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148 | eugenio anieghin |
faccia di Taziana, la quale più bianca che la luna di mattina, e più tremante della capriola inseguita dai cacciatori, non ardisce levar gli occhi ottene brati. Un ardore insolito le serpe per le membra; si sente soffocare; non ode i complimenti che le fanno i due amici; quasi quasi le sgorgano le lacrime dagli occhi e sta per cadere in deliquio. Ma la volontà e la ragione trionfano di quella debolezza momentanea. Mormorò fra i denti due o tre parole di ringraziamento e rimase a tavola.
Eugenio non poteva più soffrire le scene tragico-isterico-buffe degli svenimenti femminili; ne aveva vedute tante! Già gl’incresceva assai d’essersi lasciato cogliere alla trappola d’un gran banchetto. Ma quando osservò l’agitazione e il languore della giovinetta, abbassò gli occhi dalla stizza, maledì Lenschi, giurò di fargli dei rimproveri e di vendicarsi in regola. Frattanto, per passare il tempo si diverte a schizzar mentalmente la caricatura di tutti i convitati.
Ma sia lode al vero: Eugenio non osservò soltanto la confusione di Taziana. Tosto attrasse la vista e l’attenzione sua un pasticcio di carne che per gran sventura era troppo salato. Poi venne fra l’arrosto e il blanc manger una bottiglia di vino di Zimlianschi1 sigillata. Portano per beverlo un assetto di bicchieri lunghi, sottili e svelti come la tua vita, o Zizi, vas d’elezione dei miei versi, bicchiere dell’anima mia, che m’hai tante volte inebriato d’amore!
- ↑ Vino di Crimea.