Duemila leghe sotto l'America/XII. Le torture della sete
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CAPITOLO XII.
Le torture della sete.
L’ingegnere non si era ingannato. Un vortice vastissimo, formato dall’incontro di due rapidissimi fiumi, attirava il battello, il quale, rollando, beccheggiando, gemendo, a poco a poco veniva assorbito.
Burthon, O’Connor e Morgan, atterriti, acciecati dalle onde che saltavano a bordo, sballottati dalle disordinate scosse del battello, alla voce dell’ingegnere erano balzati in piedi cercando le lampade. Il macchinista, sentendone una sotto mano, rapidamente l’aprì, strofinò uno zolfanello e l’accese. Uno spettacolo capace di agghiacciare il sangue al più coraggioso uomo della terra, s’offrì tosto ai suoi sguardi.
Dal nord scendeva furiosamente la fiumana che aveva trascinato il battello; dal sud ne scendeva una seconda assai più larga, nera, schiumeggiante; nel mezzo roteava il vortice, immenso, sinistro, rapidissimo, irto di cavalloni e che muggiva in modo orribile.
L’Huascar, abbandonato a sè stesso, vi correva all’ingiro con vertiginosa rapidità e non era più che a sei o sette metri dal centro. Un minuto ancora, forse mezzo, e veniva assorbito, aspirato come un semplice pezzo di legno.
Un urlo di disperazione irruppe dal petto dei quattro uomini che si videro irremissibilmente perduti. Ritti, l’un accanto all’altro, pallidi di terrore gli uni, di rabbia gli altri, contemplavano, impotenti, come affascinati, il gigantesco imbuto che emetteva boati formidabili ripetuti da tutti gli echi delle gallerie e delle caverne.
— Sir John! sir John! gridò Burthon.
— Aiuto, signore! urlò O’Connor pazzo di terrore.
— Alla macchina! gridò sir John. Forse tutto non è perduto.
Morgan si slanciò verso la macchina, aprì il forno e vi cacciò dentro la mano.
— Il fuoco è spento! esclamò. E d’altronde l’elica è spezzata!
Era finita. Il battello, non frenato da alcuna cosa, s’avanzava rapidamente, sbandato sul tribordo, seguendo il pendio rapidissimo di quel mostruoso imbuto. La distanza spariva da un istante all’altro; il giro a poco a poco diventava più piccolo. La catastrofe era imminente.
L’ingegnere, impotente dinanzi a quel mostro mille volte più forte di lui, attendeva con una calma straordinaria che il battello venisse inghiottito. Ai suoi fianchi urlavano Burthon e O’Connor. Morgan, ritornato padrone di sè stesso, tranquillamente si spogliava, sperando forse di uscire ancora da quella tomba.
I secondi passavano rapidi qual lampo. Il battello s’inclinava sempre più a tribordo, e al rossastro chiarore della lampada vedevasi la sua prua immergersi e rialzarsi sulle onde furenti.
Già non mancavano che due metri, quando un cozzo fortissimo avvenne a prua. Sir John comprese subito che qualche cosa di straordinario era avvenuto. Forse un lampo di speranza gli balenò nel cuore. Si slanciò a prua. Un secondo urto, ma meno forte del primo, fece barcollare e indietreggiare di qualche passo il battello. Allungò le mani, si sporse all’infuori, e sentì un oggetto duro e scabroso.
— Amici! compagni! urlò. Aiuto!
Morgan, Burthon e O’Connor prontamente accorsero.
— Cosa è accaduto? chiesero ad una voce.
— C’è uno scoglio, disse sir John. Aggrappatevi e tenetevi saldi.
I tre cacciatori si aggrapparono alle sporgenze della roccia con disperata energia, impedendo così al battello di virare di bordo.
Sir John mise i piedi sullo scoglio. Non aveva più di cinque metri di estensione e sporgeva soli due piedi dalle onde.
— Siamo salvi? chiese Burthon.
— Lo spero. Gettatemi una corda e cambiamo l’elica.
Burthon gli gettò una solida fune e l’Huascar fu legato ad una sporgenza della roccia. Le casse e i barili furono subito portati a prua per rialzare la poppa, indi Morgan e sir John levarono l’elica che non era trattenuta che da alcune viti, e invitarono quella di ricambio.
— Accendi il forno, ora, disse l’ingegnere al macchinista.
— La nostra elica vincerà la corrente? chiese Burthon.
— Non inquietarti, amico. Affrettiamoci, che questo vortice mi fa paura.
Morgan sgombrò il forno del vecchio carbone che era inzuppato d’acqua, lo caricò con quello asciutto rinchiuso in uno dei barili e vi diede fuoco. In venti minuti ottenne la pressione occorrente per mettere in movimento l’elica al massimo grado di velocità.
— Tutto è pronto, signore, diss’egli.
— Prendete i remi voialtri, comandò l’ingegnere, e allontanate il battello dallo scoglio quando io l’ordinerò.
La caldaia brontolava e sembrava impaziente; l’elica mordeva le acque che irrompevano con irresistibile furia fra le sue braccia; il tubo, raddrizzato, vomitava nubi di fumo, le quali, cosa strana, venivano aspirate dal vortice come se là vi fosse una pompa aspirante.
— Avanti! gridò sir John, ritto a timone.
O’Connor e Burthon puntarono i remi contro la roccia, e l’elice turbinò sollevando un largo sprazzo di spuma. Il battello, vigorosamente spinto sul tribordo e cacciato innanzi dall’elica, fendette il vortice rollando fortemente. La sua prua, acuta come un coltello, solida come una rupe, spezzò quei giri concentrici, s’inclinò, poi si raddrizzò balzando sulle onde.
— A tutto vapore, Morgan! gridò sir John.
La battaglia si era impegnata. La corrente, come se le rincrescesse di dover perdere quella preda, urtava con furia, si sollevava in onde, muggiva, ma il battello camminava sotto i vigorosi colpi dell’elica, traballando, alzandosi e abbassandosi, gemendo, come se soffrisse in quella ostinata lotta.
Per due minuti il valoroso Huascar, guidato dalla robusta mano dell’ingegnere, si dibattè fra le spire del vortice, poi ne uscì e si slanciò rapido come una freccia nel fiume che scendeva dal sud, largo quanto il Tamigi a Londra, nerissimo, rapidissimo, fiancheggiato da rocce altissime, liscie, tagliate proprio a picco.
— Urrah! urrah! urlò O’Connor, gettando il remo.
— L’abbiamo scappata bella! esclamò Burthon raggiante di gioia. Brr!.... Tremo ancora dallo spavento nel pensare che a quest’ora sarei dentro a quel negro imbuto.
— Senza lo scoglio, nessuno di noi sarebbe vivo, disse sir John.
— Incontreremo altri vortici? chiese Burthon.
— Chi può dirlo? Sto osservando il documento, ma non segna nemmeno quello lì.
— Percorriamo un nuovo fiume?
— Non te ne sei accorto adunque? L’altro fiume scendeva dal nord e questo scende dal sud.
— Brutta cosa, signore. Consumeremo tutto il nostro carbone e non ne abbiamo che cento chilogrammi!
— Ne troveremo dell’altro. Assaggia l’acqua di questo nuovo fiume.
Burthon cacciò una tazza nella corrente, la riempì e la portò alle labbra.
— Corna di bisonte! esclamò. È ancora salata!
— Siamo perseguitati dalla fatalità, disse O’Connor.
— Non scoraggiamoci amici, disse sir John. Troveremo qualche torrente.
— Ma le rive sono sempre altissime e liscie, signore.
— Speriamo, O’Connor. Cominciando da oggi veglieremo per turno alla macchina.
— È giusto, disse Burthon. I fuochisti e i macchinisti bevono più degli altri. E non abbiamo che quattro litri d’acqua!
— Appena sufficienti per quattro giorni, disse sir John. Aprite bene gli occhi e tendete bene gli orecchi. Forse su quelle rocce scorre qualche torrente.
La giornata trascorse senza incidenti, l’Huascar continuò a salire il fiume con grande rapidità, lasciandosi a poppa una scia luminosa, da credere quasi che del fosforo fosse mescolato a quelle acque.
Le rive non cangiarono mai. Erano sempre altissime e così liscie da rendere impossibile la scalata.
Verso le 8 della sera, O’Connor tentò la salita della sponda destra, che quantunque tagliata a picco e altissima, presentava profonde fessure e alcune sporgenze, ma dopo essersi elevato alcuni metri dovette scendere. Tentò pure la salita della sponda sinistra ma invano.
Sir John e i suoi compagni tennero consiglio. Tutti furono d’opinione di tirare innanzi finchè rimaneva un pezzo di carbone e di rimettere in vigore i quarti di guardia durante le dodici ore della notte.
L’ingegnere e O’Connor s’obbligarono di vegliare nel primo e nel terzo, Morgan e Burthon nel secondo e nell’ultimo.
La notte passò lentamente, ma le pareti conservarono la loro smisurata elevazione e la loro ripidità. Nessun fragore, nessun muggito che indicasse la vicinanza di un torrente o d’una cascata, ruppe il cupo gorgolìo del nero fiume e le rapidissime battute dell’elica.
Il dì seguente ancora nulla. Le due pareti continuavano ad essere quasi sempre eguali, sempre elevate assai, senza una breccia, senza un piccolo seno, senza un fiord. Fu notato solamente che la fiumana correva con maggior furia e che piegava verso il sud-sud-ovest. Un altro litro d’acqua fu consumato e molto carbone scomparve nel forno della macchina, la quale, resa incandescente, faceva soffrire orribilmente i fuochisti.
Il terzo giorno sir John, inquietissimo, fece arrestare più volte il battello per tentare di scalare le rupi, ma senza frutto. Più volte egli si chiese se fosse meglio ritornare indietro, ma s’accorse, con suo grande terrore, che il carbone era scemato in modo spaventevole. Due grandi pericoli adunque li minacciavano: la mancanza d’acqua e la mancanza di carbone! C’era da rabbrividire.
Al mezzodì del quarto giorno, a bordo dell’Huascar non rimaneva che un litro d’acqua.
Alle due del meriggio, dopo una lunga esitazione, quei disgraziati, che si sentivano la gola e la lingua disseccata, vuotavano una parte di quell’acqua. Alle quattro dello stesso giorno, l’ultima goccia scompariva nelle loro gole arse dal calore che sprigionavasi dal forno scaldato a bianco!
Un cupo silenzio regnò a bordo dell’Huascar dopo che l’ultima goccia fu consumata. Sir John, l’audace ingegnere che affrontava la morte senza commuoversi, Burthon, O’Connor e Morgan, erano tutti costernati.
Quando avrebbero trovato l’acqua? che cosa sarebbe accaduto il domani o il posdomani?
Queste erano le domande che spuntavano sulle labbra di quegli uomini, appena inumidite dall’ultima sorsata e di già aride.
Nessuna penna può descrivere le torture provate da quegli sventurati durante le lunghe dodici ore della notte. Alle otto antimeridiane Burthon non era quasi più capace di parlare.
— Signore, balbettò. Una goccia d’acqua, una sola!
— Non ne abbiamo una sola sorsata, rispose sir John con accento disperato.
— Ma dove siamo noi?
— Sotto il Texas, se i miei calcoli non errano.
Burthon lo guardò senza comprendere e ricadde sul suo banco mandando un sordo rantolo.
Altre dodici ore passarono, poi altre dodici.
Da trentasei ore adunque non avevano sorseggiato un po’ d’acqua. Nessuno di essi reggevasi più in piedi.
Le loro labbra, esposte ogni due ore alle vampe della macchina che funzionava rabbiosamente, erano diventate nere e si screpolavano; la loro lingua era secca, dura e rifiutavasi di agire; la loro gola era pure arida e coperta da dure croste. Nessun suono usciva da quelle bocche.
Il quinto giorno la situazione non era cangiata. Il battello correva sempre rimontando la fiumana, che era ancora stretta fra quelle eterne muraglie cadenti a picco. Burthon rantolava in fondo al battello emettendo rauchi suoni; O’Connor, che aveva vuotata una bottiglia dell’orribile olio adoperato per l’illuminazione, rigettava; Morgan, mezzo arrostito dal fuoco della macchina, non dava quasi più segno di vita. Solamente sir John era ancora in sè e stava seduto a poppa, aggrappato alla barra del timone, colla fronte stretta nella mano sinistra.
Altre due ore scorsero — due ore lunghe come due giorni. Il battello, coi fuochi semi-spenti per mancanza di combustibile non avanzava che colla velocità di tre o quattro nodi all’ora, descrivendo dei zig-zag, a rischio di infrangersi contro le rocce. L’ingegnere tuttavia resisteva ancora e faceva sforzi disperati per non rotolare in fondo al battello.
Trasse l’orologio e guardò: erano le dieci antimeridiane.
— È fini...ta, rantolò.
Cercò di alzarsi per avvicinarsi alla macchina, ma le forze improvvisamente gli mancarono, la vista gli si intorbidì e cadde in ginocchio. Ad un tratto con uno sforzo disperato tornò a rizzarsi.
Il suo sguardo si dilatò, scintillò, le sue orecchie si tesero, le sue labbra s’aprirono, un urlo gli uscì:
— L’ac....qua!.... l’ac....qua!.... l’ac....qua!