Fantasia (Serao)/Parte quarta/V
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V.
Ma l’audacia del loro amore crebbe ogni giorno. Fidando sulla tranquillità degli altri due, essi osarono quanto può inventare immaginazione innamorata. Si sedevano accanto: Andrea scherzava col ventaglio, col fazzoletto di Lucia, le contava i cerchiolini del portebonheur: se stavano lontani, si parlavano del loro amore usando un vocabolario speciale che si riannodava a tutti gl’incidenti del passato, a un ombrellino aperto, a un lago, all’ombra verde, a una sciarpa di merletto, a qualche frase detta, allora, dall’uno o dall’altro. Se Lucia vedeva Andrea pensieroso, subito metteva il discorso sull’Esposizione e placidamente diceva che la giornata della premiazione di floricoltura era stata una delle più belle della sua vita — e Andrea trovava modo di ficcare nel suo discorso la parola maga. Si capivano a una intonazione, a un batter di palpebra, a un movimento di mano. Ma, un giorno, Lucia disse ad Andrea, da un capo all’altro della stanza:
— Udite, Andrea, vi ho da dire una cosa in un orecchio; nessuno la deve sentire.
— Nemmeno io? — disse Alberto, con un broncio comico.
— Nè tu nè Caterina che sorride laggiù. Venite qui, Andrea.
Egli traversò la sala, le si accostò: ella gli posò una mano sulla spalla per farlo chinare e gli disse sottovoce:
— Andrea mio, ti amo.
Egli pensò un poco, poi le disse:
— Sentite la risposta. E nell’orecchio soffiò:
— Amore mio, strega mia, ti amo.
E se ne ritornò al suo posto. Poi Alberto volle sapere, assolutamente: se no, moriva di curiosità. Lucia, fingendo di cedere, confessò che aveva detto: — Alberto è curioso come una donna, tormentiamolo — e che Andrea aveva risposto: — Non lo tormentiamo, povero Alberto. — Si divertirono molto di questo incidente: ma i due amanti non ritentarono più la prova. Avevano altro: ora vi era l’offerta del braccio, in casa, sul terrazzo, per le scale, e le strette fuggevoli nei corridoi oscuri, gli sfioramenti di mano. Tante volte, per un istante, le due teste erano così vicine che allora allora pareva si baciassero. Quando Caterina non vi era e Alberto voltava le spalle, si scambiavano quelle occhiate così intense che pare facciano dolore. Quando passavano la sera nel salotto, Lucia che sceglieva la sua posizione con un’arte infinita, si metteva nell’ombra, dietro a suo marito, potendo guardare lungamente Andrea, senza che nessuno la osservasse.
Talvolta si apriva il ventaglio sugli occhi; guardava entro le stecche. Ogni tanto, quando Alberto era fuori e Caterina si curvava a cucire, gli occhioni di Lucia balenavano in volto ad Andrea: le palpebre si riabbassavano subito. Tutta una sera Lucia aveva la sua aria languida e triste, la voce fioca, la parola strascicata. Se per un momento poteva rimaner sola con Andrea, si rialzava, fremente, piena di vita, e gli buttava in faccia:
— Ti amo.
Ricadeva come abbattuta! egli restava smarrito. Poi, ora, si davano le lettere in cento modi, rischiando di essere scoperti ogni volta, ma riuscendo sempre, con una destrezza singolare: mettendo le lettere nei gomitoli, nei fazzoletti, nei libri, nel mazzo delle carte da giuoco, in fondo alla scatola del domino, nel quaderno della musica, sotto l’orologio del salone, sotto il piedestallo di qualche statuina, sotto i vasi delle piante, nella fodera del cappello: insomma, dovunque si può nascondere un pezzetto di carta. Con l’occhio Lucia indicava il posto: Andrea studiava il tempo, si alzava con disinvoltura, girava, poi arrivava al posto, prendeva la lettera con una maestrìa che l’uso gli aveva insegnato, vi faceva scivolare la risposta. Egli nascondeva, sotto la sua cera ilare, e sotto i suoi scherzi clamorosi, un’ansietà ardente, un’inquietudine continua. Non guardando Lucia, ne studiava tutti i movimenti: egli, il grosso leone, aveva certe ondulazioni feline, certi raggricchiamenti da tigre: egli, che era la franchezza medesima, cadeva in una dissimulazione profonda, si faceva sagace, furbo, callido, con certe occhiate oblique, con certi moti rampanti. Meditava, la notte, il piano dell’indomani, perchè l’indomani potesse dare una lettera a Lucia, stringerle la mano: combinava tutte le domande false, tutte le false uscite, tutti i ritorni improvvisi, tutti i dialoghi posticci, tutti gli affari-pretesto e gli appuntamenti fittizi. Nella notte, studiava come avrebbe mentito il giorno seguente, dalla mattina alla sera, per ingannare Alberto e Caterina. Il suo carattere si corrompeva, transigendo ogni giorno con la verità, affogando le ribellioni della sua coscienza che voleva il male chiaro, netto, pubblico, che odiava il male subdolo e perfido: egli faceva per se stesso dei sottintesi, si formava delle restrizioni mentali e delle scusanti gesuitiche.
Ma questa medesima corruzione spirituale che rodeva tutte le sue qualità di uomo franco e leale, queste concessioni d’ipocrisia, queste vigliaccherie sentimentali lo attaccavano furiosamente a Lucia. Più si abbandonava a lei, più si lasciava impregnare dalla sua influenza, più sentiva la voluttà dell’abbandonarsi, più sentiva l’amarezza squisita del lasciarsi invadere. I suoi sacrifizî di onestà per questa grande rinunzia, lo legavano sempre più fortemente a colei che glieli faceva fare. Quantunque egli fosse parato a tutto, comunque fantasticasse quale nuova, infernale e amorosa invenzione potesse uscire dal cervello di Lucia, pure costei finiva sempre per sbalordirlo. Una mattina, incontrandolo sotto una tenda, sulla soglia del salone, ella aveva lasciato cadere la tenda, gli aveva buttato le braccia al collo ed era fuggita: a lui era parso un sogno, frenandosi per non correrle dietro. Una sera, fuori il terrazzino, mentre Alberto sonnecchiava e Caterina suonava la sua eterna rêverie di Schubert, ella lo aveva chiamato, col pretesto di fargli vedere una stella — e lì, in un angolo, gli si era riversata fra le braccia, pallida, per un attimo. Subito gli aveva detto:
— Vattene.
In uno di questi momenti egli le aveva mormorato, col viso stravolto:
— Bada che ti affogo.
Gli veniva la voglia d’affogarla quella donna che era sempre con lui, che lo faceva impazzire con queste stravaganze, e che gli sfuggiva sempre. Anche le lettere erano così incoerenti, così folli, così trabalzanti dalla disperazione alla gioia, che egli ci perdeva la testa. Oggi, essa gli scriveva una divagazione sentimentale sull’amor puro, dicendo di voler essere amata come una sorella, come un essere impersonale, come un essere ideale, poiché questo era l’amore più alto, l’amore sublime: e Andrea, intenerito, cullato da quelle astrazioni, da quei pensieri teneri, le rispondeva che l’amava così, come lei voleva, come un angelo del paradiso. Il giorno dopo ella metteva del misticismo nella sua lettera e gli parlava di Dio, della Madonna, di una visione che aveva avuta la notte, lo pregava di aver fede, lo pregava di pregare — oh, salvarsi ambedue, quale felicità! che estasi, ritrovarsi insieme in paradiso! — e Andrea, che era indifferente in religione, che viveva nella più grande apatìa, le rispondeva che sì, che per lei avrebbe creduto e pregato: mentiva per non contraddirla, mentiva, non avendo altra volontà che la sua. Ma in un’altra lettera Lucia si abbandonava alle più passionate frasi, riempiendo un foglietto di baci, di parole ardenti, di baci ancora, di desiderii languidi, di desiderii feroci, di baci, di baci, di baci, sempre, sempre, sempre. Finiva così: non senti tu le mie labbra morenti sulle tue? — e Andrea le sentiva, e quelle parole scritte in caratterino minuto gli parevano proprio baci, e si metteva la lettera sulla bocca, provando un bruciore, provando una freschezza, col sangue che gli ribolliva: le rispondeva una lettera violenta, talvolta brutale di passione. Lucia si sgomentava e tornava a scrivere che il loro amore era un’infamia, che quel tradimento sarebbe stato punito atrocemente, che già, lei, si sentiva misera e infelice e inferma: Andrea, tormentato da questa variabilità, da questi contrasti, da questi passaggi immediati, non sapendo più come seguirla, non trovando nè ragioni, nè argomenti per persuaderla, le rispondeva che non lo torturasse più, che avesse pietà di lui. E Lucia di rimando: tu non mi ami!
Di nuovo, egli soffriva, malgrado le audacie e le lettere e i baci furtivi e gli abbracci improvvisi fra due porte. Ogni giorno Lucia diventava più strana. Certe mattine compariva col viso pallido pallido, gli occhi cupamente neri, le labbra strette, la voce sgarbata e stridula. Non dava la mano, non salutava, non si voltava verso nessuno: i gomiti avevano qualche cosa di angoloso, le spalle pareva che bucassero la veste: si curvava, come invecchiata. Rispondeva male a tutti: aveva certe frasi malvagie per suo marito, per Caterina, per Andrea: per costui, specialmente. Egli taceva, pensando che cosa le avesse fatto. Se poteva cogliere il destro di parlarle, le chiedeva:
— Che hai?
— Niente.
— Che ti ho fatto?
— Niente.
— Mi ami?
— No.
— Allora me ne vado?
— Vattene.
Ad Andrea veniva la voglia di batterla, tanto gli sembrava perfida in quel momento. Se ne andava, a Caserta, nell’ufficio postale, dove le scriveva una lettera furibonda. Ritornava a casa: ella stava peggio, poiché non si degnava parlare più, si assorbiva nel silenzio. Attorno a lei tutti si facevano dominare dal suo malumore. Non parlavano più. Ogni tanto Alberto domandava:
— Lucia mia, vorresti qualche cosa?
— Sì.
— E che cosa?
— Morire.
Ad Andrea tremava il giornale tra le mani; egli fingeva di leggere, ma ascoltava tutto.
— Lucia, vogliamo andare domani al bosco? — diceva timidamente Caterina, per darle una iniziativa.
— No, io odio il bosco e la campagna e il verde.
— ... ieri hai detto di amarli.
— Io odio oggi quello che amavo ieri — ribatteva Lucia, col suo tôno sentenzioso.
Fino a che un giorno, mentre stringeva la mano ad Andrea che usciva, ella cadde per terra, in preda a una convulsione nervosa, come ne soffriva da fanciulla; si contorceva tutta, le braccia fendevano l’aria, la testa balzava sul pavimento. Poco aiuto potevano dare Caterina e Alberto, ma Andrea le stringeva i polsi e li sentiva, come di ferro, irrigidirsi nelle sue mani: le battevano i denti come per tremore febbrile, l’orbita scompariva sotto le palpebre. Balbettava parole che non si comprendevano e ad Andrea, spaventato, pareva sempre di udirla prorompere in frasi che rivelassero il loro segreto. Poi, la convulsione sembrava si calmasse, le membra si rilasciavano, il petto si sollevava in forti sospiri: apriva gli occhi, guardava la gente attorno, ma li richiudeva subito, come inorridita, dava in un altissimo grido, e ricadeva convulsa, dibattendosi, non sentendo nè l’aceto, nè l’acqua di cui le inondavano il viso, nè gli odori, nulla. Alberto la chiamava, Caterina la chiamava: nulla. Quando poi la chiamava Andrea, tutto il viso le si scomponeva, la convulsione aumentava di ferocia: con la cravatta sciolta, l’abito lacerato sul petto, i capelli discinti, la gola nuda, i polsi lividi, ispirava terrore e amore. La convulsione durò tre ore: finì a gradi, lentamente. Rinvenendo ella pian a dirotto, strappandosi i capelli, come se le fosse morto qualcuno. La consolavano: ella diceva: no, no, no, e seguitava a disperarsi. Poi, stanca, sfinita, le ossa peste, spezzate le giunture, incapace di muoversi, si addormentò sul divano, avvolta uno scialle. Alberto stette fino alla mezzanotte: Caterina lo persuase ad andare a letto: gli uomini si ritirarono. Restò ella a vegliarla, seduta vicino al tavolino, trasalendo al minimo rumore. Verso le due, venne Andrea pian piano: era vestito, non si era coricato ancora, aveva fumato un sigaro.
— Come sta? — chiese sottovoce a sua moglie.
— Mi pare meglio: non si è mai svegliata: solo ha sospirato tre o quattro volte, come se fosse oppressa.
— Che orribili convulsioni!
— Ne aveva anche in collegio, ma erano meno forti.
— Tu perchè non vieni a dormire?
— Non posso, Andrea: questa poverina non la lascio sola.
— Resto io.
— Non conviene, sai.
— Hai ragione. Ma l’aranciata non me l’hanno fatta.
— Vi debbono essere gli aranci e lo zucchero in camera... ma sarà meglio che vada io: resta qui un momento; ora ritorno.
Allora egli s’inginocchiò presso il divano, mettendo la sua testa accanto a quella di Lucia. Ella si risvegliò dolcemente, non mostrò meraviglia, gli si appese al collo, lo baciò.
— Portami via — disse.
— Vieni, amore — e fece per sollevarla.
— Non posso: muoio, Andrea — e chiuse gli occhi.
— Domani... — disse egli vagamente, temendo di vederla ricadere nella convulsione.
— Sì, domani, mi porterai via, lontano, lontano...
— Lontano, lontano, fiamma mia...
Tacquero. Ella parve udisse qualche rumore impercettibile, poichè gli disse, senza aprire gli occhi:
— Ecco Caterina.
Infatti, dopo un istante, Caterina rientrò in punta di piedi e trovò il marito seduto al suo posto.
— Non si è mossa?
— No.
— T’ho fatta la tua aranciata.
— Vuoi proprio vegliare?
— Sì, resto: tu non te ne hai a male?
E poichè era nella penombra, per dargli la buona notte, si rizzò e si fece abbracciare. Egli se ne andò, lento lento. Caterina vegliò sino al mattino.
Adesso tutte le lettere finivano: portami via. — Le lettere erano tutte disperate, adesso. Lucia scriveva le cose tragiche, con tale una terribile concisione che egli aveva paura di aprire quelle lettere. Non vi era che peccato, maledizione, suicidio, morte, dannazione eterna, il rimorso dell’inferno, lo stridore dei denti, il gricciore delle fibre, il fuoco. Essa aveva paura di Dio, degli uomini, di suo marito, di Caterina, di Andrea stesso: si sentiva avvilita, perduta, precipitata in un abisso senza fondo. — Morire, morire — esclamava nelle sue lettere. — Oh portami via, portami via! — esclamava ogni tanto. E appariva così veramente infelice, così veramente perduta, che egli s’incolpò di aver rovinato l’esistenza di quella donna, le chiese perdono come a una vittima, come a una martire. — T’ho assassinata: sono il tuo boia: sono il tuo carnefice — scriveva Andrea, che oramai aveva preso lo stile di lei e le formole e il lirismo fantastico.
Finiva l’ottobre. Un giorno, a tavola, di domenica, Lucia annunziò tranquillamente che il prossimo martedì sarebbero partiti, malgrado il proverbio.
— Credevo che sareste rimasti con noi, sino a san Martino — disse dolcemente Caterina.
— Gli è che ad Alberto si è un po’ inacerbita la tosse, per l’umidità di questo ottobre piovoso. La nostra casa, in via Bisignano, è molto asciutta. Tutto è pronto.
— Del resto, mi sento meglio — soggiunse Alberto — mi sono ingrassato, credo. Ho dovuto mettere la cinghia dei calzoni più larga. Questa villeggiatura è stata la mia salute.
— Mi dispiace che Lucia non sia stata tanto bene — osservò Caterina.
— Che importa? — disse l’altra, con noncuranza — non vi date pensiero di me. Io sono una creatura disgraziata e malaticcia. Ma questo tempo, passato qui, a Centurano, è stata, Caterina mia, l’epoca più luminosa, più armoniosa della mia vita; è stato il punto più elevato della mia parabola: dopo di esso, non vi può essere che una rapida discesa verso l’eterno silenzio, l’eterna oscurità, l’eterna solitudine.
Andrea non aveva aperto bocca, ma la sera le scrisse un biglietto supplichevole, scongiurandola a voler restare qualche altro giorno. Non poteva pensare che ella se ne andasse. A Napoli non lo avrebbe amato più. Egli non voleva lasciarla andar via. Era la sua Lucia: perchè se ne andava? Se non restava, egli l’avrebbe seguita, subito. Pensasse.
Fu inutile. Lucia volle andarsene. Egli si urtò contro una volontà di ferro, contro una volontà che mirava, diritta, al suo scopo. Lucia gli rispose uno, due biglietti durissimi, con cui lo atterrò. Voleva andarsene, la lasciasse partire in pace. Voleva andarsene: perchè la tratteneva? Voleva andarsene, poichè soffriva tanto, poichè era così disgraziata. Voleva andarsene, a piangere altrove, a disperarsi altrove. Voleva andarsene, egli non aveva il diritto di trattenerla, quando la rendeva così infelice. Voleva andarsene, per non morire a Centurano.
E se ne andò. Solo, gli addii furono strazianti. Lucia piangeva dalla mattina, dovendo partire a mezzogiorno. Ogni cosa che vedeva, diceva: è l’ultima volta che la vedo — ogni cosa che faceva: l’ultima volta che la faccio. — Caterina era pallida, frenando le lagrime a stento. Alberto borbottava, commosso anche lui, perchè Lucia era commossa. Andrea vagolava per la casa come un fantasma, toccando gli oggetti, quasi si volesse assicurare della propria esistenza. Lucia lo evitava, non gli dirigeva la parola: soltanto gli levava in faccia gli occhi pregni di lagrime. Fecero colazione in silenzio: nessuno mangiò. Dopo, Lucia prese Caterina e se la condusse in camera: là le gettò le braccia al collo e singhiozzò, ringraziandola di quanto fosse stata buona con lei.
— O angelo, o angelo, Caterina mia, per quello che m’hai fatto, possa tu essere felice! Dio tenga la sua santa mano sulla tua casa: vi faccia entrare l’allegria e rimanere l’amore. Ti possa Andrea amare sempre più, ti possa adorare come una Madonnina...
L’altra le accennava di tacere, non potendosi più frenare: si baciarono più volte. Uscirono in salotto, Lucia con gli occhi gonfi.
— Addio, Andrea — disse Lucia.
— Lasciatemi venire sino alla stazione — mormorò lui.
— No, no, è peggio. Addio. Grazie. Che il Signore vi benedica...
Singhiozzando, scappò via. Dal balcone vi furono saluti, e uno sventolare di fazzoletti fino a che la carrozza non svoltò verso Caserta.
Marito e moglie rimasero soli, l’uno in faccia all’altro. D’improvviso, la casa parve fosse deserta, e le stanze parve fossero diventate immense, Un freddo vi piombava. Caterina si chinò a raccogliere qualche cosa di bianco: era il fazzoletto di Lucia, e su quel fazzoletto Caterina si mise a piangere, chetamente, con certi lamentii di bambino, a cui hanno tolta la madre. Andrea sedette accanto a lei, sul divano, le appoggiò la testa sulla spalla, come nel tempo antico, e pianse anche lui. Due sole lagrime: bollenti, brucianti, sacrileghe.