Duemila leghe sotto l'America/XIII. Il lago di petrolio
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | XII. Le torture della sete | XIV. Un lago in fiamme | ► |
CAPITOLO XIII.
Il lago di petrolio.
Se l’ingegnere avesse gridato: I tesori degli Inchi! probabilmente nessuno degli uomini che giacevano in fondo al battello come morti, si sarebbero scossi. Ma quell’urlo strozzato e ripetuto per tre volte di: l’ac...qua!... l’ac...qua!... l’ac...qua!... li fece balzare in piedi come se fossero stati toccati da una pila elettrica. Morgan dapprima, Burthon dopo, O’Connor ultimo, con uno sforzo supremo alzarono la testa, poi si rizzarono sulle ginocchia cogli occhi semi-spenti, le labbra aperte, i pugni raggrinzati, gli orecchi tesi.
— L’ac...qua!... l’ac...qua!... ripetè sir John aggrappandosi alla barra del timone.
Morgan lasciò sfuggire un rauco suono dalle screpolate labbra.
— Do...ve? burbugliò. Do...ve?...
L’ingegnere non rispose. Curvo innanzi, cogli occhi sbarrati, rattenendo il respiro, ascoltava in preda ad una terribile ansietà.
In lontananza si udiva un cupo fragore, come se una massa d’acqua si slanciasse da una grande altezza frangendosi sulle rocce. Non vi era più dubbio: un mezzo miglio più insù c’era una cascata e forse quell’acqua era dolce.
Un terzo urlo sfuggì dalle labbra dell’ingegnere.
— Ac...qua!... Ac...qua!...
Il macchinista con uno sforzo disperato si alzò. Afferrò un grosso pezzo di carbon fossile, s’avvicinò, barcollando, alla macchina, aprì il forno e lo scagliò dentro.
Il fragore della cascata, man mano che l’Huascar procedeva, diventava sempre più distinto, e le due gigantesche muraglie, che per parecchie centinaia di miglia avevano conservato la loro altezza e la loro ripidità, mostravano profonde fessure e inclinazioni più dolci. Cinquecento metri più innanzi, la muraglia di sinistra improvvisamente si abbassò cangiandosi in una sponda alta poche dozzine di piedi.
Sir John, che teneva gli occhi fissi su quei baluardi, cacciò la barra a destra nel mentre Morgan frenava la macchina. Il battello, trasportato dal proprio slancio, urtò contro la riva arenandosi colla prua su di un dolce declivio.
— La ca...te...ratta! esclamò l’ingegnere con intraducibile accento, additando la nera massa delle rocce.
Facendo sforzi disperati, quei quattro uomini si gettarono fuori del battello e ora camminando come ubbriachi, ora strisciando come serpenti, aiutandosi l’un l’altro, raggiunsero la cima della sponda.
A trenta passi, una enorme colonna d’acqua, dopo un salto di cento e più metri, frangevasi dentro un largo stagno contornato da grossi massi sventrati, minati, polverizzati da quel formidabile e incessante urto.
Sir John e i suoi compagni con un ultimo sforzo raggiunsero lo stagno e si lasciarono cadere sulle sue sponde tuffando avidamente le labbra, la testa e le mani nelle fresche e limpide onde. I disgraziati bevevano, bevevano, bevevano, senza arrestarsi, senza quasi respirare, emettendo urla di trionfo, urla di pazza gioia.
— Bevo! Bevo! gridava Burthon fuori di sè.
— S. Patrick sia ringraziato, balbettava l’irlandese che aspirava l’acqua come una tromba.
E bevevano tutti, e la sentivano correre fresca fresca per la bocca e scendere nel loro stomaco arso come la loro gola, come la loro lingua, come le loro labbra. Pareva che non dovessero finire più; pareva che volessero esaurire lo stagno e ingoiare la stessa colonna d’acqua che rimbalzava sulle rocce spruzzando le loro teste e i loro abiti.
— Basta, disse finalmente sir John, strappandoli uno ad uno dalle rive. Se continuate ancora un poco vi guadagnerete qualche serio guaio.
— Ah! come è eccellente quell’acqua lì! esclamò il meticcio. Il gin, il brandy, il wisky, il porter non valgono nulla in confronto di quest’acqua. Chi avrebbe detto che io mi sarei ubbriacato d’acqua?
Spenta la sete pensarono a mangiare. Da venti a venticinque ore non avevano messo sotto i denti un pezzo di biscotto e si sentivano sfiniti. O’Connor s’affrettò ad accendere un gran falò con un barile sfondato e alcuni pezzetti di carbone, empì il pentolone di carne, di legumi, di riso e lo mise a bollire mentre Burthon friggeva dei larghi pezzi di presciutto.
Due ore dopo sir John e i tre cacciatori si sedevano a terra e assalivano vigorosamente quel pasto che in un batter d’occhio scomparve nei loro stomaci. Vuotata una tazza di wisky, accesero le pipe e si sdraiarono fra le rocce.
— Sir John, disse Burthon, che girava la testa a dritta e a sinistra. A che profondità fumiamo?
— A mille duecento piedi, rispose l’ingegnere.
— Corbezzoli!
— Ti spaventi?
— No, ma se questa enorme crosta crollasse?
— Non aver paura che il nostro pianeta si sfasci. Uscì da una semplice bolla d’aria, ma oggi è più solido di una palla di ferro.
— Oh! Avete detto che è uscito da una semplice bolla d’aria....
— E più leggiera dell’atmosfera che noi respiriamo, aggiungerò.
Il meticcio, O’Connor e lo stesso Morgan lo guardarono colla più viva sorpresa.
— Ma è vero quello che dite? chiese Morgan.
— È vero. Quando il nostro pianeta, che or lo vedete così solido, che or lo vedete coperto di acqua e di terra, di montagne immense e di superbe città, cominciò a girare nello spazio non era altro che una nebulosa gazzosa più leggiera dello stesso idrogeno.
— È incredibile, signore.
— Eppure è vero Morgan.
— Se lo dite voi, lo credo. Ma come avvenne un tale cambiamento? Come mai quella bolla d’aria si convertì in un solido pianeta?
— La spiegazione non è difficile. Come ti dissi, la terra era dapprima una gigantesca bolla d’aria che girava attorno al sole e attorno a sè stessa. Questo continuo doppio movimento fece sì, che cominciò, forse dopo migliaia d’anni, a condensarsi e a scaldarsi. Lo sviluppo del calorico, l’influenza dell’elettricità, l’azione multipla e svariata delle forze della natura derivanti, per così dire, le une dalle altre, formarono diverse materie come l’ossigeno, l’idrogeno, il carbonio, l’azoto, la silice, il ferro, il sodio, l’alluminio, ecc. Tutte queste materie, fuse insieme, in breve tempo s’incendiarono e arsero. Ecco adunque la nebulosa cangiata in un globo di fuoco.
— È sorprendente! esclamò Burthon che prestava molta attenzione a quella interessante lezione.
— Sorprendente ma naturale, disse l’ingegnere. Questa massa incandescente, forse per altre migliaia e migliaia d’anni percorse lo spazio la cui temperatura normale pare dovesse essere non inferiore ai 270° sotto zero.
— Attraverso una atmosfera più che agghiacciata, adunque?
— Sì, attraverso uno spazio eccessivamente freddo. Che cosa doveva avvenire? Un raffreddamento, non vi pare?
— È giusto, disse Burthon.
— Dunque la massa infuocata cominciò lentamente a raffreddarsi e l’ossigeno, l’idrogeno e il sodio si convertirono in acqua.
— In acqua, avete detto? chiese Morgan.
— Ci trovi qualche cosa di miracoloso? Il mare non è formato di idrogeno, ossigeno e sodio?
— Avete ragione, signore.
— Continuo: la massa di fuoco a poco a poco si raffreddò, divenne una massa pastosa e acquosa, una crosta ben presto avvolse la palla infuocata. La lotta fra il fuoco, la crosta terrestre e la massa delle acque, fu senza dubbio terribile. Chissà mai quante volte la crosta si spezzò, chissà mai quante volte le fiamme irruppero alla superficie, chissà mai quali spaventevoli terremoti accaddero e quali turbini, quali boati, quali fragori empirono l’aria. Ma la crosta distrutta oggi tornò a formarsi l’indomani, si ingrossò, resistette, tornò ad ingrossarsi, vinse il fuoco e si formò la terra solida come noi la vediamo oggi, incrollabile malgrado le esplosioni dei fuochi che nasconde nel suo centro.
— È meraviglioso! esclamò Morgan.
— Incredibile! esclamò Burthon.
— Ma chiaro, disse sir John.
— E i primi animali come si formarono? chiese il macchinista.
— In modo forse ancora più semplice. Una combinazione di diverse materie formò le alghe, poi alle alghe seguirono i fuchi, gli anellidi, i molluschi, i coralli, le spugne, le madrepore; questi nell’epoca primordiale. All’epoca primordiale seguì il periodo siluriano e questi invertebrati andarono successivamente migliorandosi finchè apparvero i pesci cartilaginosi, poi gli anfibi, ma quasi informi e impotenti di muoversi. Scorsero altre migliaia d’anni e questi animali si perfezionarono, si svilupparono, si divisero. Nell’epoca terziaria gli uccelli già volavano, i serpenti, perdute le gambe, strisciavano. Questi animali ancora si perfezionarono, si divisero e si suddivisero, vennero gli animali giganti, la scimmia, poi l’orang-outan, indi l’uomo.
— Corna di bisonte! esclamò Burton. Discendiamo da una scimmia noi?
— S’intende.
— Non l’aveva mai saputo.
— Ora non dirai più così. Se credete, chiudiamo gli occhi e dormiamo. Mi sento molto stanco.
Si recarono al battello a prendere le coperte e si stesero a breve distanza dalla cateratta, l’un vicino all’altro.
Il sonno non fu affatto tranquillo. Bande numerosissime di audacissimi topi, attirate forse dall’odore dei rimasugli del pasto, assalirono più volte l’accampamento, niente spaventati dal fuoco che ardeva sempre. O’Connor dovette alzarsi più volte e scaricare qualche pistolettata, e Burthon rivoltare il pentolone che veniva colmato da quei feroci roditori.
L’indomani, dopo ben quattordici ore di sonno, empivano i barili d’acqua dolce e s’imbarcavano risalendo il fiume che andava a poco a poco restringendosi.
Le rive erano interamente cambiate. A quegli eterni muraglioni erano succedute bizzarre rocce, nerissime, liscie e che rilucevano vivamente sotto i riflessi delle lampade. Parevano enormi massi di carbon fossile, anzi l’ingegnere più volte fece accostare il battello per assicurarsi co’ propri occhi che altro non erano che rupi, di una durezza senza pari e di una lucentezza veramente straordinaria.
Da due ore circa salivano, quando il fiume piegò bruscamente verso il sud. Quasi subito, un forte fragore, come d’una corrente d’acqua che cade da una grande altezza, giunse agli orecchi dei naviganti.
— Frena! gridò sir John a Morgan.
— C’è una cateratta, disse O’Connor.
— La odo, rispose l’ingegnere. Avanziamo con prudenza.
Il fiume si restringeva sempre più e le sue acque correvano con maggiore rapidità, formando dei gorghi vertiginosi che il battello però superava facilmente. Sir John s’era messo a prua e illuminava la via tenendo la lampada assai alta.
Il fragore s’avvicinava sempre e in breve fu tanto vicino che l’ingegnere e i suoi compagni alzarono la testa credendolo sopra di loro.
— Chiudi la valvola, Morgan! gridò ad un tratto O’Connor.
A cento passi dalla prua, una enorme massa d’acqua precipitavasi nel fiume, sollevando una specie di nebbia che scintillava ai raggi delle lampade. Una parte di quelle acque si gettava nel fiume che l’Huascar percorreva, e l’altra, la più grossa, scendeva verso il sud-sud-ovest. Una specie di sperone formato da immense rupi divideva le due fiumane.
— Quale via prendiamo? domandò O’Connor che era al timone.
— Quella del sud-sud-ovest, rispose sir John, dopo aver osservato attentamente il documento. Avanti, Morgan!
Non aveva ancora terminato il comando che si volgeva colla più viva meraviglia scolpita sul viso. Una corrente d’aria l’aveva accarezzato, ma così leggiermente, così delicatamente da fargli credere che fosse stata prodotta da un ventaglio agitato.
— To’! esclamò. Chi è che agita un ventaglio?
— Un ventaglio! esclamò Burthon non meno sorpreso.
— Sì, qualcuno ha agitato un ventaglio dietro di me.
— È impossibile! Ma... zitto!
Nell’aria s’udì uno strano stridìo. Tutti quattro alzarono gli occhi e scorsero dei punti luminosi, giallastri, correre per le tenebre.
— Degli uccelli! esclamò sir John.
— E degli uccelli notturni, aggiunse Morgan.
— Ma da dove vengono? chiese il meticcio che cadeva di sorpresa in sorpresa.
— Spero che lo sapremo e fra poco. Avanti!
Morgan s’affrettò a raggiungere la macchina. Il battello, spinto dall’elice, entrò nel nuovo fiume che scendeva con una certa rapidità, stretto fra due alte rive, dalle quali si precipitavano numerose cascate. Dopo cinquecento metri, sir John, volendo risparmiare il combustibile che era di già assai scarso, fece spegnere i fuochi.
Il fiume tendeva allora ad allargarsi e diventava assai tortuoso. Di quando in quando apparivano delle nere scogliere sulle quali vedevansi numerosi uccelli dalle pupille grandi, rotonde e giallastre. Alcuni di questi anzi, grossi assai e armati d’un robusto becco ricurvo, volteggiarono sul battello e più d’uno cercò di lacerare la rete metallica delle lampade.
Burthon e O’Connor che bramavano ardentemente un arrosto di carne fresca, cercarono di pigliarne qualcuno, ma non vi riuscirono.
Un’ora dopo l’Huascar girava una grande punta formata da altissime rupi. Quasi subito si sentì un buffo d’aria fresca, ricca d’ossigeno.
— To’! esclamò il meticcio respirando a pieni polmoni. Da dove viene quest’aria vivificante?
— Ci deve essere qualche apertura, disse sir John.
— Signore! signore! esclamò O’Connor. Cosa vedo!...
— Cosa vedi? chiesero ad una voce sir John, Morgan e Burthon.
— Là, là, guardate!... guardate dritta la prua!
Tutti e tre guardarono verso la direzione indicata dall’irlandese. Un triplice grido sfuggì dai loro petti.
— Il sole! il sole!
Un istante dopo l’Huascar lasciava il fiume inoltrandosi in un superbo lago in mezzo al quale scendeva un brillante raggio di sole!