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eugenio anieghin | 143 |
ardisce volger indietro gli occhi; ma non può sottrarsi alla assiduità di quel turpe lacchè. Arrivano a una selva. Gli abeti stanno immobili nella loro accigliata maestà; i loro rami curvansi sotto il peso della neve; il raggio delle lampade celesti penetra scintillante nella chioma dei pioppi, delle betulle e dei tigli nudi; cessa ogni indizio di strada la neve ingombra tutto e i cespugli e i burroni. Pur Taziana avanza sempre, sprofonda nella neve sino alle ginocchia. Un lungo ramoscello le si avvinghia al collo e le strappa gli orecchini d’oro. Essa perde ora una scarpa ora il fazzoletto e non osa raccoglierli, e si vergogna persino di sollevare il lembo della gonna. Piange; ode grugnir l’animale che la incalza; corre; egli corre pure. Ansante, priva di forze e di fiato, Taziana cade; l’orso destramente la rialza e se la pone indosso. Essa non resiste, non si muove, non respira. Egli la porta a traverso il bosco. Approdano a un miserabile tugurio mezzo seppellito fra la neve. Tutto tace intorno ma dentro la capanna rimbomba un suon di voci e di stromenti. — “Qui sta il mio compare,” grida l’orso; “entra e riscaldati un poco da lui.” E così dicendo s’inoltra nel vestibolo e depone Taziana sulla soglia.
La fanciulla torna in sè e ode un gran tintinnio di bicchieri come a un convito di funerali. Non comprendendo niente a ciò che succede, s’avvicina pian piano e per un fesso della parete, vede.... Vede tanti mostri seduti a mensa: uno ha muso canino e corna bovine; l’altro ha una testa di gallo; quà una strega con barba di becco, là uno scheletro attillato e altero; più in là un nano con una coda esile, e mezzo gru, mezzo gatto.