Eh! La vita/Don Mignatta
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DON MIGNATTA
Andava attorno da mattina a sera per tutte le viuzze del paesetto, lentamente, come uno che non ha fretta, fermandosi a discorrere con le donne che filavano al sole, picchiando con discrezione a un uscio, entrando in qualche casa con un melato «Deo gratia» prima di varcare la soglia della porta trovata aperta: e tutti sapevano perchè quello spilungone magro, nero come il pepe, con pochi capelli che gli coprivano appena la nuca si aggirasse per le vie, vero fantasma di malaugurio. Per questo gli avevano appiccicato il soprannome di «Don Mignatta»; andava qua e là a succhiar il sangue della povera gente, peggio di una mignatta, tanto alla settimana, tanto a ogni quindici giorni, tanto a ogni mese! Ed era il termine più lungo che egli solesse accordare.
Vedendogli cavar di tasca il portafoglio unto e bisunto, pieno zeppo di pezzetti di carta che sembravano ricette, le povere donne, specialmente, si sentivano venire i brividi. Egli cercava, brontolando, il nome scritto in testa al quadretto di carta, che a furia d’essere passato e ripassato umettando l’indice per facilitare l’operazione, portava agli angoli giallastri le impronte del polpastrello; un sudiciume! E appena lo aveva trovato, esclamava, con un sospirone:
— Eccoci qua!
Voleva mostrarsi scrupoloso, rifare i conti, dar ragione fin dell’ultimo centesimo esatto la settimana scorsa, quindici giorni fa, un mese addietro; era suo dovere; e cominciava a masticare, a spazientirsi se vedeva che gli altri non facevano il loro dovere come lui, cavando fuori i soldi, le lire di quei miseri interessi che non bastavano a pagargli le scarpe logorate «tessendo» le vie del paese, poichè era inutile attendere che i debitori si scomodassero un po’ andando da lui!
Pestava i piedi, si metteva a piagnucolare, s’irrigidiva su la seggiola: — Non mi muovo di qui! Soldi devono essere!... O vendo l’anello, o gli orecchini, o la crocetta, o la spilla! — Non dava nulla senza pegno, e i pegni li valutava lui, a modo suo. E quando aveva detto: tanto! non lo smoveva nessuno.
Stava in casa fino alle dieci, anche per sorvegliare la stracciona orba di un occhio che gli faceva i servigi ripulendogli le stanze, preparandogli il desinare. Le persone costrette a ricorrere da lui sapevano di trovarlo in casa fino a quell’ora.
— Per prendere, vengono; per restituire, non trovano mai la via! E devo far lo svegliarino, l’esattore, il servitor loro!
Dicevano che era «manesco» con le donne, nel senso di intraprendente. Ma non era vero. Per lui, gli affari innanzi tutto. Non gli dispiaceva però che lo credessero audace. Si mostrava tale quando andavano da lui tre o quattro donne a una volta, quasi avessero paura a presentarsi sole. Diceva delle barzellette, delle porcheriole, secondo le persone; rideva lui il primo, faceva ridere: intanto non perdeva di vista gli oggetti da valutare, li pesava con la bilancetta, prendendo delicatamente tra due dita uno, due chicchi di grano per l’esattezza del peso.
Se si trovava però da solo a solo con la bella moglie di qualche operaio o contadino, rimaneva serio, teneva gli occhi bassi, per paura di sentirsi trascinato a fare qualche sciocchezza: non si sapeva mai! E lui sciocchezze che potessero costargli quattrini non voleva farne, perchè, diceva, le donne non ci rimettono niente e i quattrini buttati via per esse non ritornano più in tasca.
Erano insinuanti quelle malefiche bestie! Si mettevano a piangere, gli si buttavano ai piedi se egli resisteva, soltanto, s’intende, quando non era ben sicuro della puntualità dei pagamenti settimanali, o quindicinali, o raramente mensili.
Coi contadini, con gli operai invece si mostrava di una brutalità che voleva sembrare affettuosa.
— Avete voluto ammogliarvi? Peggio per voi... Via! Via! Per sfamare la famiglia! Andate a contarlo a qualch’altro!... Di che si tratta? D’una veste di vostra moglie per Pasqua? D’uno scialle per le feste della Madonna? E vi fate infinocchiare! Già, io parlo contro il mio interesse. Che me ne importa se v’indebitate? Anzi! Purchè siate puntuali... C’è il pegno! Sicuro! Se non facessi così, potrei andare a chiedere l’elemosina di porta in porta, con la malafede del giorno d’oggi.
A qualcuno diceva anche:
— Lo so; mi chiamate Don Mignatta! Ma dovete ringraziar Dio che don Mignatta esista. Don Provvidenza dovreste chiamarmi!... Ah!... Sì, è vero?
Nonostante i pegni coi quali avrebbe potuto pagarsi il triplo di quel che aveva prestato, a ogni nuova operazione provava sempre, dopo tanti anni, la sensazione di una piccola stretta al cuore nel contare il denaro, quasi non dovesse rivederlo più. E si rimproverava: Ti fai la jettatura da te stesso!
Si metteva però di buon umore tutte le volte che veniva da lui quel nanetto con due gobbe, una davanti e l’altra di dietro, ma tutto lisciato, tutto agghindato, con aria spavalda, da conquistatore di donne, quasi fosse convinto che le donne non avessero occhi.
Per don Mignatta il cavalier Giunta era proprio un portafortuna. Lo accoglieva a braccia aperte, se lo faceva sedere vicino:
— Caro cavaliere, in che posso servirla? Ai suoi comandi.
— Ecco qui: al solito!
E il cavaliere si toglieva dal panciotto la catena con l’orologio d’oro, e li deponeva su la scrivania — come segnale e non altro — fingeva di scusarsi. Don Mignatta, che intanto aveva cavato dal cassetto una scatola per riporvi orologio e catena:
— Guardi: è la sua. La tengo a posta da parte.
Ogni volta, accompagnando il cavaliere fino all’uscio, don Mignatta faceva in modo di palpargli la gobba di dietro, pel buon influsso. Quella mattina appunto don Mignatta si era rallegrato di vederlo arrivare nel momento in cui non sapeva decidersi ad accettare una proposta di prestito più rilevante delle ordinarie sue operazioni.
— Il cavaliere! — aveva esclamato dentro di sè. — L’affare andrà bene!
E perchè andasse benissimo eccesse nel palpargli la gobba; fu quasi sgarbato. Il cavaliere, che aveva capito, s’indignò, come se quello gli avesse detto: Siete un gran gobbaccio!
— Dovrei insegnarvi l’educazione e spaccarvi la testa con questo qui! — brandiva l’esile bastoncino. — Prendete! Rendetemi catena e orologio! Non ho più bisogno del vostro sporco denaro!
Gli aveva buttato su la scrivania tre biglietti di banca da dieci lire e aveva steso la mano alla scatola dove erano stati conservati catena e orologio.
— Ma perchè?... Ma perchè? Che si è figurato? — balbettava don Mignatta, mentre il cavaliere rimetteva all’occhiello del panciotto la catena e l’orologio nel taschino. — Ma scusi, perchè? — insisteva accompagnandolo fino all’uscio, tentando di fermarlo e sfiorandogli involontariamente la gobba con la punta delle dita della mano sinistra, per ultimo scongiuro.
Il cavaliere era andato via a testa alta tra le due gobbe, senza voltarsi addietro. E a don Mignatta era parso che la sua buona fortuna fosse sparita con lui.
⁂
— E gli imbecilli dicono che non è vero! — pensava don Mignatta scotendo compassionevolmente la testa!
Maggior prova di questa che da quel giorno in poi gliene erano accadute tante, una peggio dell’altra?
Tardi si accorse che la più grande disdetta se la era preparata con le sue stesse mani, la mattina che venne a casa sua la bella moglie di Zùccaro, erbivendolo e rivenditore di formaggio al minuto.
Era la prima volta che comare Grazia Zùccaro, ricorreva a lui. Di nascosto del marito, dichiarò sùbito.
— Male! Male! — la rimproverò don Mignatta sorridendo, mangiandosela cogli occhi.
— Glielo dirò dopo. Cinquanta lire. Lascio in pegno questi orecchini.
E se li cavò con quelle belle mani bianche, delicate, che sembravano mani di principessa al povero don Mignatta, quantunque egli non avesse mai visto mani di principessa di nessuna sorta.
— Belli! — egli fece, osservandoli. — Regalo di nozze, eh?
Tutt’a un tratto, irriflessivamente, aperse il gancio di uno degli orecchini e, con un po’ di tremito nella voce, disse:
— No: devono stare al lor posto! Permettete; voglio rimetterveli io.
Ella lo guardò stupìta, e lo lasciò fare.
— È pratico, si vede. E così...?
— Queste son le cinquanta lire; me le riporterete a comodo vostro.
— Che dirà mio marito? Non le accetto.
— Se non sa nulla!
— Sa. Ho detto: di nascosto di mio marito, perchè — capisce — un bottegaio come lui... È vero che i quattrini possono mancare al re che li stampa. Gli è andato per aria un affare...
— Accettatele senz’altro. Fate onore al vostro nome. Non vi potevano chiamar meglio: Grazia! E Zùccaro per giunta!...
E siccome ella stendeva la mano, esitante, per riprendere il biglietto da cinquanta lire, don Mignatta soggiunse: — A vostro comodo!
Ci mancò poco che non si chinasse per darle un bacio sui capelli.
O ch’era impazzito tutt’a un tratto? Se ne maravigliò durante una settimana. Se la vedeva davanti, seduta là, con le mani da principessa che sganciavano gli orecchini, bianca e rosea, delicata, che era un peccato mortale fosse moglie di un erbivendolo e rivenditor di formaggio al minuto! Pensava anche alle cinquanta lire che tardavano a tornare a casa, quantunque in quei giorni Zùccaro, vedendolo passare davanti alla bottega, lo avesse salutato in maniera significativa, quasi per rassicurarlo: Non dubiti: le riavrà!
Infatti, all’ottavo giorno, don Mignatta diventò fin spiritoso all’arrivo della donna:
— Ecco la Grazia che mi porta lo zucchero! Troppa fretta!
— Ora viene mio marito — rispose quella mettendosi a sedere.
Don Mignatta si sentì buttare addosso un catino d’acqua fredda. Per darsi un contegno, spiegò il biglietto guardandolo contro luce.
— È di quelli falsi — disse comare Grazia, un po’ piccata di quest’atto di diffidenza. — Non ne abbiamo altri.
E diè in una bella risata che parve illuminasse quella brutta stanzaccia.
Entrò il marito:
— Deve scusarmi. Io non avrei mai osato, quantunque non ci fosse stato niente di male. Uno domanda: Acconsentite a questo e questo? E l’altro può rispondere: Sì! No! E amici più di prima. Ma questa qui — le donne, quando si mettono in testa una cosa, picchia, ripicchia, non ci lasciano in pace! — questa qui: Io ne parlerei a don... Calogero — ci corse poco che non gli scappasse detto don Mignatta! — Lui può favorirci, se vuole; senza suo interesse, s’intende... È stato così gentile, figurati! Non ha voluto neppure il pegno!
Don Mignatta spalancava gli occhi e gli orecchi sentendo che c’entrava lui...
— Se posso... con le mani e coi piedi, come suol dirsi!
Allora parlò la donna, coi gesti, con gli occhi, col sorriso delle belle labbra tumide e voluttuose, modulando la voce come un gorgheggio, incalzando di mano in mano che don Mignatta, da rigido mentre parlava il marito, era già arrivato a scotere lievemente la testa approvando.
— Ah! Se vossia mi dà questa sodisfazione!
E a don Mignatta parve che, così parlando, gli promettesse tutte le gioie del paradiso.
E fu davvero una bella sodisfazione per comare Grazia lo stare dietro il bancone della merceria rilevata dalle mani di mastro Ignazio Cerasa, con gli scaffali ripuliti a nuovo, rifornita di merci di ogni genere, con le vetrine mobili ai lati della porta, dove stavano esposte tante belle cosette che facevano fermare la gente e servivano di richiamo.
Don Mignatta era socio, ma nessuno, da principio, lo sospettava. Zùccaro non aveva smesso, per ora, la bottega di erbivendolo e di rivenditore di formaggio a minuto. La merceria era pochi metri più in là, nel centro della Piazza: e don Mignatta che vi passava lunghe ore seduto a covare con gli occhi la bella merciaia, cominciava a seccarsi di vederlo comparire, di tratto in tratto, in maniche di camicia, o sbracciato con addosso il puzzo dei cavoli, delle lattughe, delle cipolle e degli agli rimestati, con le mani che sitavano di pecorino o di piacentino col pepe!
E, tra la ressa degli avventori e la presenza di lui, erano già passati parecchi mesi senza che don Mignatta trovasse un momento opportuno per rammentare alla merciaia le parole che gli erano parse come una promessa.
— Se vossia mi dà questa sodisfazione!...
Sì, ogni sera facevano i conti di cassa: gli affari andavano benone; poi Zùccaro ritirava le vetrine mobili, chiudeva la merceria. — Buona sera! Buona sera! — e marito e moglie andavano via!
Intanto don Mignatta trascurava i suoi piccoli affari, i più fruttuosi. Faceva un giretto per le vie, picchiava all’uscio di una debitrice morosa, entrava — Deo gratia! — in una casa dove trovava la porta aperta; ma pareva si stancasse sùbito di «tessere» vicoli e vicoletti; e andava a prendere il suo posto davanti al bancone dal lato della lucida bilancia di rame; e talvolta aiutava comare Grazia a pesare lo zucchero, il caffè, a fare il cartoccio con la carta straccia azzurra. Gli avventori cominciarono a diffidare di quella mano d’intruso. Qualcuno ebbe a dirgli:
— E voi che c’entrate?
— C’entro.... giacchè c’entro!
Veniva a far spesa anche il cavalier Giunta, con le due gobbe una davanti e l’altra di dietro, lisciato, agghindato più che mai, con la consueta sua aria spavalda: non si degnava di salutare don Mignatta, e mentre la maestra — ora la chiamavano anche così perchè moglie di mastro Zùccaro — gli pesava un quarto di zucchero o un quarto di caffè, il cavaliere le diceva tante cosine amabili, impertinenti, che la facevano ridere, e la divertivano, a quel che pareva, se indugiava tanto nel fare i pacchetti e legarli; e gli dava la mano, poichè il cavaliere le porgeva la sua.
— Grazie! A rivederla!
E il cavaliere andava via a testa alta fra le due gobbe, soddisfatto, senza salutare don Mignatta che gli borbottava dietro:
— Gobbaccio maleducato! Non dovreste dargli l’onore di stendergli la mano....
— I gobbi portano fortuna! — rispondeva la merciaia.
Ed era quasi dargli una pugnalata, tanto don Mignatta ora odiava il cavaliere.
Un giorno che don Mignatta non si trovava là, il cavaliere disse alla bella merciaia:
— Come non la scacciate via quella malombra? Vi porterà sfortuna. Sapete che si dice in paese? Che è innamorato di voi, che vi fa la corte... perchè vi ha prestato i quattrini per rilevare la bottega dalle mani di maestro Ignazio Cerasa.
— Lui? Grazie a Dio, non abbiamo bisogno di nessuno — ella protestò vivacemente. — È quell’infamaccio di Cerasa che sparge queste voci, per invidia!...
Invece era lui che, da gobbo malizioso, aveva capito prima degli altri la compartecipazione di don Mignatta nella merceria di Zùccaro, e voleva guastargli le uova nel paniere a quel marcio usuraio. Non immaginava, oh no! che la merciaia fosse capace... No! No! Ma quello si lusingava... E poi con le donne non c’è da scommetterci sopra. Perciò ripetè, dopo, le stesse parole al marito:
— Sapete che si dice in paese?
— E voi, cavaliere, ci credete? — rispose Zùccaro, accigliato.
— Io?... Ve la prendete con me?
Il gobbo ebbe paura, e non fiatò più, con nessuno.
Zùccaro, il giorno appresso, si presentò in casa di don Mignatta, con faccia burbera e occhi aggrottati.
— Facciamo i conti!
— Quali conti?... Perchè?
— E trovatevi un’altra bottega da andarvi e sedere; nella mia, fateci il crocione.
— Anche questo?... Perchè?
— Ottocentosessanta lire. Ve le restituirò a cinquanta lire al mese.
— E gli interessi? — balbettò don Mignatta.
— E lo zucchero, e il caffè, e le altre cose che avete prese nella merceria non contano niente?
— Ma i danari li ho messi fuori io!... Devo sorvegliare io la bottega... quel che entra, quel che esce...
— Cinquanta lire al mese... e non fiatate più!
— Vostra moglie però...
— Zitto! — lo interruppe Zùccaro. — Non siete degno neppur di nominarla. Che vi eravate messo in testa?... Che vi eravate messo in testa?...
Don Mignatta si era sentito salire tutto il sangue al cervello. E vedendo che Zùccaro gli agitava, minacciosamente, i pugni sul viso, fu preso da tale terrore, che cominciò a indietreggiare vacillando, annaspando con le braccia, balbettando:
— Sì! Sì!... Cinquanta lire al mese!... E gli.... interessi?.... Eh? Eh? Eh?
— Don Calogero! Oh Dio! — esclamò Zùccaro, spaventato alla sua volta. — Don Calogero!
Lo mise a sedere su la seggiola a braccioli davanti a la scrivania, scotendolo per farlo rinvenire.
C’era mancato poco che don Mignatta non fosse andato improvvisamente a succhiare il sangue dei poveri dell’altro mondo, se questo accade anche colà.
Invece, riavendosi, cominciò lui a minacciare:
— La bottega è mia!... È sangue mio! C’è la giustizia per farvelo ricordare.
— Vi ho detto: cinquanta lire al mese, perchè sono persona onesta. Potrei rispondervi: Chi vi ha visto prima d’oggi? Avete forse carte? Ci sono testimoni?
— Ah! Vi abusate della mia buona fede!
— E voi... che vi eravate messo in testa, voi? Dovrei gridare in piazza: — Ecco cinquanta lire di quel ladro di don Mignatta! — E spartirle tra i poveretti che avete strozzati... Non temete: ve le porterò, puntualmente, a ogni primo di mese. E se durante questo tempo... — la vita e la morte sono nelle mani di Dio — vi farò dire tante messe con quel che rimarrò a darvi.... se pure vi gioveranno!
— Grazie! Grazie!... Fate bene a questo mondo; ve lo rendono così!... Ma ride bene chi ride l’ultimo. Voglio essere io! Domani mi pianterò davanti alla bottega...
— Provateci!
— Non ho paura di nessuno!... Che vi figurate?
Rosso in viso, quasi con la schiuma alla bocca, sembrava diventato più don Mignatta del solito.