scherer capo dell’armata d’Italia il 1° germinale (22 marzo) col quale egli deplorando che il Granduca non avesse prese le misure opportune per tempo onde liberare la Toscana dalla invasione dei nemici di essa, la Repubblica aveva stabilito di farla invadere dagli amici! Il proclama chiudeva con queste parole: «Popolo della Toscana! conservati pacifico, riposa con fiducia sulle disposizioni che saranno prese per farti godere della tranquillità e dei benefizi di un governo giusto.»
Da Bologna il giorno successivo venne un altro proclama del generale Gaultier, destinato ad occupar la Toscana, il quale assicurava i cittadini che le truppe che egli conduceva non venivano altro che per preservar la loro cara patria «da tutti i mali che le si volevano attirare.» Ed aveva anche il fresco cuore di dire: «Voi fremerete di sdegno quando saprete che i nemici della Francia volevano inondare le vostre città!» Che è quanto dire che i toscani dovevan ballare dalla contentezza, perchè, invece di tedeschi venivano dei francesi. Quando si tratta di stranieri che valgano come amici, è una finzione ed una stoltezza il crederlo!
Nello stesso tempo il generale Gaultier emanava un ordine del giorno alle truppe destinate alla invasione cominciando così: «Soldati! Il generale in capo per la esecuzione degli ordini del Governo, vi ha destinato ad occupare una delle più belle contrade d’Italia, ove i nostri nemici volevan portare il flagello della guerra.» Una tenerezza simile per gente che non ci conosceva nemmeno, ma che sapeva soltanto che si stava in un discreto paese, che piaceva tanto anche a loro, era davvero commovente. Soggiungeva poi l’egregio generale, parlando sempre ai suoi soldati, che «il popolo toscano è dolce e pacifico» e che perciò lo trattassero meglio che potevano, perchè questo avrebbe loro meritato «la confidenza degli abitanti.» Ma prevedendo che qualcuno, attratto da tante bellezze, potesse lasciarsi sedurre dall’idea ammaliatrice del saccheggio, da uomo prudente minacciava, non foss’altro per non scomparire, «di fare tradurre i colpevoli dinanzi al consiglio di guerra, ed il gastigo non sarebbe stato lontano dal delitto.» Questi proclami facevano un effetto magico sui partigiani dei francesi; e il Granduca temendo che gli avversari facessero nascere dei disordini, spinse la sua eccessiva bontà, fino a fare affiggere sulle cantonate di tutte le strade, un manifesto che annunziava l’arrivo delle truppe repubblicane. E quel manifesto, purtroppo, era così concepito:
«Noi, Ferdinando III Granduca di Toscana, ecc., ecc.
Nell’ingresso delle truppe francesi in Firenze, riguarderemo come una prova di fedeltà, d’affetto e di gratitudine dei nostri buoni sudditi, se secondando la nostra sovrana intenzione, essi conserveranno una perfetta quiete, rispettando le truppe francesi ed ogni individuo delle medesime, e si asterranno da qualunque atto potesse dar loro motivo di lamento. Questo savio consiglio impegnerà sempre più la nostra benevolenza a loro favore.
24 marzo 1799.
Ferdinando Francesco Serrati Gaetano Rainoldi.» |
Verso mezzogiorno, furono anche affissi di nuovo e dispensati ai cittadini i due proclami del generale Scherer e del generale Gaulthier, il quale era alla testa delle truppe che stavano per entrare in Firenze per l’appunto in quel giorno che era Pasqua, recando l’olivo della pace sulla punta delle baionette.
La città aveva preso d’improvviso un aspetto di sgomento, quasi di terrore, come se fosse minacciata da un grave disastro. Per quanto le vie fossero affollate, pur nonostante vi regnava un relativo silenzio, che faceva pena. Da un momento all’altro, si aspettava di sentire il rullo de’ tamburi francesi. Tutti, o almeno molti, i quali erano i più paurosi e contrari al nuovo stato di cose, che stava per impiantarsi nella pacifica ed apatica città, e che ne temevano le conseguenze, corsero a chiudersi in casa, facendo provviste di viveri per più giorni, quasi si temesse l’irromper della piena.
Altri, specialmente i giovani, sempre ansiosi di novità, più fidenti nell’avvenire, e che per la loro età e per l’indole vivace, si sentivano attratti dall’ignoto, da cui eran divisi per poche ore, si dirigevano a gruppi, a mandate, verso la porta a San Gallo, dalla quale dovevano arrivare le temute soldatesche.ingresso delle truppe francesi in firenze per la porta san galloGiorno di Pasqua più triste e melanconico di quello, Firenze non aveva passato mai.
Le famiglie, i parenti, non si riunirono in quell’anno, secondo l’usato, non arrischiandosi alcuno di abbandonare la casa al sopraggiungere del nemico, come la maggior parte dei cittadini reputava l’esercito francese.
Molti nobili e signori si rifugiarono nelle loro ville fuori della città; gli altri non uscirono dai loro palazzi. Quelle ore di aspettativa, convulse per i curiosi, angosciose per gli altri che avevan paura, non passavano mai.
Finalmente nel pomeriggio comparvero alla spicciolata alcuni squadroni di cavalleria, che si dirigevano verso il centro della città, coi moschetti impugnati come se entrassero in un paese vinto per valore o per forza d’armi. Quindi si videro calare dalla scesa del Pellegrino, fuori di porta a San Gallo, diversi reggimenti di fanteria, preceduti da una turba di vagabondi, raccolti, strada facendo, dai paesetti e dai borghi di dove passavano.
Il grosso dei francesi entrò in Firenze preceduto da un branco di ragazzacci entusiasmati dalle manciate di soldi che Portabandiera francese via via buttavan loro gli ufficiali, perchè gridassero «morte ai codini!» come facevano, a perdita di fiato. Appena arrivati alla porta a San Gallo, fecero prigionieri i soldati della compagnia che era stata mandata di guardia, e li fecero portare disarmati in fortezza da Basso. Questo fu il primo saluto!
Dopo i guastatori e i tamburi, veniva la musica e la bandiera francese, seguita da una lunga fila di cannoni e di carriaggi. La fanteria era stata posta in coda per lasciare il maggiore effetto all’artiglieria, che suol persuadere più che i fucili.
Il popolo, che assisteva in scarso numero per le vie a quel nuovo spettacolo, non rispondeva alle grida di una turba di scioperati, che urlava e strepitava; ma guardava come intimorito quei soldati abbronzati dal sole, mezzi strappati, laceri, polverosi, che avevano tuttavia l’aria trionfale del conquistatore.
I più sdegnosi cittadini se ne stavano a veder gl’invasori, quasi di nascosto, dietro i vetri delle finestre, maledicendo alla stupida ragazzaglia, che per applaudire i francesi salutava loro col grido di «morte ai codini!»
In piazza della Signoria battezzata subito lì sul tamburo, col nome di «Piazza Nazionale» o anche di «Piazza d’Armi» perchè cominciarono ad andar d’accordo fin da principio, si accampò una parte delle truppe; ed altre andarono in Piazza di Santa Croce e di Santa Maria Novella
Il generale Gualtier senza frapporre indugio prese alloggio al Palazzo Riccardi; e per cominciare a dimostrare al Granduca la gratitudine della Francia per l’amicizia da lui manifestata, prima anche di spolverarsi l’uniforme emanò un decreto col quale ingiungeva alle truppe toscane di rimanere in quartiere, e di depositare le armi. Mandò quindi ad occupare militarmente tutte le porte della città; inviò una compagnia di fucilieri con bandiera e musica a montare la guardia al Palazzo Pitti occupandone tutti gli sbocchi perchè nessuno uscisse, e mandando in fortezza quella toscana che smontava. Dei drappelli armati furon posti alle case dei ministri esteri e toscani. Per colmo di gentilezza, la mattina dopo, d’ordine dello stesso generale Gualtier, il commissario Reinhard preceduto da un aiutante di campo, si presentò al Granduca, che lo ricevè nel quartiere della Meridiana, per presentargli un dispaccio del Direttorio che gli intimava la guerra, senza perder tempo in discorsi, e di lasciar Firenze dentro ventiquattr’ore, e meglio anche prima, egli e tutta la sua rispettabilissima famiglia. Quindi lo rin- graziò di tutte le gentilezze usate alla Francia, che non avrebbe mai dimenticata la sua devozione; ma ora poteva andarsene, perchè non c’era più bisogno di lui!... Chi non ha testa, abbia gambe!
Ferdinando III, pallido ed affranto per il sopruso che riceveva dopo essersi sfegatato tanto a far l’amico della Francia, appena letto il dispaccio del Direttorio, voltò le spalle senza rispondere, e rientrò nelle sue stanze.
Prima dell’alba del giorno 27 marzo, l’infelice sovrano, con le lacrime agli occhi abbandonò la reggia. L’ora di questa melanconica partenza era stata tenuta segreta per evitare probabili dimostrazioni in favore del discacciato principe. Ma lo scalpitìo del drappello degli ussari che doveva scortarlo fino a Bologna, ed il rumore delle pesanti carrozze da viaggio a sei cavalli, ove era la Corte e pochi fidati amici, seguite dai carriaggi dei bauli, fiancheggiati pure dalla cavalleria, svegliarono molti cittadini, i quali tutti timorosi, e presaghi di ciò che avveniva, uscirono freddolosi dal letto, restando dietro i vetri delle finestre a veder partire l’infelice Granduca, in assetto più di prigioniero che di sovrano.
Nel giorno stesso, fu piantato sulla piazza di Santa Croce e di Santa IMaria Novella l’albero della libertà, attorno al quale la sera furon fatte delle luminarie, ed i soldati mezzi ubriachi cantavano e strepitavano, senza infondere entusiasmo nella popolazione, che non s’era ancora convinta di tutto il benessere e di tutta la grande felicità che i francesi le promettevano.
Non è facile che a Firenze ci si commuova così alla svelta. Ed i nuovi arrivati, con tutte le loro chiacchiere, furon sempre ritenuti dalla gente di buon senso come invasori e mai come amici. Si desiderava, è vero, da tutti la libertà e l’indipendenza dal giogo austriaco; ma non per questo s’ intendeva d’uscir dal fuoco ed entrar nelle fiamme. Il popolo, già iniziato alle idee di libertà dal savio e franco regime di Pietro Leopoldo, aveva accolto con giubilo le nuove dottrine dell’ottantanove; ma intendeva di seguirle da sé stesso ed in casa propria senza che il nuovo vangelo gli venisse spiegato a baionetta in canna dai soldati francesi, che vennero a invadere la Toscana. Gli amici veri, di questi scherzi non ne fanno!