Fantasia (Serao)/Parte quarta/IV
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IV.
Un giorno Lucia comparve in salotto con una faccia risoluta e quasi sfidatrice. Le sue nari frementi pareva odorassero l’odore della polvere e che tutto in lei fosse pronto per la battaglia. Tranquillamente, guardando altrove, mentre Andrea le porgeva una tazza di caffè, ella gli dette un bigliettino. Egli tremò tutto, ma non si smarrì. Col primo pretesto uscì di stanza, scese in cortile a leggere. Erano poche parole scritte col lapis, ardenti di amore, dove gli diceva che lo amava, lo amava, lo amava, che era il suo Andrea, il suo forte amore, che ella aveva perduta la pace, che era felice perchè l’amava, infelice perchè non la lasciavano amare, che bisognava giuocare di audacia, che Alberto e Caterina — poveri, poveri traditi — non avevano sospetti, che lui Andrea studiasse lei, Lucia, e comprendesse quello che gli diceva con gli occhi, che era la sua innamorata, la sua donna, che adorava il suo bel signore...
Tutto il nero era scomparso. Andrea si sentiva soffocare dalla gioia; si mise a parlare forte con Matteo, lo stalliere, chiamò i cani Fox e Diana che gli saltarono addosso, impugnò Diana per la pelle del collo, fece fare dei salti enormi a Fox, ridendo, gridando, dicendo a Matteo che era un vecchio rimbambito, che i cani valevano più di lui, ma che viceversa lui era una buona bestia. Da una finestra comparvero due testoline di donna e una testolina di uccello spennacchiato: allora egli disse a quelle signore che proponeva loro una grande passeggiata in carrozza, al trotto. Loro signore, come due principesse in incognito, nella victoria, egli e Alberto nel phaéton.
— E la colazione? — si lamentò la voce sottile di Alberto, seppellita in una sciarpa dì lana.
— Hai ragione — tuonò lui, dal cortile — mangeremo prima.
E salì le scale a quattro a quattro, cantando, scuotendo i ricci della criniera leonina. Arrivato su, prese Alberto pel collo e lo costrinse a fare un giro di polka turbinosa per tutto il salone.
Lucia guardava, senza battere palpebra, questo sfogo violento di gioia.
— Poichè siete così galante oggi, Andrea — disse lei freddamente — offritemi il braccio per andare a colazione. È un’abitudine cortese che vi manca.
— Io sono uno zotico, signora Sanna. Volete accordarmi l’onore di accettare il mio braccio? — e s’inchinò profondamente.
Gli altri due ridevano, seguendoli, senza imitarli. Nel corridoio, nella penombra, Lucia si strinse tutta ad Andrea, con un fremito: egli le fece male, stringendole il braccio. Quando furono nella stanza da pranzo, erano composti e rigidi così, che Alberto si burlò di loro. Caterina era felice, poichè suo marito aveva ripreso il buon umore. A tavola il gomito di Lucia sfiorò tre o quattro volte la manica di Andrea: bevendo il vino, ella lo guardava attraverso il cristallo del bicchiere. Egli stava all’erta, sogguardando obliquamente Alberto e Caterina; ma nulla essi vedevano, di nulla avevano sospetto.
— Per ringraziarvi del braccio che non mi avete offerto — disse Lucia, con una glaciale audacia — io vi offro una pera mondata da me.
E gliela dette sulla punta del coltello; ma da una parte la strega ci aveva dato un morso, coi dentini bianchi e forti. Egli chiuse gli occhi, mangiandola.
— Com’è? — chiese lei, con importanza.
— Me ne dispiace per me, ma è pessima — rispose compunto, con una smorfia di rammarico.
Alberto credette morire dal ridere. Quella birbona di Lucia che offriva sul serio una pera ad Andrea, come per ringraziarlo, come per fargli un bel dono, e invece gli dava una pera cattiva! Che spirito, quella Lucia!
Le signore andarono a vestirsi per la passeggiata. Prima ritornò Caterina, vestita di nero, con un cappellino coperto di jais. Lucia tardò abbastanza, ma valeva la pena di aspettare, come disse poi Alberto. Venne, fatta tutta piccina, tutta graziosa da un costume in lana scozzese cupo, con qualche filo rosso e giallo. Portava una giacchetta da uomo, a due petti, di panno turchino cupo, bottoniera minuta d’oro cesellato, colletto dritto, di tela, all’inglese, cappellino di feltro col velo turchino cupo che s’arrotolava coi capelli. Un amore di viaggiatrice a diporto; un po’ di polvere sulle guance per smorzarne il calore.
Giù in cortile erano pronte la victoria e il phaéton. Le signore salirono in carrozza, tirarono sulle ginocchia la pelle di tigre: i signori saltarono sul phaéton e fecero un saluto alle dame che sventolarono i loro fazzoletti: poi il carrozzino partì di carriera — guidando Andrea — e dietro l’equipaggio si avviò più grave. Per un pezzo la durò, voltandosi essi a guardare le due donne che parlavano fra loro e sorridevano: Andrea salutava, schioccando la frusta. Soffiava un venticello fresco: Alberto, che lo riceveva in faccia, se ne stava tutto rattrappito, avendo paura di raffreddarsi.
— Ma che? — esclamò Andrea — non senti il caldo? io butterei via il soprabito e mi metterei a guidare in maniche di camicia.
E sferzava Tetillo che galoppava.
— Perdiamo di vista la carrozza, Andrea — supplicò Alberto, che trovava quel galoppo inopportuno.
— Ora ci fermeremo e aspetteremo.
Erano sulla via di san Nicola, che va da Caserta a S. Maria: Andrea smontò e attese a piedi l’equipaggio, che arrivò dopo un minuto. Francesco, il cocchiere conservava la sua gravità di cocchiere napolitano, malgrado avesse sferzato i suoi trottatori meclemburghesi. Andrea e Alberto si appoggiarono allo sportello e chiacchierarono.
— Vi divertite?
— Oh moltissimo, questa corsa m’innebria — disse Lucia.
— La giornata è bella — soggiunse semplicemente Caterina.
— Sì, ma fa vento — mormorò Alberto, stirandosi un poco, stanco di essere stato rattrappito.
— Dunque possiamo continuare? — domandò Andrea, impaziente.
— Vorrei fare una proposta — disse Alberto — mi raccomando alle signore perchè sia accettata.
— Dilla presto, almeno.
— Abbiate pietà di un povero infermo e lasciatemi venire nella victoria: vi si sta riparati dal vento: vi è questa bella pelliccia che garantisce le gambe.
— E Andrea resta solo nel phaéton? — osservò Caterina.
— È vero — disse, riflettendo, Alberto, — come si potrebbe fare? Farlo venire con noi, metterci tutti nella carrozza: ma allora il carrozzino chi lo guida? Una delle signore vuole andare sul carrozzino?
Le due si guardarono, consultandosi, e dissero di sì. Andrea non interveniva, stava a sentire, raggiustando il fiocco della sua frusta.
— Ci andreste voi, signora Caterina? — continuò Alberto che voleva assolutamente andare nella carrozza. — Ma no, non conviene: staremmo moglie e marito, poi marito e moglie. Faremmo una figura ridicola: ci griderebbero dietro: oh gli sposi! Lucia, hai paura di andare sul carrozzino?
— Io non ho paura di nulla — disse ella distratta.
— Bè, fammi il favore — vacci tu con Andrea. Lo pregheremo di guidare piano per non farti venire il nervoso. Me lo fai proprio questo favore?
— Figurati, Alberto mio. Stavo tanto bene con Caterina, ma poichè si tratta di non farti prendere vento...
Andrea aperse lo sportello, ella discese, leggiera, mostrando lo stivalino inarcato, di color bronzo. Salutò Caterina, mentre Alberto si accomodava in fondo alla victoria tutto beato.
— Signora Caterina, bisogna sopportare gli ammalati. Fingete di essere una infermiera.
Ella gli rivolse il suo sorriso buono e paziente. Andrea e Lucia, senza parlarsi, si avviarono verso il carrozzino. Egli l’aiutò a salire, dopo montò lui, e ambedue, voltati verso la carrozza, salutarono di nuovo. Poi, via di carriera.
— O amore mio, o amore mio bello... — mormorava Andrea, lasciando quasi le redini al cavallo.
— Portami via, portami via — gli mormorava ella, guardandolo di sotto in su, con gli occhi illanguiditi.
— Non guardarmi così, maga — disse Andrea, ruvidamente.
— Io ti amo.
— Ed io, ed io? come t’amo, non puoi capirlo.
— Lo so. Perchè non mi scrivi?
— Ti ho scritto venti volte, ho stracciato le lettere. O Lucia mia, come sei bella, come sei cara!
Oh, era cara, accanto a lui, stretta nell’abito come in una corazza, coi piedini incrociati le cui punte si baciavano, con l’aria appassionata del volto sotto la falda del cappello. Sembrava una bambina innamorata, dal mento roseo e dalle guance delicate che il venticello rinfrescava, dai capellucci neri che svolazzavano sulla fronte.
— Ora lascio le redini e ti abbraccio.
— No, no, ci guardano.
— E tu non essere così cara, e tu non mettermi fuoco nella testa.
Correva, correva il cavallino, inarcando il collo, quasi danzando: l’equipaggio veniva dietro, a sessanta passi.
— Mi sono dannato in questi giorni.
— Non dirlo: io ne morivo. Mi vuoi bene?
— Perchè me lo chiedi? lo sai, lo sai tanto, lo sai tutto.
— Non lo so, non lo so — disse Lucia, tutta carezzevole.
— Lucia, mi fai impazzire, se mi parli con quella voce. Vuoi che ti prenda e ti porti via, qui, sulla strada maestra?
— Sì, sì, sì: portami via. Questo voglio, che mi porti via.
Lo provocava con l’occhio, con le labbra, col piedino che si strofinava contro quello di lui.
— Abbi compassione di me, amore mio. Vedi che muoio.
Per breve tratto tacquero. Egli guardava innanzi a se, per non cedere alla tentazione, mordendosi le labbra. Ma vi ricadde, a guardarla di nuovo: ella gli sorrideva con le labbra stirate che mostravano i denti, un sorriso tutto febbre, tutto carezze.
— Quanto sei cara! Perchè ridi?
— Non rido: sorrido.
— Alle volte, Lucia, mi fai paura.
— Paura di che?
— Non so: non ti conosco e sei tanto padrona di me, sono tanto tuo, tanto schiavo di te, che mi spaventi.
— Non dicesti di essere pronto a tutto?
— Sì: te lo dico ancora.
— Bene. Prepara il tuo coraggio.
Ella era diventata seria, la fronte tagliata da una grande ruga, le sopracciglia corrugate, l’occhio cupo.
— O non dirmi queste cose, non tormentarmi, non essere così severa. Sorridi come prima: sorridi, te ne prego.
— Non voglio sorridere — disse Lucia, duramente.
— Se non sorridi, butto la carrozza su quel mucchio di sassi e ribaltiamo e moriamo — disse Andrea, preso dal furore.
Ella sorrise stranamente, ferocemente e con dolcezza gli disse:
— Ti amo. Sei pazzo e sei fanciullo. Mi piaci.
Andrea tirò le redini al cavallo in un moto istintivo; il galoppo fu rallentato.
— O Lucia, tu sei una strega.
— È vero. Bada che io ti ho dato un filtro. Non risanerai mai più: io sarò la tua malattia, la tua febbre, il tuo malore inguaribile.
— Oh no: sii la mia salute, sii la mia forza, sii la mia freschezza.
— Il fuoco è migliore della neve, il tormento è più squisito della gioia, il morbo è più poetico della salute — disse Lucia con voce squillante, rizzandosi accanto a lui, l’occhio lampeggiante, dominandolo.
Andrea abbassò il capo, soggiogato.
Ritornavano. A Santamaria i due equipaggi si erano arrestati, la victoria aveva raggiunto il carrozzino. Avevano chiacchierato un poco, da una carrozza all’altra. Alberto diceva che stava benissimo, che si era lungamente fatto spiegare dalla signora Caterina come si fa lo sciroppo di more, che è eccellente per i bronchi deboli: in quanto a lui, le aveva narrato un suo viaggio a Parigi. Caterina approvava col capo, ella non si annoiava mai. Poi erano ripartiti, il carrozzino alla testa, la carrozza dietro. Calava il sole.
— O Dio, ce ne andiamo — si lagnava Lucia, malinconica — ce ne andiamo, finisce questa bella giornata, così. Chissà se ne avremo un’altra!
— Che pensieri! Non fantasticare, Lucia, non ti far crucciare dai sogni. La realtà è che ti amo. La realtà è bella.
— Questo amore è un delitto — mormorò ella.
— Lucia, sii buona: non ripetermi queste brutte cose che mi fanno disperare.
— Noi siamo due grandi colpevoli.
— Lucia, tu lo fai apposta per avvelenarmi quest’ora di gioia.
— E che uomo sei tu che non sai sopportare il dolore? Che vigliaccheria è questa? Sei forte solo nei muscoli? Io ti ho amato perchè ti credevo forte.
— Io sono debole innanzi a te. Solo la tua voce può rallegrarmi o contristarmi: tu puoi darmi la forza o levarmela. Non abusare di questo potere.
Così, erano arrivati alla lite sentimentale, a cui ella lo trascinava dal principio della passeggiata.
— L’amore non è una cosa allegra, Andrea: ricordati che l’amore è una tragedia.
— Non guardarmi così, Lucia. Sorridimi come prima: eravamo così felici prima!
— Non si può essere felici sempre. La felicità è un peccato, la felicità si sconta — sentenziò lei.
Egli voltò il capo e tacque, profondamente contristato. Non sferzava più il cavallino e Tetillo se ne andava a mezzo trotto. Voltandosi, Lucia vide la victoria a poca distanza. Un lampo le passò negli occhi.
— Sferza, Andrea, sferza — disse — presto.
Il carrozzino partì come una freccia. Ella, per reggersi, passò il braccio sotto quello del guidatore e, la testa eretta, i capelli al vento, si dava al piacere della corsa.
— È la steppa, la steppa — mormorava, sognando.
— Amore, amore, amore... — ripeteva Andrea, preso dalla follìa della corsa.
Sfilava, sfilava il carrozzino: essi non guardavano più indietro, non vedevano il doppio filare di alberi che fuggiva, nè le carrozze che incontravano, nè la polvere della strada che si sollevava in una nuvola. Volava il carrozzino e pareva una cosa fantastica, un carro alato.
— Dammi un bacio — disse Andrea, strozzato dal desiderio.
— No: ci sono alle spalle, ci vedono.
— Dammi un bacio.
Allora ella aprì il suo largo ombrellino di tela bianca foderato di azzurro e se lo passò sulla spalla: quella cupola li proteggeva ambedue, le due teste vi si potevano nascondere. Avanti, nessuno: nessuno nei campi. E lì, mentre fuggiva il carrozzino, in piena luce, si baciarono lungamente sulle labbra.